DECIMO EPISODIO

Spense la radio.

Stroncò le note dilatate di “Dark was the night” con la chitarra di Ry Cooder. «Forza Quaranta, non abbiamo tutta la notte, entri in auto» disse lo sbirro con un gesto della mano, Gregorio entrò in auto, un pannello di plexiglass divideva in due l’abitacolo, in tempi di covid era anche buono, sorrise, il chiarore dell’alba sollevava da quelle campagne gli ultimi strascichi della notte. “Stanno pe finì il turno sti cornuti, per questo stanno a fa a processione”. Gregorio non disse una parola lungo tutto il viaggio, anche perché cosa avrebbe dovuto chiedere. Giunsero finalmente al piazzale della caserma, lo fecero salire per uno scalone indicando sempre con lo stesso movimento di mano. Raggiunsero una stanza in cui uno sbirro burocrate discretizzava fumando alla scrivania come se non ci fosse un domani, «che ha combinato questo?» chiese ai due alzando gli occhi al di sopra delle lenti.

«E’ stato pizzicato sulla statale a bordo di un furgoncino Volkswagen carico di materiale edile, dice che è passato al cantiere dove lavora, mò ce sta da capì: com’è che il capo lo fa lavorare quando tutto è fermo? In secondo luogo: se il capo invece non sa niente, vor dì che il furgone è rubato, e allora qui la storia cambia e per Quaranta so cazzi amari, è vero? Così dicendo diede una pacca sulla spalla. «Vado a prendere un caffè alla macchinetta, tu prendi generalità e impronte, che io penso a chiamare il proprietario del furgone, ah e non te dimenticà di mette a verbale che girava pure senza autocertificazione»

«Si si si metta tutto, dovesse scappà qualcosa» disse stizzito Gregorio»

«Lei non è nella posizione di scherzare caro Quaranta, è in un bel casino, speri solo sia vero ciò che ha detto ai colleghi, e che il suo capo risponda, sennò lei si fa un bel soggiorno qui da noi, tutto pagato, con vitto in camera e pigiama a righe, scoppiò a ridere,  per poi tirare alla sigaretta arroventandola».

Stette annoiato in silenzio, mentre la nuvola di fumo lo sovrastava e nella sua testa risuonava quell’aggettivo, per lui presagio di un qualcosa che non sarebbe andata a finire bene, quel caro, ogni volta sempre lo stesso, ogni volta provava disgusto per quel senso storpiato.

Dalla finestra aperta si vedeva una vecchia su un balcone, che con curiosità senile si spostava per continuare a vedere ciò che accadeva nella stanza. «Insomma, voglio andarmene al più presto da qui» sbottò Gregorio rompendo lo statico silenzio dell’ufficio, e fece un movimento come di alzarsi, «no» disse l’uomo alla scrivania, che alzatosi  gettò un fascicolo su quella accanto. «Lei non può andarsene, è in arresto», «E perché?» chiese Gregorio, «non siamo autorizzati a dirglielo. Resti calmo e seduto, attenda, il procedimento è appena avviato, saprà tutto a tempo debito. Vado oltre il mio incarico parlandole così amichevolmente. Non c’è flagranza di reato, ma sospetto, dobbiamo attendere l’attestazione da parte del suo capo. Quindi, lei è in arresto, fino a prova contraria». «È meglio che lei lasci a noi le sue cose piuttosto che al deposito», continuò, «perché al deposito spesso la roba sparisce e inoltre, dopo un certo tempo, vendono ogni cosa senza vedere se il procedimento relativo è concluso o meno. E quanto durano questi processi, specie negli ultimi tempi!»

«Apicellaaa, Apicella, Apiceellaaa», accorse un uomo sulla sessantina, di quelli che sono già stanchi di vivere, dal colorito grigio, la fronte sudata, e un uniforme che attillava lì dove il grasso abbondava, il viso però era ossuto, dal naso storto, sembrava la testa di un altro messa su quel corpo, «comandi» fece scoccando i tacchi e cercando di sistemare i pantaloni sulla pancia. «Apicella, prenda le impronte e faccia depositare al signore qui presente gli oggetti personali, poi lo scorti in camera di sicurezza». Chiavi di casa, chiavi del furgone, portafogli, accendino e sigarette, questi gli averi, mise tutto in una cassettina di plastica, Apicella prese le impronte, poi lo scortò e imboccarono un lungo corridoio, proseguirono in un deserto fatto di porte chiuse, ogni tanto s’udivano voci e presenze umane venire da qualcuna di esse. Arrivarono alla cella, entrò, la cancellata gli sbatté alle spalle. Gregorio, era al centro d’una stanza, spogliato della libertà, aveva già provato quella sensazione, quando s’erano ristrette le modalità del confinamento, poteva scegliere seppure infrangendo le regole, ora no. Trascorse il tempo fermo al centro di quella cella, non staccò mai gli occhi da quel rettangolo di cielo che intravedeva dalla finestra a righe, era l’unico rimedio per rimanere forse connesso con la realtà, per poter sperare che quello stronzo del capo una volta contattato non lo denunciasse e gli reggesse il gioco, in fondo glielo doveva, era in debito con lui, anzi, se lo portava sulla coscienza. Non s’era preoccupato minimamente di cosa avrebbe vissuto. Doveva solo sperare. Improvvisamente sentì delle grida: “lasciateme annà, lasciateme annaaà, l’ho preso pe fame, per fa-me ” Non arrivò risposta, se non la chiusura dell’inferriata. «Non te preoccupà, sei solo un altro scarto», disse Gregorio per la prima volta di spalle alla finestra, «Scarto ci sarei te», rispose l’altro, «malavita, malasorte, ho preso del rame da una palazzina abbandonata e st’infami m’hanno portato qui, ma a chi l’ho levato? A nessuno! È allora?».

«E vedi allora che tengo ragione io, siamo scarti, niente di più»

«Prima lavoravo in un ristorante per turisti, ma come stò a nero e il proprietario è un gran pezzo di stronzo, mi so ritrovato dalla mattina alla sera che non sapevo come fa, con le spese che continuavano ad arrivare. Mica ci hanno aiutati abbassando le bollette o non facendole pagare, un governo che funzioni avrebbe almeno dato qualcosa a tutti i morti di fame e ai disoccupati, non so come, che ne so mica so politico io».

«Quello che penso su sta storia del virus» attaccò Gregorio, «è che ci siamo ritrovati più soli, disarmati, impotenti, ribelli, egoisti, irrispettosi, tra falsi profeti e complottisti. Vigliacchi, non nei confronti della morte, ma della vita stessa. Molti senza il lavoro si ritrovano a dà de testa, questa è la fine che abbiamo fatto, ha vinto la noia? Come se non c’avessero più le mani pe fa cose! Per non parlare dei politici che andavano in giro a dire che era tutto normale, di andare a fare aperitivo,  e virologi che profetizzavano salute per tutti e rischi zero. Non c’hanno capito un cazzo e pretendono poi da noi tutti i sacrifici. L’uniche cose belle so state la semplicità per cui i palazzi in quarantena profumano di pane caldo, e arcobaleni di speranza, sono appesi ai balconi dai bambini. Per non parlà poi di quanti stanno a morì da soli per strada».

«Pe me non è diverso» disse l’altro, «menomale che avevo trovato al ristorante un sacco di farina da 25kg e come avevo capito com’è che andava a finì sta storia, l’ho portato a casa, è così che abbiamo tirato avanti, a pizza, pane, focaccia, pasta, tutto, mi moglie sa fa tutto, ma la farina sta a finì e i sordi so già finiti da un pezzo. Tu invece?»

«Lascia stà, più o meno a stessa storia tua, cambiano i personaggi ma la storia è la stessa», disse Gregorio andatosi a stendere e chiudendo la conversazione. Non gli era piaciuta la risposta superficiale  «pe me non è diverso» con cui poi era andato a parlare di se e della sua vicenda.  Rientrò nei suoi pensieri, attendeva che il capo lo scagionasse, sperava che il capo lo scagionasse, non ne era certo, non c’era da fidarsi, era pur sempre uno stronzo. Girandosi e rigirandosi sul tavolaccio, in preda ai pensieri prese sonno in quella triste cella di caserma della periferia nord, in una città  sempre più apocalittica.

Furono giorni duri per Gregorio Quaranta, continuavano a non dirgli niente, e quei corridoi erano sempre vuoti, desolati per poter in effetti chiedere qualcosa a qualcuno, quando riceveva il pranzo lo sbirro che glielo serviva non rispondeva nemmeno, lo fissava e si congedava.

Gregorio si sentiva d’impazzire, trascorse giorni assurdi, ancora più vicino a se stesso, senza dire una parola, stette tutto il tempo a pensare fissando il cielo, si proiettò altrove e questo forse lo aiuto a non dare di  matto, in quella cella che seppure più grande dell’altra, non bastava a contenere la vita di Gregorio, non per ciò che aveva fatto, non in quel momento della vita. Fu lucido Gregorio ad attendere, sapeva che gli stronzi avevano oltrepassato ogni limite consentito per tenerlo lì in quella cella, ma fiducioso e muto come un monaco in meditazione, attese. Fino a quando nel pomeriggio del quarto giorno, arrivò dinnanzi alla cella uno sbirro, mai visto prima, con voce stridula, quasi pareva non venisse da lui, gli disse: «Quaranta Gaetano Gregorio, siamo riusciti a trovare il suo capo, ha confermato di averla mandata al cantiere per prendere del materiale, è stato multato per averla fatta uscire in quarantena ed anche lei. È libero, questa è la sua roba, controlli se c’è tutto come annotato sulla lista da lei firmata».

«Si, confermo c’è tutto».

«Bene, questi sono per lei, un’ultima firma qui e arrivederci.

Si fermò davanti al furgone respirando il sole, guardando i pini sul ciglio della strada, gli era mancato tutto, gli era mancata la vita, anche piena di difficoltà.