Di Chiara fama

di EFFEFFE

Chiara Mezzalama di libri ne ha scritti tanti, l’ultimo, Dopo la pioggia, entrato nella sporca dozzina del Premio Strega. Tale unità, va detto, non si limita al peso che eventualmente le vicende autobiografiche hanno sulle storie che si scrivono, ma si esprime soprattutto nella creazione di mondi a partire da mondi che esistono già o non ancora, alla portata di tutti. I suoi personaggi riflettono a meraviglia quella che Kundera definiva esistenze possibili, ovvero tu ed io, verosimilmente. Parigi forse attira a sé, più di qualunque altra città, proprio questo tipo di nature, affastellate in destini incerti a cui non manca certo la solarità. Per questo numero di Focus in, dedicato alla Capitale, ci è sembrato naturale chiedere a una romana di nascita e parigina d’adozione due-tre cose che sa sull’Italia (e non solo).

Come ti presenteresti con sette parole?

Partiamo dal nome: Chiara, da clarus-clara: brillante, luminosa, limpida, serena, squillante, illustre… L’aggettivo latino riguarda la vista, l’udito ma anche ciò che è manifesto, aperto, visibile. Sono anche modesta, n’est-ce pas? Ma è nel cognome che mi riconosco soprattutto: mezza di qua e mezza di là, mai tutta intera nello stesso luogo o nello stesso momento e affilata talvolta, quando serve.

Hai vissuto in diversi paesi. Ci racconti qualcosa delle città in cui hai abitato?

Sono nata a Roma, a quattro anni la mia famiglia è andata a vivere a Rabat in Marocco, poi a Teheran negli anni ottanta, durante la rivoluzione Khomeinista. Due città che in comune avevano il suk e il canto dei muezzin, ma non potevo vivere due esperienze più diverse: Rabat era sole, oceano, deserto, meraviglia, dolcezza e donne generose che si prendevano cura di noi bambini. Teheran era mistero, guerra, paura, sangue e barbuti con le armi. Il canto dei muezzin si era fatto grido, scoppiavano le bombe. Ma sono passati più di quarant’anni… A Rabat sono tornata, è stato uno degli ultimi viaggi fatti con mio padre. A Teheran no. Ma vorrei poterci tornare. Poi i miei genitori andarono a vivere in Svizzera, a Ginevra. Mi rifiutai di seguirli.

Se dovessi descrivere un’immagine che rappresenti il tuo heimat, una cosa che ti faccia dire, ecco io appartengo a questo paesaggio, a questa cosa qui, quale sarebbe?

Matria per me è la macchia mediterranea che orna e profuma le sponde del mare nostrum. È la pineta odorosa, lo scricchiolio dei sandali sugli aghi di pino, il grido delle cicale nella calura estiva che sfinisce, è l’orizzonte marino che tremola nella luce bianca. Poi c’è la casa di mia madre in Piemonte, tra Cuneo e Saluzzo. Lì c’è la storia della famiglia, i fantasmi e gli antenati (che spesso coincidono), ci sono le radici e c’è il Monviso con il suo profilo fiero. C’è l’odore di cera d’api sui parquet lucidi di legno. Ora che ci penso, è l’olfatto che mi collega profondamente ai luoghi. I banchi delle spezie nei paesi del sud, il profumo delle boulangeries di Parigi, il gelsomino che esplode in primavera a Roma.

Com’è stato il tuo arrivo in Francia e soprattutto com’è nata la decisione di venire a vivere a Parigi?

Sono venuta a Parigi perché volevo cambiare vita. Ho lasciato il mio mestiere di psicoterapeuta, la mia vita romana e la famiglia allargata perché volevo avere più tempo per scrivere. Quella frase fatta che si legge spesso nelle biografie… “ha lasciato questo o quello per consa- crarsi alla letteratura”. Ecco, adoro questa frase! Il mio arrivo in Francia, con due bambini piccoli e mezzo marito (che lavorava ancora in Italia all’epoca e dal quale mi sono in seguito separata) è stato assai tumultuoso. Siamo arrivati a settembre 2014, abbiamo trovato casa nell’11e arrondissement e qualche mese dopo ci sono stati gli attentati alla redazione di Charlie Hebdo, a poche decine di metri di distanza dall’asilo di mio figlio.

Che cosa hai trovato qui senza doverlo necessariamente cercare?

Quando sono partita da Roma avevo in mente questo motto: meno affetto più rispetto. Ero stufa di questo scambio:

– Che lavoro fai?
– Scrivo.
– Ah bello, ma che lavoro fai… davvero?

A Parigi ho trovato il rispetto e il riconoscimento del valore del lavoro artistico e intellettuale ma ho anche trovato tantissimo affetto. Ho incontrato delle persone fantastiche, tante donne italiane ma non solo, che sono diventate la mia famiglia. Sono le persone che rendono cari i luoghi e nonostante gli attentati, il quartiere dove abito è un villaggio pieno di persone a cui voglio bene. Ancora oggi, dopo tanti anni, quando attraverso la Senna a piedi o in bicicletta, respiro profondamente e penso che per ora sono contenta di vivere qui.

Pur confrontata a esperienze molto difficili quello che si coglie in te è una solarità da ‘‘dopo la pioggia’’, una cosa alla Rodari (penso al suo arcobaleno a te molto caro). Quanto lo devi alla letteratura e quanto ad altro?

Ti ringrazio di citare Rodari, uno scrittore che mi è caro fin da quando sono piccola. Quando mio padre era a Teheran, durante le nostre complicate e poche telefonate (le comunicazioni erano quasi completamente interrotte), si sentiva sempre qualcuno parlare in per- siano in sottofondo. Era un’esperienza straniante ma provavo a immaginare cosa dicessero quei signori che ascoltavano impunemente le nostre conversazioni. Con i miei genitori scherzavamo dicendo che erano quelle le nostre Favole al telefono (immagino che per loro non fossero così divertenti…). Non so da dove venga questa mia fiducia nella vita a dispetto dei suoi tradimenti e colpi bassi; ho avuto un’infanzia felice, mi sento amata da tante persone e ho due figli fantastici, va bene così. Certo i libri hanno contribuito molto a questa mia calma interiore, mi hanno sempre offerto rifugio e protezione. Basta aprirne le pagine dopotutto; è un gesto così semplice e così rivoluzionario.

Chi sono stati i tuoi maestri, della letteratura o d’altro?

Ho studiato alla scuola francese perciò Simone de Beauvoir è arrivata prima di Natalia Ginzburg, Margherite Yourcenar prima di Elsa Morante. Ho adorato Romain Gary, André Gide e Albert Camus, le poesie di Montale e Ungaretti che ci faceva leggere il professore d’italiano. Maestra è stata la danza, che ho praticato fin da piccola, che mi ha insegnato la disciplina e l’armonia, la grazia che viene dalla fatica e dal sudore. Uno degli incontri fondamentali della mia vita è stato quello con Roberta Garrison, una danzatrice straordinaria, una performer dalla quale ho imparato che la libertà ha un prezzo molto alto, ma senza pagarlo non si può essere artiste.

Cos’è l’Italia per te ora e soprattutto cos’era prima di venire qui?

L’Italia è la matrice che cura, è radice e forza, adesso è il più bel luogo al mondo dove passare le vacanze. Ma l’Italia è anche una ferita, un paese dal quale purtroppo bisogna talvolta scappare per non essere soffocate, schiacciate dai suoi malfunzionamenti e arcaismi. L’Italia è quella sirena che t’incanta e ti stordisce, tra le braccia della quale sai che prima o poi farai ritorno… nel bene e nel male.

C’è una canzone che vorresti dedicare agli italiani in Francia?

Visto che parlavamo dell’Italia mi viene in mente quella canzone del mitico Giorgio Gaber «Io non mi sento italiano» … ma per fortuna o purtroppo lo sono… c’è anche la bella versione più recente cantata da Daniele Silvestri.

Grazie delle tue domande.