Cristina Comencini

L’attesa di un mondo nuovo

Di Valentino N. Misino

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In tempo di Covid, lockdown e coprifuochi vari, conversiamo con l’immensa Cristina Comencini, regista candidata all’Oscar nel 2006 con La bestia nel cuore, scrittrice e drammaturga pluripremiata, la quale ci prende per mano, svelandoci il suo universo di artista, storyteller e, prima di tutto, donna.

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Come sta vivendo questo momento storico sul piano personale e professionale?

Penso che, in questo momento particolare, si debba sottolineare la centralità del ruolo delle donne, soprattutto in Italia. Poiché le donne si sono ritrovate a fare una sorta di doppio lavoro durante il lockdown, essendo investite del duplice ruolo, interno ed esterno: sono state il ponte tra la dimensione pubblica sociale e quella privata domestica.

Le donne, prima, durante e dopo il lockdown, sono la forza fondamentale del nostro paese. A tal proposito ho esortato il movimento “Se non ora quando” [n.d.r. di cui Cristina è co-fondatrice] a mobilitarsi per mettere l’accento su quest’aspetto totalmente sottaciuto in Italia, con lo scopo di far investire in infrastrutture che tutelino le donne.

In generale: è un periodo in cui non arriviamo ancora a capire quanto sia dura, c’è un sentimento d’incertezza. 

A livello personale, sul piano lavorativo, sono attualmente in piena campagna promozionale per il mio ultimo libro, da poco uscito in Italia, L’altra donna, che sta andando molto bene nonostante le complicanze del Covid. La novità è che tutto ciò che di solito faccio di persona, quando promuovo un libro, si è spostato online: non ci sono né discussioni in presenza dei lettori, né dediche, nulla…

Per quanto riguarda il cinema: non ho nessun film in corso di produzione, e ne sono contenta. Visto che il set in questi giorni deve essere difficile, tra tamponi obbligatori e chiusure improvvise per l’individuazione di casi positivi. 

Il cinema resta però un lavoro che va fatto: chiudere cinema e i teatri non so se sia un bene, perché restano luoghi in cui c’è una limitata frequentazione rispetto ad altre situazioni sociali.

Per fare un sunto: stiamo vivendo un momento d’attesa, abbiamo la sensazione che stia accadendo qualcosa di enorme che cambierà le cose e mi auspico che queste circostanze che ci impediscono adesso un rapporto totale fisico con il mondo, finiranno per poi creare un desiderio tale che si tornerà alla vita di sempre, ma con un gusto e una volontà di riscoperta maggiori.

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Tra romanzo, cinema e teatro, quale genere trova più consono per esprimersi?

Tutto inizia con la scrittura! Quando si è giovani ci si lascia prendere dall’ispirazione e dalla sperimentazione: io sento che dopo parecchi anni di attività, se ho un talento, questo è quello di inventare storie, scrivendole.

Detto ciò, ovviamente, ci sono aspetti della regia che adoro: amo girare film, ma non posso dirmi una regista pura, sono una scrittrice-regista! Sono felice di dirigere ma, se posta davanti ad una scelta, opterei per la scrittura. Ora come ora, non nascondo che mi manca il set: è un lavoro collettivo dove la propria creatività si amplifica in accordo con quella degli altri, mentre la scrittura è solitaria. Preferisco comunque non scegliere. 

Penso che farò teatro per tutta la vita, mentre il cinema, essendo un mezzo che ti richiede un’energia gigantesca, costantemente, vedremo. Anche se ci sono registi come Clint Eastwood che indefessi continuano oltre i novant’anni. Resta però il fatto che alla scrittura non potrei mai rinunciare.

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Di solito come nascono le sue storie? 

Parto sempre da un tema e da personaggi che siano interessanti. Il mio ultimo romanzo, ancora inedito in Francia, è la storia di due donne, della loro esperienza, del confronto tra una donna giovane e una adulta, una relazione che è dapprima rivalità e che poi si smonta come un castello di carta. Alla base c’è l’opposizione tra sistema femminile e mondo degli uomini. 

Quando narro, si pone anche la questione del mio punto di vista: per esempio nell’Altra donna, la ragazza non incarna la mia visione delle cose. Nelle mie storie io sono presente nella misura in cui mi piace esplorare e parlare con la voce di personaggi che hanno un punto di vista diverso dal mio. Mi situo in una condizione di fuori e dentro, in relazione con i miei personaggi.

Il punto di partenza è un’idea: a cominciare da quella ne raduno altre. Scrivo dove mi capita, non sono però una scrittrice maniacale col taccuino sempre pronto in mano!

Leggo e studio, faccio ricerche: come ho fatto per il romanzo Lucy, la cui protagonista è un’antropologa, per cui ho dovuto documentarmi sull’antropologia. 

Se il tema e i personaggi sono credibili, la storia si fa da sé: mi faccio condurre da essa. Il processo della scrittura è uguale al viaggio del lettore, se faccio una stortura, la storia me lo dice. Lo scrittore come il lettore si fa abitare dai personaggi.

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Crede che le sue storie ci diano delle “istruzioni per l’uso” della vita contemporanea? 

In ciò che racconto c’è sempre una relazione tra le cose che faccio e la società, tra le storie e la Storia. Mi chiedo sempre quale sia la natura del cuore, cosa muova il cuore. Nonostante abbia fatto studi scientifici, mi interesso al cuore. E poi racconto di donne, di come sono cambiate, di come hanno cambiato il mondo. 

La storia del cambiamento delle donne è lunga, lenta, profondissima e, dal mio punto di vista di italiana sull’Italia, abitata da contraddizioni antiche come la nostra società. Nei personaggi femminili dei miei libri e film si esprime la contraddizione del nucleo della famiglia in relazione al fragile concetto della durata, il fatto di voler conciliare l’essere donna, l’amore, le relazioni e il lavoro creativo. 

E mantengo tuttavia gli occhi puntati sugli uomini. Resto sensibile alla questione del rapporto tra i sessi: non si può e non si deve rinnegare la dimensione del sesso. Queste storie mi permettono di raccontare un mondo e un’epoca che stanno cambiando: stiamo vivendo un terremoto, osserviamo il profilarsi di nuovi scenari e il cambiamento di valori come quello della famiglia. 

C’è, inoltre, una certa nostalgia per non si sa cosa nel passato, visto che ignoriamo le condizioni di vita di prima, sappiamo che era sicuramente duro. È un cambiamento innegabile quello di oggi: straordinario per la società e su un piano umano sentimentale, più in generale. 

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Ha dei maestri che la ispirano?

Considero piuttosto l’importanza delle sensazioni che determinati registi evocano in me. Curiosamente, adoro Fellini per l’energia che ancora oggi ci da, soprattutto la sua ispirazione e l’idea delle potenzialità del mezzo cinema: un cinema puro per fantasia e ironia, non certo per i personaggi — infatti gli unici psicologicamente definiti sono quelli interpretati da Mastroianni, gli altri restano semplici figurine. 

Amo il cinema di Germi, perché questi immagina e accoste storie e personaggi forti, con una caratterizzazione umana profonda. Mi piacciono anche i cineasti che giocano con l’angoscia e la suspense come Hitchcock e Polanski: creare la sensazione di attesa di un qualcosa che si rivelerà dopo mi affascina. Infatti, Il buio oltre la siepe (To Kill a Mockingbird, 1962) di Robert Mulligan è per me un culto della suspense, a tal punto che l’ho ripreso nel mio primo film Zoo (1988).

Ma adoro anche il cinema più sentimentale, dai grandi personaggi femminili come Rossella O’Hara di Via col vento (Gone with the Wind, 1939) diretto da Victor Fleming. Eh sì, mi piacciono anche questi polpettoni!

E poi nei miei film c’è anche una grande influenza della cinematografia francese: François Truffaut è un maestro. Prediligo anche le commedie francesi, dove c’è una forma di eleganza che si distingue dalla nostra commedia di costumi. In Italia c’è una tendenza esagerata alla comédie de moeurs, invece in Francia il comico diviene una questione di stile. 

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Si considera come continuatrice della poetica di suo padre?

Il cinema di mio padre è indubbiamente un cinema dell’umano, che contiene sempre al suo interno, in un secondo strato, uno sguardo rivolto alla società. Mio padre era un uomo molto colto, ha fatto i suoi studi in Francia, eppure non amava esibire la propria cultura: concepiva il cinema come arte popolare, non con una connotazione negativa o snob, ma nel senso di un’arte semplice che parla alla gente. Anche io come lui, sento di aver fatto cinema popolare, in opposizione a un cinema di tipo puramente intellettuale. 

I film di mio padre partono da una grandissima conoscenza, essendo un intellettuale, eppure il suo obiettivo era parlare al grande pubblico: infatti, era felicissimo quando i suoi film facevano il tutto esaurito, in quanto aveva raggiunto il suo obiettivo!

Cerco di conservare le qualità del cinema di mio padre, applicandole al mio universo: l’attenzione all’intreccio, il lavoro sui personaggi, la narrazione semplice e di qualità. 

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Dal punto di vista del suo engagement etico e politico, come considera la situazione attuale?

Con il Me Too, la situazione delle donne in tutto il mondo è cambiata, si è rafforzato un femminismo radicale con una nuova ondata di attenzione verso l’universo femminile. Bisogna però comprendere che quella delle donne è una questione più vasta: le donne propongono un altro mondo. 

Dobbiamo cambiare la cultura antropocentrica di cui siamo figli, fondata sull’io: la cultura della donna è fondata sul “due”, sulla relazione con l’altro. Questa percezione è incisa nel corpo della donna, la quale nasce per natura in relazione con l’altro da sé. Le donne sono più del 50% del genere umano e hanno un modo specifico di concepire i rapporti e la politica. Più che di battaglia, per le donne si dovrebbe parlare di rivoluzione: verso una società che valorizzi la procreazione piuttosto che la produzione, dove si predilige la relazione con l’altro invece che l’attestazione di un io totale. Questa è una delle tante questioni. Ce ne sono tante…

Come quella dell’abolizione del genere, che non mi trova d’accordo: dopo millenni di lunga lotta, l’instaurazione di un genere neutro vanificherebbe la rivoluzione delle donne.

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Quali sono i suoi progetti futuri? 

In questo momento sto lavorando all’adattamento cinematografico del romanzo di Rossella Postorino, Le assaggiatrici, con Giulia Calenda e Ilaria Macchia: la storia di una delle assaggiatrici ufficiali di Hitler, che si assicuravano che il Führer non fosse avvelenato, assaggiando in anticipo il cibo. Durante il lockdown, ho inoltre scritto un altro soggetto per un possibile film.

Per quanto riguarda il teatro, prevedo il ritorno alla regia quest’autunno con una pièce scritta due anni fa che attende di essere messa in scena.

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Ha una storia nel cassetto che sogna di raccontare?  

[Sorride] Certo! C’è un trattamento su Clara Schumann, scritto con Suso Cecchi d’Amico e Giulia Calenda, che il mio compagno dell’epoca, Riccardo Tozzi, avrebbe dovuto produrre. Nonostante si tratti di un film in costume, è una storia attualissima: parla di Clara, moglie di Schumann, madre di otto figli, e del suo rapporto con il genio della musica. Immagini: le dinamiche di coppia che si snodano sui ritmi della musica romantica. Vedrà: la dirigerò questa storia, prima o poi!