Paolo Fresu, 60 sfumature di jazz

Intervista a cura di Nico Morelli, editing di Gianni Cudazzo

Quattro chiacchiere tra Nico Morelli e Paolo Fresu, in occasione dei 60 anni del trombettista sardo, festeggiati il 10 febbraio in concerto all’Archiginnasio di Bologna.

Focus In vi propone lo scambio tra Nico Morelli e Paolo Fresu, due talentuosi musicisti e compositori, nonché amici, riuniti a chiacchierare di musica ed esperienze, come un viaggio… Sotto le stelle del jazz, attraverso note armoniche o dissonanti, suonate a caldo e ritrascritte in cima o al margine di quello spartito complesso che è vita.

La tua carriera è stata brillantissima, folgorante, hai avuto tantissimi successi. Da musicista a musicista: quanto c’è stato di casuale e quanto c’è stato di voluto e di lavorato?

Guarda, io credo nella casualità che però è sempre in qualche modo voluta perché se non sei in un determinato luogo per scelta, poi non accadono le stesse cose. È l’idea dell’evoluzione di Darwin, in qualche modo. Sono una persona molto coerente, dalla grande volontà, per cui nella musica ho messo veramente tutto, molta energia, molta passione… Tuttora; ogni giorno. Io mi alzo la mattina e non riesco a non fare cose che non siano relative alla musica: scrivere, suonare, pensare musica… Ed è stato così sin dall’inizio, da quando a dieci anni sono entrato nella banda municipale di Berchidda (era il mio sogno). 

Dopo ho iniziato a suonare nei complessi di musica leggera… Ed ero quello che nella sala prove metteva i cartoni delle uova sulle pareti (per isolare) che ramazzava, che riceveva le telefonate dei comitati delle feste patronali per fissare gli impegni, quello che tirava giù gli accordi dei pezzi, quello che faceva gli arrangiamenti, quello che disegnava la locandina. Mi piaceva vivere la musica nella sua dimensione più ampia. E poi, una grande passione, grande testardaggine (in quanto sardo). Sapevo di avere del talento e questo si è espresso già da piccolissimo. I miei genitori erano persone molto semplici (mio papà faceva il pastore e il contadino) però erano molto appassionati di musica. Loro mi hanno sempre molto seguito, in qualche modo. 

Ritengo di avere un buon talento ma non credo sia di quelli veramente straordinari, compreso il mio modo di suonare lo strumento. Ad esempio, se penso a trombettisti, anche italiani, come Fabrizio Bosso, o altri… Sono dei ragazzi che hanno strumentalmente una capacità e un talento venti volte più grande del mio. L’importante non è questo. Ciò che conta è far fruttare quello che hai, perché se hai talento, è un grande privilegio. Quindi quando ti rendi conto di avere un dono, grande o piccolo che sia, lo devi veramente spendere al meglio. è quello che ho cercato di fare col mio e soprattutto mettendoci passione, dando tutto per riuscire a realizzare quello che volevo. Che poi io non sapevo cosa volessi, non lo so neanche ora. So che ogni giorno c’è un passo in più da fare, piccolo o grande, a seconda dei casi, e “quel passo” va fatto. Poi, non è che ti permetta di arrivare per forza da nessuna parte. È semplicemente un cammino perenne, una cosa molto importante, secondo me, anche in questo momento di lockdown, per esempio, che aiuta ad avere la testa proiettata nel futuro. 

Quando i ragazzi mi chiedono cosa fare per essere considerati bravi,  come diventare famosi o addirittura, ricchi… Io rispondo: “Fate tutto il possibile per raggiungere quello che volete fare”. Solo così, un giorno, ce l’avrai fatta! O almeno saprai di aver fatto il necessario per tentare. Ecco, questa è da sempre la mia filosofia, fare tanti passi (e ci si può anche perdere) per arrivare laddove sia possibile che accada qualcosa, come conoscere una persona che non avresti mai incrociato altrimenti e magari farci un progetto musicale. Ho incontrato così tantissimi musicisti, sempre per caso: da Uri Caine a Ralf Towner, Omar Sosa, Daf Youssef o Ornella Vanoni. Ma per queste combinazioni, ci sono voluti “quei passi”. Credo sostanzialmente a una casualità dettata da una volontà e da una visione che è quella di fare sempre un passo avanti, ogni giorno. Sono convinto che altrimenti la mia vita sarebbe stata diversa. Non so se migliore o peggiore, ma mi viene da pensare che sia migliore così.

Wahoo! Questa è una lezione di filosofia! La tua risposta mi da spunto per almeno altre cinque domande, ma non te le farò tutte. In primo luogo mi viene in mente un libro di James Redfiel, La profezia di Celestino, lo conosci?

Si, certo.

…Poi, praticamente è come se in ogni momento della tua vita tu fossi sempre sul presente, ascoltando e intuendo sempre cosa ti accade attorno e perseguendo la direzione giusta, quella migliore. È bellissimo… Proprio un’applicazione molto positiva della vita! E riguardo alla domanda di un tuo studente che hai citato prima, quella su come si diventa ricchi… Ricordo una tua frase in proposito che mi è rimasta impressa. Passeggiavamo per le strade di Parigi e scherzosamente mi hai detto: “Ma sai, è meglio essere ricchi che famosi” e questa cosa mi si è stampata in testa.

Ah sì? Non me ne ricordo… Ah ah ah! Comunque sì, direi di sì. Perché essere famosi, secondo me, è semplicemente uno spaccamento di palle! Cioè, nel mio piccolo, io non sono “famoso”, ma per essere un musicista di jazz, ho superato la soglia di quella fase. Capita spessissimo che per strada la gente mi riconosca e mi faccia complimenti e questo fa sempre piacere. 

Ma penso a quelli celebri… Per esempio quando ho collaborato con Ornella Vanoni e passeggiavamo per strada, la riconoscevano tutti, TUTTI indistintamente. Penso oggi a uno come Vasco Rossi che quasi non ha una vita sua. Oppure alla notorietà di tanti cantanti italiani che, in buona parte, è ridimensionata rispetto a un luogo. Cioè: puoi essere famosissimo in Italia, poi prendi un aereo e vai dall’altra parte del mondo, dove improvvisamente “non sei più nessuno”, perché laggiù nessuno ti conosce. Che cosa accade? Alcuni lo vivono bene, anzi sono felici di passare un po’ inosservati e altri probabilmente subiscono una profonda crisi d’identità, non sentendosi più se stessi, laddove “te stesso” dipende dal riconoscimento del prossimo. Ecco, io credo che la fama sia un’arma a doppio taglio e più che offrire cose positive, credo che tolga moltissimo.

Per la ricchezza invece c’è da intendersi. Perché ricchezza può essere anche aver poco e accontentarti di quello che hai o, magari, avere tantissimo senza averne felicità. Per me la ricchezza è semplicemente il poter fare ciò che desideri fare, realizzare i tuoi sogni, se ne hai, e in questo caso può portarti tanto. Quindi la ricchezza intesa come “mezzo” per realizzarsi è più utile della fama, i cui lati negativi, credo, siano di gran lunga maggiori.

Prima hai detto una cosa molto interessante per un musicista. Hai detto: “Far fruttare quello che si ha”, inteso dal punto di vista musicale, tecnico… Immagino che anche per te ci sia stata una fase iniziale in cui il percorso era quello di migliorare, studiare… Poi con l’esperienza hai capito di dover “far fruttare” quello che avevi. Com’è scattata questa molla?

Innanzitutto io non avevo deciso di fare il musicista, la mia vita doveva essere un’altra. Io sono un perito elettrotecnico, diplomato con il massimo dei voti all’Istituto tecnico industriale. Fui chiamato immediatamente dopo gli studi per essere assunto alla Sip (la vecchia società di telecomunicazioni). Feci anche il colloquio a Sassari con un signore che mi ha odiato per anni (anche se poi siamo diventati molto amici). Perché dopo aver parlato per mezz’ora in una stanza vuota, con una scrivania vuota e gigantesca (ero seduto tipo Fantozzi dietro il banco) gli dissi: “Non mi interessa!”, mi alzai e me ne andai. In quel momento probabilmente, decisi inconsciamente di diventare musicista; non avevo altro, a parte forse, prendendo il triennio di teoria e solfeggio, la possibilità di fare qualche supplenza nelle scuole medie. Per fortuna mi chiamarono a insegnare e quindi mi resi autosufficiente rispetto alla famiglia che non aveva molti mezzi. 

Iniziai a fare qualche concerto, poi conobbi Cipelli, mettemmo in piedi il Quintetto… Però ci fu un momento preciso in cui la mia vita musicale prese una piega sua. Agli esordi, quando suonavo nella banda municipale avevo la fortuna di condividere la musica immediatamente con altre cinquanta persone, ognuno con la sua personalità e fu una lezione musicale incredibile, poi anche col complesso di musica leggera: ero dentro la musica! Ma si trattava di condividere il suono della tromba con una coralità che era fatta di altri musicisti e altri strumenti. A casa non trovavo nessun piacere a suonare da solo perché la tromba non era connessa con me ma con gli altri, in una condivisione collettiva. 

Poi una mattina luminosa di maggio, suonai una nota e quasi mi spaventai, come se mi fosse entrata in corpo e ciò ha cambiato la mia vita, perché da allora lo strumento era come rivelasse ME e non fosse più un oggetto fine a sé stesso. Iniziai da quel momento una spasmodica ricerca di suono. Ho studiato per mesi le prime note di Miles Davis, di Round Midnight con la sordina del disco Columbia del ‘56, trascrivevo gli assoli, poi Chet Baker… Da quel momento ho iniziato un’altra vita musicale che continua tuttora, perché più vado avanti e più la mia ricerca è sempre sulla melodia e sul suono, per me, fondamentali. Penso a cose che ho fatto ultimamente, come il disco sulla Norma di Bellini, dove la tromba diventa quasi la voce di Maria Callas. Il lavoro sul Laudario di Cortona che sono melodie del 1200; adesso il disco con Jacques Morelenbaum e Daniele Di Bonaventura, il lavoro sui madrigali di Monteverdi, le cose di Parsons e di Haendel, le canzoni italiane… Tutto viene da quella mattina di trentacinque anni fa, in cui è successo qualcosa che non so descrivere, che ricordo come fosse ieri e che mi ha cambiato la vita.

In definitiva quel giorno hai trovato il TUO suono.

Probabilmente si, o forse non è in quel momento che l’ho trovato, ma ho capito che “il suono” era l’aspetto più importante della mia vita. Che poteva nutrirmi sotto il profilo non solo fisico ma anche dell’anima. E quindi quest’idea della musica intesa non più solo come esercizio estetico ma come spiritualità, qualcosa di mistico. Sono passato così alla musica intesa come linguaggio quasi metafisico. Quando studi uno strumento, pur portandolo verso di te, resta sempre un oggetto inanimato tra le mani, alcune volte può anche fare uno strano effetto. Nel caso della tromba, per esempio, il bocchino può esser freddo. Può esserci una barriera tra ciò che sei e lo strumento che suoni; poi un giorno diventa una protesi del tuo pensiero. Trovare il rapporto fisico con lo strumento fa sì che la musica decolli e possa andare in una direzione veramente nuova e anche molto lontana.

Le tue risposte sono sempre molto profonde. Questo modo di approcciare la musica fa riflettere. È un modo che permette di affrontare qualunque repertorio, anche non necessariamente jazzistico, perché alla fine non so più se stiamo parlando solo di jazz 

Anzi, parliamone un po’ di questa “parolaccia”… Siamo d’accordo sulle sue origini statunitensi, ma è difficile ancora oggi darne una definizione univoca, anche perché nella storia del jazz sono state fatte talmente tante cose e ancora oggi troviamo musicisti così diversi tra loro. Tu ti definisci un musicista di jazz oppure no? E, se lo sei, in che maniera lo sei, lo sei stato o lo sarai?

Io di fatto mi definisco un musicista di jazz, per il mio apprendistato legato a quella musica, quel linguaggio, il momento storico preciso che poi è semplicemente cambiato. Quando ho iniziato a suonare il jazz è stata una folgorazione. Quando sentii per la prima volta un trombettista jazz alla radio (era un bopper, non so chi potesse essere) rimasi letteralmente sconvolto. Suonava la tromba in una maniera talmente incredibile che per me un umano non poteva esserne l’autore. Forse era Clifford o Lee Morgan… Non so. Rimasi turbato immediatamente dalla parte “ginnica” del suono, che è la cosa che ora mi interessa di meno, perché poi ho scoperto Miles Davis, Chet Baker e poi da lì son partito… Ma ovviamente amo tantissimo anche i boppers. 

Diciamo che ho iniziato a praticare il jazz ascoltando tutto, soprattutto Miles e Chet, che studiavo, trascrivendone gli assoli… Ma ascoltavo anche tutti gli altri, da Coltrane passando da Parker, Bill Evans, Mingus, Billie Holiday… Però, dovendo soprattutto all’inizio scegliere dei modelli, ho deciso che non potevano essere né Freddie Hubbard, né tanto meno Dizzy Gillespie che erano l’antitesi del mio pensiero diatonico, melodico, più affine invece a quello di Miles o di Chet. Non potevo avere una dimensione verticale. Avevo un’idea orizzontale di musica, molto più vicina al mio pensiero, forse anche al mio carattere mediterraneo, latino… Miles aveva un’idea melodica straordinaria, quasi mediterranea, con un suono di tromba molto femminile, non maschile. 

Poi nell’arco degli anni ho iniziato a suonare i miei primi lavori. Iniziavo a uscire un po’ col Quartetto, con Roberto Bonatti, Roberto Cipelli e un batterista, Billy Sechi, carissimo amico, che purtroppo se n’è andato tanti anni fa. Poi la formazione è diventata un quintetto, dove Bonatti è stato sostituito da Attilio Zanchi, Ettore Fioravanti alla batteria e in seguito Tino Tracanna. Un quintetto che esiste tuttora, dopo trentasette anni!

Nel frattempo mi chiamò a suonare a Roma Paolo Damiani, facevamo della musica legata al Mediterraneo, seguì un progetto con Gianluigi Trovesi e Giancarlo Schiaffini… Poi mi chiamò Bruno Tommaso, con il quale facevamo una musica molto diversa, legata alla tradizione, cose di Pergolesi… O anche più contemporanee. Bruno veniva da tutta la scuola di Nuova Consonanza, cioè Domenico Guacci, Morricone… Era un periodo musicale totalmente diverso. E poi mi chiamò Giovanni Tommaso, con il quale suonavo il new hard bop tradizionale, seppure con composizioni originali, insieme a Massimo Urbani, Danilo Rea e a Roberto Gatto. Quindi erano tre modi completamente diversi di fare musica… Ero abituato a suonare tutto, senza pormi il problema di cosa fosse il jazz. 

Proprio a Roma mi resi conto invece che esistevano “le famiglie”, intese come fazioni. Quelli che facevano il Bop consideravano chi suonava la musica “aleatoria” come delle pippe, incapaci di suonare sugli accordi e stare sul tempo… Quelli che facevano “aleatoria”, invece, trattavano i Boppers come dei mestieranti da balera… Io ero sconvolto da tutto ciò. Al contrario, ero infatuato della bellezza di questa musica, dalle storie di tutti, indistintamente… A me il jazz ha permesso di aprirmi, anzi è proprio la musica dell’apertura per antonomasia, della comunicazione. 

Allora, cos’è il jazz? Non è importante classificarlo, credo, l’importante è il musicista che si è, rispetto alla musica che si fa. Bisogna diffidare da quelli che cercano di etichettare o, peggio ancora, di quelli che cercano di frenare il cammino delle cose, dell’evoluzione musicale.

In una tua recente intervista dici che a causa del Covid, la professione diventerà più precaria e insicura. Pensi davvero che non si potrà più tornare a ciò che avevamo?

Penso che dipenderà da una serie di cose che si dovranno definire nell’immediato. Questo anno ha cambiato il mondo… Questa crisi profonda ha falcidiato una buona parte del settore dei lavoratori dello spettacolo, tante persone sono state costrette a cambiare lavoro e questo è terribile… Il futuro non sappiamo prevederlo. 

Non sono tanto convinto che la maniera di fruire la musica, gli spettacoli o il cinema cambierà molto… Ma il presente non può essere affrontato solo con i ristori che sono “un cerotto” nell’immediato, più o meno grande, a seconda della ferita, e in genere i cerotti sono troppo piccoli per riuscire a sanare le piaghe troppo grandi. Io credo che il futuro dipenderà da come affronteremo il problema dello statuto dell’arte. Ma soprattutto, se non si pone al centro dell’attenzione la Cultura, in quanto bene primario del paese, usciremo da questa crisi con una lesione incredibile. Dobbiamo chiederci perché siamo arrivati a questo punto e la risposta va ricercata nel pre-pandemia. 

Se lo Stato, il legislatore, se noi tutti non prendiamo coscienza che dobbiamo uscire da questa crisi con una nuova mentalità e una nuova visione di quello che dev’essere il mondo dell’arte, allora veramente ci troveremo in situazione di non ritorno, spero di sbagliarmi… Ma il danno potrebbe essere così grave che veramente diventeremmo un paese più povero. 

Parlo dell’Italia, che conosco meglio, ma parlo anche di un’Europa e di un mondo dove una vera discussione sulla cultura non c’è stata. Ciò dimostra purtroppo che in una scala di valori, i temi primari della cultura e dell’arte sono assolutamente secondari. Se non usciamo da questa crisi con una riflessione profonda, allora ho paura che, certo, la ferita si rimarginerà, ma in un futuro estremamente lontano e con un deterioramento incredibile della nostra società, a livello morale, comunitario o economico, non solo circoscritto all’Italia ma che impoverirà anche l’Europa e il mondo intero!

Se si osserva la realtà in Francia, è vero che per gli artisti esiste lo statuto dell’intermittence du spectacle, ma sono uniti da una questione economica alla fine, non da questioni artistiche.

Beh, comunque la considerazione dell’arte e dello spettacolo in Francia è un po’ un’utopia per noi, merito anche della capacità dei francesi a fare muro in alcuni casi. Lo vediamo ad esempio con le manifestazioni, con gli scioperi che noi, in Italia, non siamo assolutamente capaci di fare. C’è sicuramente una storia politica e sociale diversa che in Francia qualche frutto lo ha portato, rispetto a noi italiani che siamo un po’ più… Un po’ più “ondeggianti”.

Grazie infinite Paolo!

Grazie a te e a Focus In, un abbraccione!