È stata la mano di Dio

di Valentino N. Misino

“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. 

Cominciare a parlare dell’ultima regia di Paolo Sorrentino con una citazione sul calcio fatta da un altro insigne Paolo del cinema italiano, o meglio un Pier Paolo, Pasolini, sembra appropriato all’alba del 2022, anno delle celebrazioni per il centenario dello scrittore e cineasta bolognese. 

Nel calcio conta certo quanto bene si disputi l’incontro, però solo chi segna e vince resta negli annali: con È stata la mano di Dio, Sorrentino non solo fa goal, ma prova a reinventare il suo stile e i filoni, i generi a cui ha da sempre strizzato l’occhio, confezionando un “caso” autoriale singoalare (soprattutto nel cinema nostrano) che non può non far parlare di sé. 

Ed uno dei leitmotiv su cui si snoda quest’azione sorrentiniana è proprio lo sport più amato dagli italiani, ritratto nella gloriosa stagione calcistica 1984-85 del club del Napoli, irradiata dall’arrivo di Diego Armando Maradona. 

C’era d’aspettarsi che Sorrentino avrebbe prima o poi pagato il suo tributo di napoletano (e di tifoso dell’SSC Napoli) al Pibe de oro, come profeticamente annunciato nel celebre discorso di ringraziamento per l’Oscar come miglior film straniero a La grande bellezza (2013) in cui il regista cita espressamente le sue fonti di ispirazione: Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e, ovviamente, Maradona.

L’omaggio a Maradona è impresso già nel nome della pellicola, in cui il regista ironicamente unisce sacro e profano – mélange fondante del genius loci partenopeo – e sembra ammiccare (inconsciamente?) alla descrizione del calcio come rito religioso fatta da Pasolini. La divinità cui appartiene la mano del titolo non è l’Onnipotente ma il “messianico” attaccante argentino. 

Uno dei temi cari al maestro napoletano, ossia la ricerca (perlopiù dissacrante) di un senso, spirituale, in contrasto con la rappresentazione neo-barocca della religiosità cattolica – da manuale, a tal proposito sono La grande bellezza, e le serie The Young Pope (2016) e The New Pope (2020) – resta periferico in questo film, a parte un mondano San Gennaro (Enzo De Caro) nella sequenza iniziale, accompagnato dal Munaciello – più un’entità del folklore campano che personaggio religioso, nonché palese fac-simile del “fanciullino” felliniano nel finale di Otto e mezzo (1963). 

Il dribbling che compie Sorrentino sta proprio nell’abbandonare (apparentemente) la sua predilezione narrativa sociopolitica formalista per provare a scendere negli inferi del proprio io, attivando un processo di spoliazione che prende le forme di un rivisitato coming of age movie. 

Un Amarcord trasposto nel capoluogo partenopeo, strutturato come “romanzo di formazione” dell’adolescente Fabietto Schisa (il promettente Filippo Scotti), alter ego di Sorrentino da giovane, il quale passa all’età adulta tra gioie – la spensieratezza delle estati in famiglia, la purezza dell’affetto genitoriale, i parenti-macchiette da vaudeville, le partite viste sul balcone e l’immancabile, improbabile prima volta del sesso – e dolori – la morte dei genitori, con il conseguente sfaldamento delle certezze, l’incapacità di esprimere la perdita e l’inquietudine dell’andare avanti. 

Tra la schiera di personaggi che si avvicendano nelle oltre due ore del film non si possono dimenticare il padre Saverio interpretato dall’immancabile Toni Servillo, la madre Maria (Teresa Saponangelo), il fratello Marchino (Marlon Joubert), la Baronessa Focale (Betti Pedrazzi), la zia Patrizia (la divina Luisa Ranieri) e la signora Gentile (Dora Romano). 

E proprio queste due ultime figure eccentriche paiono fornire una possibile chiave di lettura del film: sia la signora Gentile che Patrizia sono donne non integrate nel sistema del microcosmo della famiglia e della società, sfuggono alla convenzionalità piccolo-borghese alla pari degli eroi pirandelliani. 

Nella sua quête, Fabietto è l’unico che riesce a dialogare con entrambe – pregno di significato è il Per me si va dell’Inferno dantesco citato dalla Gentile – assumendone, a sua volta, il medesimo statuto di alterità, che lo porterà a lasciare la città di Napoli alla fine del film. 

È stata la mano di Dio è un film sull’inadeguatezza, sul vuoto, sull’imbarazzo nel dire le cose più semplici, naturali e innocenti. È un grido tanto dilaniante quanto soffocato che invoca la semplicità, di un anelato ritorno alle origini che per sua stessa fattura è utopico, quindi disperato.

È alla stessa zia Patrizia, confinata in un ospedale psichiatrico (occhiolino al Ciccio Ingrassia in Amarcord), che Fabietto confessa di voler far cinema, dopo aver assistito, in tempi diversi, ad un casting napoletano di Fellini e alle riprese del regista Ciro Capuano (nome fittizio di Antonio Capuano, vero mentor di Sorrentino), il cui set pare evocare la scena delle acrobazie del Matto ne La strada e in cui il “funambolo” sospeso al contrario è interpretato dallo stesso Sorrentino.

Quando Fabietto-Sorrentino cerca il regista Capuano per dichiarargli di voler fare cinema e chiedere consigli, tra i due s’accende un dialogo maieutico e peripatetico che li conduce in una grotta in riva al mare. Sul Goalfo di Napoli rischiarato dalle prime luci dell’alba, Capuano sentenzia “Non ti disunire”, formula lapidaria che coglie l’essenza della pellicola. 

Disunirsi è, nel gergo calcistico, l’azione di non compattarsi con i propri compagni di gioco: Capuano invita Schisa-Sorrentino a non lasciare, a non spezzare il legame con la propria esperienza e, soprattutto, con le origini, i maestri di vita e d’arte.

Quando nel finale, che sa sornionamente di Call Me by Your Name (2017), ma che è ancor di più una reinvenzione dell’eccelsa conclusione de I Vitelloni (1953), con tanto di Munaciello che saluta, Pino Daniele canta l’anthem partenopeo per eccellenza, Napule è, Fabietto lascia Napoli, non abbandonandola davvero, portandola con sé. Perde le sue origini per ritrovarle. Un eterno divenire che si afferma negandosi.

Una carnascialesca contraddizione: questa la “grande bellezza” della vita. Una strada già esplorata da Federico Fellini, a cui Sorrentino non smette mai, programmaticamente e strategicamente, di far riferimenti – le citazioni fellinane del film meriterebbero un articolo a sé! 

La bravura di Sorrentino sta nel trasformare il già visto (la sua produzione e i suoi riferimenti) in un nuovo amalgama che passa per la sua esperienza, unica, il suo vissuto, particolare. 

Questa operazione, fondamentalmente semplice e ammirevole, anche se talvolta non completamente definita, ci tocca e ci scuote. 

Adottando un nuovo punto di vista – come fa letteralmente quando si mette a testa in giù, nel suo cameo – Sorrentino segna il goal del cinema italiano contemporaneo. 

E anche se il Goalden Globe per miglior film straniero non c’è stato, nella sala dei trofei brilla già il Leone d’argento della Mostra di Venezia. E chissà che il “campionato” non continui verso la notte degli Oscar.