TREDICESIMO EPISODIO

La stanza era illuminata da una lampadina appesa a un filo, pendeva sopra la testa di Gregorio. La luce gialla lo illuminava mentre accarezzava l’ospite, le mosche orbitavano attorno alla lampadina e creavano delle ombre in continuo movimento sui muri, tutto era in movimento lì dentro; la nuova luce di Gregorio, le ombre e la nuova vita che cresceva dal terreno della sua stanza. Seduto scrutava con curiosità felina quel magmatico terriccio, nero e denso, che gli faceva da pavimento. Fu un segno chiaro che aprì Gregorio all’idea che tutto quello che si poteva immaginare la natura lo aveva già creato. Invidiava dell’albero la sua naturale serenità, la sua immotivata felicità, il suo riservato e dignitoso modo di stare al mondo. Già nei boschi, nelle passeggiate era convinto di imparare, la meraviglia della natura gli aveva insegnato più di quanto avessero fatto i libri o i genitori che gli erano mancati. Con quale immenso silenzio questa radice era venuta al mondo, quale infaticabile lavoro stavano facendo quelle particelle sotto i suoi occhi, un cantiere enorme racchiuso in pochi centimetri. Stava lì, stoica, si guadagnava la vita e non temeva la morte che Gregorio aveva il potere di darle.

Abbandonato all’estasi di quell’intimità e coinvolto in quel dialogo ancestrale, Gregorio scansò l’idea di toglierla e per qualche scomoda e irrazionale ragione decise che avrebbero convissuto; accogliendo l’ospite inaspettato tra le sue mura e mancando all’esercizio dell’onnipotenza che l’albero gli lasciava.

Posò i polpastrelli sul terreno, lentamente affondò la mano sotto di esso, la tirò fuori e oppose il pollice facendolo scorrere sulle dita avanti e indietro. Accadono grandi cose quando un uomo si incontra con la natura e questa pianta era l’ambasciatrice del mondo e Gregorio il viaggiatore errante che s’imbatte in essa, estasiato dalla sua infaticabile lentezza. Il suo spirito ebbe un sussulto guardò a quello che ne aveva fatto della vita che gli era stata data, come quando a un funerale si guarda il soffitto della chiesa.

Finto nel suo spirito riscoperto, si stese attorno alla radice in un fetale abbraccio del corpo posando le labbra vicino alla base. L’umidità della terra saliva  con quel suo odore acre a riempirgli le narici che iniziò a parlare bisbigliando, come se si stesse confessando:

“Che fai qua con me? Che hai da vivere in questa stanza? Sono ormai alla metà della vita e poche volte mi è sembrato di averla avuta. Si può vivere per vivere o serve una ragione? Spero che imparerò dalla tua pazienza, sei risoluta, ti vedo in questa posa senza sognare altro che essere una pianta, che ha solo da crescere per diventare forse un albero. Da ragazzo, anche se avevo poca esperienza, ero consapevole di come la vita fosse un segreto inutile e ben nascosto. Vedevo che in troppi però non capivano di questo segreto e spesso lo rimpiazzavano con qualcosa di più chiaro e condiviso.  Per questo in molti causano tantissimi mali agli altri e a loro stessi. Scelsi allora di non partecipare a questo gioco assurdo, senza nessuno disturbare e da nessuno disturbato. Questo non significa che ho scelto una strada comoda, c’è differenza tra la fatica e il disagio, tra la quiete e l’ozio. Ho imparato però adesso, poiché sono più adulto, che è impossibile sperare di non dar mai fastidio alcuno senza che qualcuno venga a dare disturbo a te. Perché questo è il mondo di noi uomini, fatto di relazioni continue, che è diverso dal tuo. Forse anche tu vivi se c’è qualcuno che te lo permette e questa sudditanza ci rende simili. Anch’io, senza più linfa, mi lascerei morire qui per terra esattamente come faresti tu, e forse è proprio così che andrà. Per quanto si sono sbattuti in vita loro anche George Best, Leonardo Da Vinci sono lo stesso diventati concime per la terra, e da concime se ne sbattono di tutte le chiacchiere che facciamo su di loro, non ci sarà da rammaricarsi troppo.

Proseguiva il turbinio di ombre generato dalle mosche, le cui figure ricordavano il movimento delle particelle per come gli uomini lo immaginano, “è questo che siamo un moto senza scopo, un’immagine passeggera”.

“Mortacci! che poeta che sono” esclamò Gregorio.

Sorrise, riguardò l’ospite, prese riguardo delle sue necessità, era scattata in lui una istintiva protezione per quella creatura, corse a prendere il secchio con dell’acqua, la versò delicato ai piedi del tronco, quella terra nera, che duramente aveva appena dissodato, sembrava impermeabile, tanto che l’acqua andò a formare una pozza appena poco più in là.  Era tanto assettata che Gregorio dovette prenderne ancora, questa volta fu risucchiata lentamente rendendola ancora più nera. Soddisfatto poté pensare a lui, si preparò da mangiare, s’innaffiò con del buon vino dei Castelli, e si gettò sul divano in cucina. Era in pace, con una casa disastrata, ma sereno, certo ciò che il mondo stava vivendo non lo lasciava indifferente, anzi, ma viveva la cosa con occhi diversi, dopo tutto quello che aveva passato dall’inizio della quarantena. Era stato pure in cella,  “il signor Quaranta Gregorio che aquarantenandosi si è quarantenato in giro senza il certificato, quaranternato sia”, fece Gregorio scimmiottando una voce, a metà tra il fare di un giudice e quello di uno sbirro, rise, sballonzolando il posacenere che aveva sullo stomaco. “Mi sa che il pavimento non lo posso rimette, ma nemmeno posso rendere vano tutto ciò che ho fatto, già solo per prendere i materiali, ma che ce faccio? E l’albero? La radice? Non posso calpestarli così, dopo tutto, già normalmente la natura fa fatica a vivere con l’uomo, qui poi si è stravolto tutto, il dentro col fuori. Lasciò che quei pensieri gli cullassero il corpo lontano da quella giornata pregna di emozioni, crollò il braccio oltre il divano, a mendicare nel buio. nella stanza accanto invece, ombre di rami si proiettavano alla parete, come attirati dal chiaro di luna che entrava. Tutto respirò silenziosamente lungo tutta la notte, fino a quando verso le 8.00 del mattino circa, un rumore, un tonfo, svegliò Gregorio di soprassalto, si ritrovò in piedi, scattato come una molla, pareva tenuto alle estremità da fili, ondeggiava, cercando di connettere, vagò in quel poco di spazio, prese la direzione del bagno, sciacquò il viso più volte, ma rimaneva quella tremenda sensazione di avere il viso in letargo, corse verso la finestra, tutto il condominio era nella corte, qualcuno con la mascherina, quelli sprovvisti invece parlavano sputando sugli altri, erano tutti stretti a semicerchio, ma non si capiva intorno a cosa o a chi, di spalle Gregorio riconosceva, la moglie di Bilotti, Sangerardi che si era portato pure il cane, la signorina Di Filippo, e pure il Barone Massimo era sceso, la cosa doveva essere seria per muoverlo dall’appartamento dell’ultimo piano, poi c’era Palumbo, quello del quarto, che aveva un balcone come una foresta addomesticata, e amava  ascoltare buona musica ad alto volume qualche volta, il che non dispiaceva, aveva gusto Palumbo, è stato in gioventù un grande campione di nuoto, ed ha avuto anche un negozio di dischi, un uomo simpatico. Si intravedevano delle gambe di una sedia tra la cerchia di vicini, non si capiva però chi vi fosse seduto,

«Uè Sangerardi, Sangeraardii, ne Sangerà che sei diventato sordo?» Fece Gregorio chiamando uno dalla finestra.

«Che è successo? Io ho sentito un tonfo e me so svegliato».

«E che è successo, è successo che è caduto dal tetto e per poco non l’ammazzava»

«Ma chi?» incalzò Gregorio.

«Bilotti, ce stava a rimanè»

«Ma come? Sancerà dammi i dettagli sennò qui facciamo notte»

«Si, praticamente Bilotti stava a scaricà l’auto da una spesa dalle dimensioni bibliche, come se dovesse venì a terza guerra mondiale,vabbè lassamo perde, mentre faceva la spola con il palazzo, barabaangt»

«Che è?»

«Un pezzo di canna fumaria, grosso quanto un microonde è venuto giù dal tetto schiantandosi accanto a lui, per poco non lo pigliava».

«Che dici?»

«L’hanno trovato che non parlava più, bianco come un lenzuolo, praticamente s’è cagato sotto»

«È per forza, quello si è visto la morte in faccia, ci credo, pure io resterei shoccato! Ma mò come sta? Parla?»

«No, che parla, gli fanno domande, lui risponde a gesti e suoni, pare na scimmia»

I due vicini scoppiarono in una risata che fece voltare gli altri, Sangerardi si riunì al gruppo investigativo, Gregorio lo salutò ritornando alla sua mattinata iniziata troppo presto, voleva ricominciare, tanto Bilotti era vivo e non gli andava di soddisfare nessuna curiosità. Preparò un caffè, diede una chance tranquilla questa volta al bagno, riprese la santa gazzetta che teneva conservata, ormai era più che una reliquia, portò il tavolo di plastica fin sotto l’albero. “Stamattina me faccio na bella colazione in giardino, meglio restare in casa che il mondo fuori cade a pezzi”. Sorseggiò il caffè, trovò un articolo che gli era sfuggito, fumò una sigaretta, il tempo di finire la lettura che prese a scarabocchiare su un foglio dei numeri, poi disegni. Sembrava un turista da confinamento Gregorio, seduto sotto la leggera fronda di un mandarino, a fare colazione e conti, ma i conti di Quaranta sono matematici, non economici. Aveva tutta l’intenzione di utilizzare il materiale che aveva, e visto che il progetto del pavimento era saltato, e che per quello stesso motivo, ora non aveva una stanza, decise di costruirsi una casa sull’albero, che a guardarlo bene, era pure cresciuto.