DICIANNOVESIMO EPISODIO

Di fianco alla punta fuoriuscita dal terreno, nasceva un solco, iniziava a un quarto di stanza e avanzava scendendo verso la parete opposta, Gregorio lo aveva creato cercando il capo della radice. Più lui scavava, più si ritrovava a conoscere se stesso, più si allungava lo scavo, i lavori manuali sono così, concentrano e raggruppano pensieri, ci si ritrova in una dimensione infinitesima in cui emergono parti di noi sconosciute. Era quasi arrivato a toccare la parete confinante con una parte della corte. Imperterrito continuava sottraendo e sottraendo terra, delle assi di legno correvano da un punto all’altro del solco, quel piccolo giardino ora aveva anche un ponte. Un frullio d’ali sbatté sulla finestra mezza aperta, una scia blu turbinò veloce nella stanza, Gregorio uscì dal fosso esclamando: “che cazzzz…!” Dopo tre giri di stanza, il pennuto andò sull’albero di mandarino, fissò quell’uomo che era lì, anche lui a fissarlo, aprì per metà le ali e garrì, tanto che Gregorio ripiombò nel fossato. Con le gambe metà fuori e chiappe e schiena incullate dal terreno rimase fermo ad osservare, l’intruso aveva un piumaggio bellissimo, blu con dei contorni gialli che seguivano intorno agli occhi e al becco. “Forse ti sei staccato da uno dei fili con cui la signorina De Filippo fa volare il suo piccolo stormo? O forse sarai scappato da qualcun altro? O vieni dal Brasile? Vieni dal Brasile tu?” Rise. Non gli dispiaceva affatto avere compagnia nella sua traversata in quella terra nera, il pappagallo poi, lo faceva sentire un po’ pirata. Non si sarebbe preoccupato di obbligarlo in qualche gabbia,”gli uccelli so’ fatti pe’volà, non semo contenti se non ingabbiamo gli animali e le cose. Quanti preferiscono invece rimanere in gabbia per paura della libertà? La libertà spaventa amico mio. Ciò che fanno tutti è più sicuro, meglio ripetersi senza farsi troppe domande”, disse serio guardando il pennuto che si lisciava le penne.

La stanza scompariva tra la vegetazione rigogliosa, quell’atto infinito di amore dava sussistenza e conforto, ma i vicini da qualche tempo, avevano notato che qualcosa di bizzarro stava accadendo, lo spazio della finestra si riempiva sempre di fronde, tanto che Gregorio, per far entrare luce necessaria al raccolto, stava sempre lì a potare. Le pettegole del condominio, non potendosi incontrare, spandevano dai balconi mezze parole, riferimenti espliciti e nomi fittizi, per non farsi capire dall’interessato. Le si sentiva dire: «quello già era selvaggio, ce mancava solo la foresta mò», e non avevano ancora visto il nuovo amico svolazzare tra le frasche. Gregorio intanto continuava la ricerca del capo del fittone, la trincea si approfondiva, raggiungendo differenti strati e differenti colori, iniziava con un nero scuro come la notte, per arrivare ad un marrone autunno avanzato per lo strato più profondo. Sulle sponde createsi in superficie, Greg aveva iniziato a coltivare file di lattuga e il fossato aveva quasi tagliato in due la profondità della stanza, in quella fessura scura, inginocchiato, si sentiva parte del tutto. Allungò il braccio oltre fossato, strappò dalla parete delle more, per poi riaccasciarsi sul fondo a gambe incrociate, era a suo agio in quel grembo scuro, il suo profumo, rivangava nella mente ricordi, come quando in estate, da bambino, appena terminato di piovere correva in bici e dall’asfalto saliva quello stesso odore di umido e terra e profondità che gli riempiva le narici, gli entrava dentro e si sentiva libero. Riviveva quel momento a lui caro, rimpinzandosi di succose more. Il sostare in quell’anfratto, gli aveva sviluppato la vista, ora faceva caso a tutto, alle autostrade di formiche e a cosa trasportavano, ai percorsi che i lombrichi seguivano, vide un insetto sul fianco del fossato, allungò un dito e la bestia si chiuse a pallina rotolando giù per la scarpata, rise divertito, fu girandosi per osservare dove fosse giunto l’ insetto, che vide nella terra, lì,ad un quarto dal fondo, un angolo marroncino, qualcosa, veniva fuori, osservò più da vicino per vedere di cosa si trattasse, toccò, la punta sembrava di carta, prese a scavare tutto intorno. Nell’angolo in fondo incontrò l’apparato radicale delle patate, ma riuscì ad aggirarlo senza reciderlo, si aiutò con un bastoncino, sembrava un archeologo nella valle dei Re, tutto preso a non rovinare la mummia che ritornava alla luce chissà dopo quanto tempo. Gregorio amava porsi domande improbabili sugli oggetti: “come è che è stato inghiottito dal terreno?” o “a chi sarà appartenuto?”o ancora “in quante mani e luoghi è stato portato?” Domande che spesso non trovavano risposte e che si perdevano come gli aerei di notte in un cielo senza stelle, così si sentì Gregorio, un po’ sperso, strinse quel libro al petto, come a ringraziarlo o a sentirlo. Era cambiata la percezione delle cose, alcuni confini si erano allontanati, altri, completamente caduti. Discostò il libro, lo spolverò con la mano cercando qualche indizio in copertina, c’erano dei caratteri che avevano perso la forma, lasciando una traccia sbiadita d’oro, il titolo era illeggibile, giusto le ultime due lettere erano appena comprensibili, TE, lo aprì, sulla risguardia una dedica: La nostra mente è libera nello spazio, il corpo invece, è in una dimensione di convenzione. Non smettere di scavare oltre la superficie delle cose, solo così giungerai all’essenza.

Con amore D.

Vide subito che mancavano le prime pagine, tra cui quella del titolo, andò alla fine allora, per vedere se ci fosse altro, nulla di riconducibile ad una edizione o ad una casa editrice, niente, si vedeva che il libro era molto vecchio, ma le pagine ancora leggibili. Ritornò alla dedica, chiuse gli occhi, come a cercarne un senso, si levò dal fosso e abbordò l’albero, s’era dimenticato del pappagallo, “tu stai qua?” – Attese, “se ti sta bene statti pure, quando ti sarai rotto lì è la finestra”, detto ciò si accomodò sul terrazzino. Ritornò ancora una volta alla dedica, scorse le parole con il dito, si fermò sulla D, ne seguì la forma, l’accarezzò, venne in mente subito un nome che iniziava con quella lettera: Donatella, amò pensare che quel regalo glielo avesse fatto trovare lei, volle prenderla così, e fu ancora più curioso di continuare a cercare pezzi di un puzzle immaginario e casuale che lui stesso stava intessendo un po’ per gioco un po’ per seguire quella casualità che a volte ci avvicina allo spirito semplice delle cose. Prese a leggere ad alta voce:

(…) Nulla è che valga sotto il sole

E mi applicavo a scrutare

Da sapiente pazzie e deliri

Quell’uomo succede al re

Che cosa farà? Le stesse

Cose ripeterà

Ma tra sapienza e follia io vedo

Avvantaggiarsi sapienza

Valere più della tenebra la luce

Ci sono occhi nella testa di chi sa

Chi non sa nella tenebra cammina

Ma io anche so che c’è

Una sorte per tutti una

E nel mio cuore io dico

Tale la sorte di un idiota

Tale la mia

Perché tanto sapiente farmi?

Non avrò niente di più

E nel mio cuore dico

È miseria anche questo

Né di un sapiente né di un idiota

Avrà memoria il tempo

In pochi giorni di loro è tutto

Dimenticanza

Sapiente e idiota li avrà

Entrambi morte (…)

Il pappagallo dall’alto della chioma, suggellò la lettura con un verso lungo e stridulo, ripetuto per tre volte, Gregorio lo guardò, chiuse le pagine sulla copertina e cercò con gli occhi il cielo oltre le foglie, oltre la finestra.