Sole, d’Italia

di Valentino M. Nisino

Quando un atto di comunicazione esprime nella forma, prima che nel contenuto, una connaturata semplicità e minimalismo, questo presuppone che il senso sia da ricercarsi nei dati dell’atto stesso, significanti per la propria essenziale, fattuale natura.

Sole, diretto da Carlo Sironi, adempie a tale enunciato: la ragion d’essere di questo lungometraggio, opera prima in concorso nella sezione Orizzonti alla 76º Mostra d’arte cinematografica internazionale di Venezia e in arrivo nelle sale cinematografiche francesi a inizio settembre, distribuito da Les Valseurs, non ammette giri di parole e sboccia dall’evidenza della sua asciuttezza tematica e formale.

La chiave per la comprensione piena della storia in absentia di Sironi non può non partire per restare sull’id est. Il senso risiede candidamente, apertamente già nel titolo: perché se “Sole” è il nome evocativo – nomen omen – della neonata, soggetto/oggetto movente la narrazione, è anche vero che “sole” é un aggettivo al femminile plurale, la cui attribuzione ben si accosta a sostantivi come “persone”, “coppie”, “famiglie”, “anime” – altrettanto protagoniste del film – e rinvia al tema della solitudine esistenziale, di cui il film si pone come un itinerario esplorativo sin dalla prima sequenza.

Il giovane Ermanno (l’attore non professionista Claudio Segaluscio) un antieroe delle anonime banlieue dell’Italia contemporanea e parente di Alì ha gli occhi azzurri (2012), e di Pio Amato in A Ciambra (2017), si trascina conducendo un’anonima esistenza tra mesti disco club giovanili, la dipendenza da slot machine elettroniche, furti di motorini e il fantasma di un padre suicida.

Lo strappo nel cielo di carta della routine di Ermanno avviene quando suo zio gli affida, sotto promessa di lauta ricompensa, Lena (Sandra Drzymalska), una ragazza polacca incinta: Ermanno dovrà fornirle tutta l’assistenza necessaria nelle ultime settimane di gravidanza e, una volta la creatura nata, questi se ne dovrà assumere la paternità, in modo da successivamente facilitare l’adozione del bebé da parte dello zio stesso e della sua ricca consorte, entrambi sterili. Due coppie a confronto: una di giovani senza storia per cui il denaro viene prima di ogni cosa (Lena si presta alla ‘vendita’ della sua creatura in cambio di un’ingente somma), e quella degli adulti, che nel miraggio di un ideale borghese del nucleo familiare non rinuncia a mercificare la maternità altrui. Nel mezzo arriva Sole: la neonata che Lena porta in grembo. Dapprima in assenza, poi, venuta al mondo, in presenza, la piccola fa luce sulle esistenze ferite, denaturate dei protagonisti, come un’epifania. Ermanno e Lena, davanti alla tremante fiamma di una candela – la messa in scena della luce, non è casuale se si pensa al titolo – riscoprono la propria umanità di cuori pulsanti, rinascono, prendono coscienza e sollevano per un attimo la coltre fatta di colori desaturati e ambienti senza profondità. Il formato in 4:3 della pellicola, scelta coraggiosa echeggiante il Mommy (2014) di Xavier Dolan, non si apre però alla catarsi dei 16:9 (come nel caso del regista canadese). La costante costrizione del formato è segno di un destino ineluttabile, per cui l’ordine opaco della vita non può essere differente da ciò che è stato fino ad ora. Imprigionati, e questa volta senza Sole (da leggere con o senza lettera maiuscola), Ermanno e Lena si lasciano andare, per la prima volta, ad un’autentica esternazione del loro mondo interiore, davanti agli schermi anonimi delle slot machine elettroniche, nella cui aspect ratio a 4:3 questi sembrano essere imprigionati in un game over esistenziale.

Chiara l’affiliazione al cinema giapponese e al minimalismo bergmaniano di Sironi, il quale scatta un’istantanea ad un microcosmo italiano senza connotazioni topografiche, che si estende, nel suo silenzio apatico, alla condizione socioeconomica dell’Italia d’oggigiorno, sospesa tra strascichi illusori di norme preconfezionate e una nuova generazione limbica, grigia, alla ricerca della luce: paradossalmente, il film, che porta il nome dell’astro vitale per il nostro pianeta, mostra, se non con rare eccezioni, esterni o interni irradiati dalla luce solare.

A furia di volerla a tutti i costi, abbiamo irrimediabilmente estirpato la luce.