SEDICESIMO EPISODIO

Tutto rincoglionito si ritrovò al lavello della cucina a preparare la macchinetta del caffè.
Gli occhi ancora impastati di sogni e sonno, non ricordava assolutamente niente della notte andata, a stento riusciva a pensare, nell’attesa che la macchinetta borbottasse, si appoggiò alla parete attrezzata, ormai diventata mobilio fisso della piccola cucina. Un raggio di sole attraversava il lungo rettangolo della finestra alta, qualche gamba ogni tanto, nulla di più, gli venne voglia di uscire, attese, poi con tazzina di caffè in mano, si diresse verso la corte condominiale, prese occhiali da sole, sigaretta, accendino e chiavi di casa, la sua tenuta avrebbe palesemente detto a chiunque avesse incontrato dei vicini: “sto ancora dormendo, lasciatemi prendere il mio caffè in santa pace”, così non fu, dinnanzi al portoncino della corte, c’era Bilotti, disinfettava cose con una salvietta che sapeva di culo, “buongiorno”, vomitò tra i denti Gregorio, già cacato di cazzo che stava Bilotti, “Uhunmhu” fece l’altro come se avesse avuto un rigurgito, “come va, ho saputo dell’incidente”, chiese Gregorio assolutamente fregandosene della risposta, che fu tutta una serie di suoni, che passavano dal gutturale al nasale, accompagnati da gesti, che indicavano una volta il cortile poi se stesso, Gregorio, annuì, e liquidò il tutto con: “l’importante è che lo puoi raccontà Bilò”, detto ciò, avanzò verso il cortile, lasciando Bilotti come un untore, a passare interruttori, corrimano, maniglie e affini, avrebbe assaporato il suo caffè in pace, inanellato i pensieri nel fumo della prima sigaretta. Certo era che a nulla era servito l’accumulo della famiglia Bilotti in quarantena, avevano dalle balle di carta igienica a chili di farina, per non parlare della pasta e dello scatolame stipato, l’appartamento era un piccolo supermarket, ma per la voce perduta non c’era niente, niente che potesse riportarla in quella gola da doppio mento che si ritrova, “un rompicoglioni in meno a dare aria alla bocca,” fece tra se e se Gregorio aspirando con gusto. Il cielo era di un bell’azzurro e il sole non era ancora arrivato in corte, l’aria era ancora fresca, piacevole, si sentiva la vita uscire dalle finestre, urla, bambini piangenti, risate, qualcuno che ascoltava musica, forse Palumbo, a rompere quella coralità umana, dei versi, acuti e modulati, Gregorio non capiva cosa fosse, alzò gli occhi al cielo e vide una serie di fili colorati turbinare sulla corte, la signorina De Filippo lasciava volare gli amati pappagalli, rosso-giallo e blu, azzurri e gialli, verdi e gialli insieme, avevano piumaggi meravigliosi, dipingevano la porzione di cielo della corte con voli circolari, ma come faceva la vecchia a non far imbrogliare tutti quei fili, e soprattutto come faceva a fischiare per farli tornare verso il balcone lei, che se aveva dieci denti suoi in bocca era tutto il mondo. Quell’immagine, così poetica e così bizzarra al contempo, riportò alla mente di Gregorio che anche lui aveva una condivisione intima con la natura, sulla scia di questo pensiero, rientrò a casa, con l’intento di darsi presto una sciacquata e riprendere i lavori per terminare la stanza sull’albero e  approfondire la ricerca della radice. Costruì due lati corti e un lato lungo, un tetto a falda unica che appoggiò direttamente alla parete, poi con abilità da mastro, con il seghetto seguì la circonferenza disegnata a matita sul pannello e si ritagliò quello che aveva pensato come ingresso, un bell’oblò, che rendeva quella sua stanza sull’albero un po’ capsula spaziale, un po’nido.

Per quanto Gregorio si sentisse privilegiato sapeva che lui non aveva niente a che fare con ciò che avveniva sotto di lui, la natura non dà ricompense o punizioni ma solo conseguenze.

Gli ritornò alla mente Gianni, un compagno di liceo che di agricoltura ne sapeva, erano stati compagni di banco dal primo all’ultimo anno, Gianni era un asso nelle materie scientifiche, quella laboriosità necessaria a certe questioni e quella pazienza e costanza, gli venivano naturali anche senza la tenacia che avevano gli altri. Il padre era un operaio in un azienda nel tessile, uno di quei comunisti a due mani, madre casalinga, una Twingo a pezzi e un mutuo tutto intero per una casa in campagna che stavano ristrutturando. A certe latitudini di reddito, i figli hanno la buona abitudine di stare a sentire i genitori e Gianni sicuramente era una spugna per quello che i suoi avevano da insegnargli. Non era certo alto, ma aveva delle mani enormi e dure, come dei guanti da lavoro genetici con le unghie sempre sporche di terra.

Gianni ne sapeva di agricoltura, si capiva dal fatto che non ne parlava mai, era qualcosa che stava a metà tra il risparmiare sulla spesa e evitare di mangiare quella roba, ma se avesse potuto avrebbe fatto volentieri a meno di stare lì, sole o pioggia che sia, a scavare per ore.

Gli tornò in mente il piano che avevano strutturato con la sua famiglia per vivere solo dei prodotti del loro orto, pane e pasta a parte.

Avrebbe voluto chiamarlo, ma i rapporti tra loro si erano persi immediatamente dopo il liceo, alcuni tipi di amicizia abusano della loro forza, entrambi sapevano di poter contare l’uno sull’altro meno che nelle smancerie e i riti che svolgono molti che poi amici non sono.

Col senno del poi, “forse pure quelli servivano” pensò.