VENTISEIESIMO EPISODIO

Ridiscese verso l’amata terra, ripeté automaticamente i piccoli gesti, tirar fuori le chiavi dalla tasca, premere l’interruttore della luce, allineare lo zerbino con la punta della scarpa. Pollice e indice già stringevano il metallo dell’impugnatura, l’unghia grattava la scritta in rilievo, l’ultimo metro e un colpo deciso vide sparire l’intera chiave nella toppa, tre mandate vigorose all’indietro e via, benvenuto a casa, rispose il consueto tonfo del frigo, quello scoccare sordo, ad uno sconosciuto parrebbe una resistenza ad entrare, per Gregorio invece, era una presenza ad accoglierlo. Era certo, che avrebbe trovato il da farsi, la notte avrebbe portato consiglio, entrò nella  stanza/giardino, l’albicocco era diventato s’irrobustiva, anche le piante intorno, una primavera, con Gennarino svolazzante e felice, quell’accoglienza lo mise sereno. Si preparò per andare a dormire, anche se non lo fece, una volta sull’albero, si stese nell’amaca, il rollio lo rilassò. Profumo di agrume si spargeva dalle fronde, guardò verso il basso, verso quel serpente vuoto di terra, scompariva nelle fauci della parete di fondo, quel solco, gli ricordava, quanto fosse diviso, combattuto. Perché, la vita lo aveva messo in quella situazione? Chi era Gregorio Gaetano Quaranta? Cosa era diventato? Cosa avrebbe dovuto fare del medaglione d’oro? Stette ad oscillare tra i pensieri, poi, alzandosi, percorse la passerella in direzione della cucina, scese, ricomparve poco dopo per risalire in direzione della stanza, prese da uno dei cubi sparsi, il libro “TE”. Avvicinò  a portata di mano il posacenere, distendendosi nel grembo di stoffa.

La lettura del libro sconosciuto lo incuriosiva e rilassava, s’abbandonava a quelle parole sagge, anche se, spesso le riflessioni nate, lo avevano sconcertato. Aveva sicuramente arricchito il punto di vista delle cose di una nuova visuale, aiutato anche, dall’aver lasciato il vecchio e sfruttato lavoro. La lettura, lo fece fuggire dalle preoccupazioni:

(…) Che la terra sia utile
È provato

Un campo fa schiavo un re

Chi cerca il denaro
Dal denaro non è sfamato

Chi ama il suono dell’argento
Resta digiuno

È miseria anche questo

Più c’è abbondanza
più c’è chi mangia

E al suo padrone
Che cosa resta

Goderla cogli occhi appena

Il sonno è dolce per chi lavora
Poco o molto si abbia da mangiare

Ma il troppo a un ricco
Gli toglie il dormire

Vedo un male crudele sotto il sole

Una ricchezza su cui il padrone
Veglia per sua sciagura

Ricchezza andrà perduta
In un cattivo affare

Gli è nato un figlio
E non ha niente in mano

Dal ventre di su madre è uscito nudo
Così com’è venuto se ne va

E che cosa gli vale
Ostinarsi nel vento

E ogni giorno che vive

Mangiare nella tenebra

In un furore grave

In un delirio ardente?

Ecco quel che ho veduto
Di mangiare e di bere

E nel patire pena sotto il sole
Intravedere gioia

Per i contati giorni di vita
Che Dio gli ha dato

È quella la sua parte (…)

(…) Che cosa avrà il sapiente
più dell’idiota?

Che cosa avrà di più
Un infelice che sa
E cammina davanti
A tutti gli altri vivi?

Meglio occhi che vedono
Di un soffio che se n’è andato

È miseria anche questo
ed è vento che ha fame

Il già stato cos’era?
Un nome che fu gridato

Si sa che cos’è un uomo

E che non può lottare
Con chi è più forte di lui

Dove molte parole
Molto fumo
Cosa può farsene un uomo?

Che cosa può mai essere
Per l’uomo il bene della vita?

Giorni contati d’inutile vita
Dov’è un ombra che passa

E all’uomo che dopo di lui sarà
sotto il sole. (…)

Ogni volta, rimaneva estasiato dalle parole della mano ignota, era come se quel testo fosse un vento caldo, a volte sferzante, freddo e pungente, lo scritto di quella mano forse antica, diveniva un abbraccio per la mente e per l’anima. Quella lettura, gli aveva aperto gli occhi, acquisendo consapevolezza del suo essere. Aveva compreso di essere stato cieco,  per molto tempo. Mai, come in quel preciso momento, Gregorio pensava che il libro avesse davvero un potere: sintonizzarsi sui suoi interrogativi esistenziali e darvi risposte, quantomeno delle direzioni. Riprese le pagine che aveva segnate tra pollice e indice, le aprì, fermò l’amaca puntando i piedi a cavalcioni, prese una paglia e la radio, accese entrambe, la stazione trasmetteva classica, si lasciò conquistare dalle note della Suite No.1 in Sol maggiore, BWV 1007, così annunciò lo speaker. Riprese a masticare quel testo, leggeva e rileggeva, ne prendeva parti, si fermava, rifletteva assorto, lo sguardo perso nella luce della stanza. La cenere precipitava con la forma della sigaretta che fu, perpendicolare alla mano ferma dal palmo sul ginocchio, poi si sbloccava, ricadeva nel testo. Quella musica sublime, lo conduceva attraverso dimensioni che non aveva mai toccato, ad un tratto gli sembrò tutto chiaro, disteso, srotolato lì davanti agli occhi, lineare. Il peso degli interrogativi svanì, lasciando spazio ad una luce nell’iride e una leggerezza nel petto. Quella musica gonfiava e sgonfiava onde emozionali e riflessive, il cuore batteva forte, anche la musica muove l’anima e l’innalza. “Che la terra sia utile è provato, un campo fa schiavo un re, chi cerca il denaro dal denaro non è sfamato,chi ama il suono dell’argento, resta digiuno. È miseria anche questo. Più c’è abbondanza più c’è chi mangia. Ma il troppo a un ricco gli toglie il dormire. Dal ventre di su madre è uscito nudo. Così com’è venuto se ne va! Che cosa avrà il sapiente più dell’idiota? Che cosa avrà di più un infelice che sa? E cammina davanti a tutti gli altri vivi?” Rileggendo quelle parole così pesate, così vere, pensò alle parole dette al francese sul Lungotevere: non preoccuparti, le cose vedrai, si aggiusteranno!