UNDICESIMO EPISODIO

Si sentì come all’uscita dell’ultimo giorno di scuola, con l’idea che da lì tutto poteva solo migliorare, fu una bella boccata d’aria; alcuni giovani di buona famiglia si preoccupano se guadagneranno poco o molto, altri se poco o pochissimo, Gregorio era tra il carcere e la libertà, e questa, se non faceva altre stronzate, poteva tenersela, anche se piena di difficoltà.

Il futuro si veste di libero arbitrio, si trucca di buona volontà e perseveranza ma in realtà nasconde un solo gradino, da salire o da scendere per ogni generazione, e ogni classe sociale ha il suo gradino, ed ogni gradino ha la sua classe di provenienza.

Gli balzò alla mente Donatella Crescentini; sua coetanea e amica di vecchia data, ricordo lontano di un affetto poco più che pensato. Fu vicina a Gregorio negli anni più belli della sua vita quando a venti anni ottenne il primo lavoro, lo stesso che poi si sarebbe portato dietro fino ad oggi. All’epoca gli sembrava l’inizio di una lunga scalata fatta di viaggi, pranzi pagati, grattaceli a Dubai, mattonelle di cessi di hotel di lusso, invece tutto si era fermato lì, a pochi chilometri da dove era cominciato, sullo stesso gradino che il padre gli aveva lasciato.

Donatella sembrava interessata, citofonava e si metteva in bella vista con le mani sui fianchi sul piazzale del condominio. Portava i capelli corti perché si faceva prima ad asciugarli, il ciuffo di grano che copriva appena le ciglia, dava ancor di più l’idea di garbo e di lealtà che anche in sostanza rappresentava. Si può dire che i genitori erano dei bravi cristiani, nessuna storia di droga, furti o risse, il padre era un meccanico affidabile; rispettoso nelle consegne e poche creste sulle riparazioni. Si incontrarono al funerale della madre di Gregorio, la madre di Donatella si occupò della funzione e preparò il rinfresco per i pochi parenti che andarono a trovarlo. Da lì, Gregorio e Donatella divennero amici, anche se Donatella aveva una marcia in più rispetto a Gregorio, e anche rispetto a tutti gli altri del quartiere, frequentò il liceo e i suoi, con i risparmi, le pagarono una scuola d’inglese, e non era poco, anzi.

Gregorio dava l’idea già a venti anni di essere un bel carciofo anche a chi non lo conosceva. Donatella lo frequentava, perché sapeva che nella vita avrebbe rigato dritto e che non avrebbe fatto pazzie, Gregorio crebbe così nel riflesso che questa nuova e agile madre adottiva aveva di lui. Non toccò mai neanche uno spinello. Appena ventenni trascorsero estati bellissime a chiacchierare di sera. Gregorio non fece mai quel passo in più, temendo di rovinare tutto. Accettò di buon grado quando Donatella gli presentò il primo fidanzato poiché questo non faceva storie quando Donatella restava a dormire da Gregorio. Col passare dei mesi però Gregorio divenne sempre più invisibile, il fidanzato più pretenzioso e rompicoglioni e Donatella sempre più angosciata.

Partorì un anno dopo. Non si fece neanche menzione di abortire, si sposò in due mesi, risparmiarono i soldi del viaggio di nozze per fare dei lavori nella casa dove sarebbero andati ad abitare, il pavimento lo fece Gregorio, fu il suo regalo.

Adesso era lì, fuori dal commissariato, vicino a una stronzata che non avrebbe dovuto fare, avrebbe voluto chiamarla ma i rapporti ormai si erano allentati. Si sentì solo e deluso dalla pazienza che lo aveva contraddistinto. Si vide manchevole di tutto, di una madre, di un padre e di coraggio, si morse il labbro dal nervoso, avrebbe preso a calci nelle gengive i poliziotti, dato alle fiamme il commissariato qualcosa di nuovo stava nascendo in lui, ed era vivo e impaziente, e se avesse preso quel tiro di coca che gli avevano offerto? Se fosse ripartito dallo spaccio, se la sarebbe cavata? Sarebbe morto ammazzato? In carcere?

Non erano i soldi il problema, ebbe come l’impressione di aver confuso la paura con la prudenza, la buona volontà con la mansuetudine, i poliziotti non domandarono scusa, il capo lo avrebbe chiamato aspettando solo di fargliela pagare. Era passato dalla parte del torto ma il mondo intero gli doveva delle scuse.

Rientrò in commissariato.

C’è una legge non scritta secondo la quale si capisce subito quando capita uno a cui girano i coglioni, i poliziotti fecero rientrare Gregorio nel primo ufficio senza fare domande.

«Datemi le chiavi del furgone».

«Quale furgone? »

«Sono Gregorio Quaranta, mi avete fermato con l’accusa di aver rubato un furgone, il furgone non era rubato. Ridatemi le chiavi».

«Uè Quaranta, ecco le chiavi».

«Gregorio prese le chiavi»

Ebbe come l’impressione che forse non serviva quel grugno per chiedere una cosa che in fondo gli spettava.

Ma volle aggiungere:

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Il poliziotto si alzò in piedi sbattendo i pugni sulla scrivania

«Ma lei chi cazzo è? Io non devo certo spiegare a lei quello che facciamo qui è chiaro? non ci metto niente a farle fare qualche altra notte dentro».

Gregorio si incamminò per uscire. A dire il vero un po’ si cagò addosso per la scenata del poliziotto, disse uscendo: ‘’ corrotti di merda’’ con voce due toni più bassa, e non fu proprio sicuro che il poliziotto avesse recepito. Si tenne gli strilli e si avviò verso la metro, del guaio che aveva combinato ne restava solo l’avventura.

Anche la fermata della metro era un surrogato di quell’essere sputati fuori da una forza centrifuga che era tutta nella città. Una casupola rivestita di mattonellato da tinello e una grande M rossa impolverata, sembravano essere stati vomitati, lì in quell’angolo di terra di nessuno, non c’era anima viva, se non un randagio che s’aggirava zigzagando tra gli scarti al bordo della strada. Gregorio discese nelle viscere antiche della terra, la linea-B avrebbe dovuto avvicinarlo al luogo del fermo, in direzione Rebibbia, “ci stavo andando a finì pe’ davvero” disse nel nulla del tunnel della metro. Giunse alla fermata, il tragitto passò in un lampo, preso dai suoi pensieri, si ritrovò all’uscita, sul ciglio di un viale costeggiato dai grandi pini domestici, non gli restava che percorrere un piccolo tratto e avrebbe dovuto ritrovare il suo prezioso bottino. “Speriamo solo che non so siano fregati”, affrettò il passo, seguiva la linea sottile di terra che è oltre l’asfalto, sacca di sporcizia e di papaveri, vide il furgone, tirò un sospiro di sollievo, rallentò tenendolo d’occhio. Appena arrivato aprì il vano posteriore, c’era tutto”.

“Anzi sai che ce stà di nuovo, prima a casa, scarico tutto e poi sto maledetto furgone dello stronzo me lo vendo, così pareggiamo una volta per tutte i conti, sempre colpa sua è, se me so’ cacciato in questa storia”.
Non era stato mai così bello guidare per quella città meravigliosa, senza auto, senza persone, con i suoi monumenti ancora più grandi senza i riferimenti umani, questo surrealismo da Covid gli piaceva, aveva un certo non so che poetico. Arrivò a casa, lasciò il furgone dinnanzi allo stabile, scaricò un poco alla volta il materiale trafugato al cantiere nell’ingresso di casa, prese una mascherina e scappò dal Riccio per vedere di piazzare il veicolo. La sua officina non era distante dal supermercato della moglie dello stronzo, infatti Gregorio scese dal furgone circospetto, la saracinesca era giustamente chiusa, bussò con insistenza a casa, dopo qualche minuto, una sagoma apparve dietro al vetro opaco del lucernaio con un passo flemmatico:

«Ah Gregò che sei tu? Co sta cosa sulla faccia mica t’avevo riconosciuto?»

«Ciao Riccè, come stai? C’ho un lavoretto pe te, sempre che sei interessato»

«Eh certo, di sti tempi tutto fa brodo, di che se tratta?»

«Un furgoncino da lavoro Volkswagen, è del mio capo, te lo devi vende a pezzi però, non ce deve esiste più, capito?»

«Capito, capito, stai tranquillo che ce penso io»

«È quello?» – chiese il Riccio indicandolo.

«Te sgancio 800 euro e vai bene tu».

«Ma che vai bene tu a Riccè, e ho capito la quarantena, ma manco le dita in gola me devi mette, proprio tu, ci conosciamo da quanno semo pischelli. Facciamo 1000 e non se ne parla più, qua la mano».

«Un ultima cosa, le chiavi ti servono?»

«Te le puoi tené, tanto lo vendo a pezzi di ricambio, l’importante è che non ce lasci il bloccacoso»

«Tranquillo, non ce l’ho messo, sgancia i piccioli Riccè che devo andà a sbrigà altre storie».

Presi i soldi Gregorio e se ne andò, era soddisfatto, ora era quasi saldato il conto con lo stronzo, restava un’ultima cosa da fare e s’incamminò verso il centro. Quei vicoli e vicoletti respiravano di tranquillità e fiori e la strada si faceva percorrere piacevolmente, arrivò all’ingresso di un negozio, attendeva nella fila distanziata, roba di poco, giusto due persone. Giunse il suo turno, varcò la soglia, non prima di strofinarsi con il gel le mani, era obbligatorio, si diresse alla cassa, deciso, sicuro, una signora sulla cinquantina, col culo più grande della sedia che l’ospitava, era intenta a battere le dita smaltate di rosa sui tasti dello schermo.

«Mi scusi cerco il marito della proprietaria».

«Lei chi è scusi?»

«Sono Quaranta, me lo può chiamare per cortesia?»

La cassiera sbrigò il conto e andò perdendosi in una delle corsie, Gregorio si guardò intorno, “hai capito tu lo stronzo, guarda qua che robba, e tiene pure il coraggio de dì come faccio io, co chilometri di roba da mangià,” mentre diceva questo, si sentì prendere per un braccio e portare in avanti.

«Bel casino m’hai combinato Quarà, ti dovevo lascià dentro a marcire»

«Non sia esagerato, piuttosto potevo io rovinare lei, cantandomi che tutto il cantiere è tenuto da persone in nero, invece no, sono stato zitto e bravo, tanto sapevo che non m’avrebbe denunciato, c’ha troppo da perdere e poi me lo doveva, è per colpa sua se sono rimasto senza soldi, ed è per questo che sono qui per dare direttamente le mie dimissioni, anche se a nero, perché al lavoro c’ho creduto come se avessi firmato un contratto, sono fatto così io».

Detto ciò gli piazzò le chiavi del furgone in mano.

«Ah mi hai portato il furgone?»

«No, solo le chiavi, il furgone me lo sono venduto, così ora siamo finalmente pari».

«Come l’hai venduto? Il furgone mio, il mezzo del cantiere?»

«Esatto proprio lui, si me lo so venduto come pezzi di ricambio così non lo trovano più, le chiavi stanno qui, così non può dire che non glielo ho ridato,  a denunciarmi non me può denuncià,  tutti prima m’hanno visto mentre posavo le chiavi e dimostrano che il fugone era in suo possesso quando glielo hanno fregato, forse era proprio lì nel parcheggio, grazie mille capo, buona giornata».

Detto ciò Gregorio andò via, lasciando il capo come uno scemo, con le chiavi ancora strette nella mano.