Ascanio Celestini

di Ilaria Madonna

Quando l’8 ottobre ci siamo ritrovati alla Maison de la Poésie per la prima serata dell’edizione 2020 di Italissimo, era difficile nascondere l’entusiasmo. I bar avevano già le saracinesche abbassate, deuxième vague oblige, ma quella sera saremmo comunque riusciti a vedere Ascanio Celestini, arrivato il giorno stesso dall’Italia.

Ogni serata che non viene annullata in questo periodo così difficile è una piccola vittoria, un Festival giunto alla sua quarta edizione un successo. Grazie al sostegno degli invitati e dei partner, la direttrice Cristina Piovani e i suoi collaboratori hanno vinto questa scommessa. Infatti, nonostante le nuove norme sanitarie, il festival si è potuto tenere quest’autunno.

La ricca programmazione è stata mantenuta con alcune variazioni ricorrendo ad una formula a cui il 2020 ci ha ormai abituati. Letture ed incontri “in presenza”, alternate ad interviste “a distanza”, facendo un uso intelligente di quella tecnologia che ci avvicina. Un esperimento riuscito perfettamente.

Alla serata d’apertura ritroviamo quindi l’artista, narratore ed attore, drammaturgo e regista che ha deciso di proporre una lettura di tre racconti inediti scritti durante la quarantena, andati in onda su Radio 3.

Parassiti – Un diario dei giorni del Covid-19 sono storie comuni di uomini e donne che affrontano una situazione inaspettata ed inaccettabile: la quotidianità durante una pandemia. Una cronaca di questo momento storico in cui le autorità chiedono alla popolazione di cambiare le proprie abitudini, di rendere le uscite “funzionali”, di ridurle solo ai motivi “di prima necessità”, un momento in cui anche lo stringersi la mano o l’abbracciarsi possono esporci al pericolo invisibile.

Cosa rimane di questi cambiamenti? Come posizionarci di fronte al fatto di non poterci stringere da vivi, ma neanche di non poter dire addio ai nostri morti?

Sul palco è accompagnato dal musicista Gianluca Casadei alla fisarmonica, nessun ornamento o scenografia. Solo un leggio e la forza della parola che racconta di noi e che con noi ricorda.

Il teatro di narrazione, di cui Celestini è erede, nasce infatti dal recupero delle vicende e dalla memoria di una comunità, gli autori diventano così testimoni di una vicenda collettiva che, passando per la drammaturgia, diventa teatro.

È la prima volta che questi racconti vengono presentati davanti ad un pubblico; la loro genesi quindi, si differenzia dalle altre scritture di Celestini che partono dall’esperienza del palcoscenico. In primavera, durante il lockdown, questa possibilità non esisteva, ma il bisogno di oralità dell’autore lo porta a registrarli e a riascoltarsi, per inviarli poi alla radio. I testi sono costruiti sul confine tra la razionalità della parola scritta e l’emotività dell’orale. Le parole che nomina Celestini non sono solo le sue, sono anche ricordi, sognati o meno, che le riattivano, sono parole-immagini.

“Io ho scritto questi testi, ma li ho scritti con parole che dico, ma non sono soltanto mie. Le cerco nelle parole che ricordo. La signora Ventisini era una vecchia che abitava nel palazzo di mia nonna. E chiamarla Ventisini e non in un’altra maniera a me serve per avere un’idea più attiva e più viva, più evocativa del personaggio”, afferma Celestini durante lo scambio con il pubblico mediato dal suo traduttore Christophe Mileschi.

Questo tipo di scrittura che coinvolge lo spettatore che riconosce quella memoria come se fosse la propria, in un momento che ci continua ad imporre un nuovo modo di vivere che siamo costretti ad accettare, ma che ci accumuna tutti, ha la forza del rito collettivo. In qualche modo, nel 2020 il teatro ritrova la sua funzione catartica, come nella più grande tradizione classica, come quello di Epidauro nell’antica Grecia: ascoltare insieme di quel maledetto virus che non vediamo l’ora di dimenticare, di storie e situazioni che appartengono a tutti, ci fa evadere dalla prigione del presente cronachistico dell’ultimo tempo. L’impressione è stata questa: la sensazione di partecipare ad un rito collettivo: tante persone che ascoltano questi racconti che ognuno di noi vive individualmente, come se si parlasse della propria storia, o di quella del vicino. La parola diventa il modo per uscire fuori dal racconto onnipresente del parassita, dal “non ne parliamo”.

Questi testi riflettono inoltre su un altro cambiamento, quello dei riti che fondano il nostro vivere insieme, la nostra civiltà, che ci hanno imposto di sospendere. Ai vivi del 2020 non sono stati forniti gli strumenti per affrontare i lori lutti. “Stiamo perdendo molto lentamente una relazione con la rielaborazione vera della nostra morte. La rielaborazione la fai dopo, prima devi avere una relazione concreta. La cosa che mi ha colpito davvero è il fatto che le autorità hanno pensato che fosse possibile imporre un distanziamento tra i vivi e i morti e i vivi l’hanno accettato. Non c’è nel corso della nostra storia un momento in cui noi abbiamo abbandonato i morti così. I morti delle Ardeatine li hanno tirati fuori per poi rielaborare i morti e rimetterli sotto terra. Questo è stato veramente grave. Sanguineti diceva di essere contento che i suoi figli avessero potuto assistere al funerale di suo padre perché in qualche maniera era un funerale arcaico, e così sarebbe restato qualcosa in loro per quando sarebbe morto lui.”

I corpi sono spariti, come non era mai accaduto, o portati via dai camion dell’esercito, come ci racconta l’ormai tristemente famosa immagine di Bergamo nel periodo più buio. “Se io riesco a gestire culturalmente la morte, in qualche maniera riesco anche a gestire la mia vita. La mia cultura mi mette a disposizione la possibilità di alzarmi e piangere il giorno dell’anniversario della morte di mio padre, e questa cosa mi salva perché tutti gli altri giorni non piango. Se non ho gli strumenti culturali per delimitare la morte io posso andare in crisi in qualsiasi momento.”

E una foto di Whatsapp mandata dalle terapie intensive degli ospedali non può sostituire questa esperienza necessaria alla rielaborazione simbolica e metaforica della morte, che ci permette di vivere, delimitando il dolore. “Questo rito dell’immagine del defunto ce lo portiamo dietro da secoli. I volti dei faraoni in Egitto… A casa di mia nonna c’era uno spazio destinato a tutte le fotografie dei morti. Una volta c’era l’abitudine di mandare la fotografia del morto ai parenti. Ora, mia nonna e mia zia mettevano le foto dei morti intorno alla foto gigante di Togliatti, per cui quando lo vedo mi sembra sempre uno zio. Ma così potevi delimitare la morte: il lutto delimita la morte delimitando il dolore. Questa volta non abbiamo avuto questa possibilità”.

Per questo i racconti di Celestini riescono a toccare i lati più profondi del nostro presente e passato recente e noi spettatori non possiamo che ringraziare e timidamente commuoverci, partecipando alla creazione di uno spettacolo che è ed esiste, come ogni opera teatrale, perché rappresentato davanti ad un pubblico. Ritroveremo forse così il tempo al di là della cronaca, caricandoci sulle spalle i nostri Anchise, verso un futuro forse incerto, ma dove forse i bar potranno ascoltare le nostre storie e le strade delle città raccogliere le nostre memorie.

Grazie.