Elogio dell’anormale

di Arianna Caringi

Altro nulla da segnalare è un mosaico a spirale, un turbinio composto alle volte da racconti ricchi, dalla trama pressoché completa, come germogli di romanzo, alle altre da istantanee che si sforzano di immortalare le ombre di sbiaditi e schivi fantasmi. Mani nervose e senza posa, volti scavati e accesi, passi frenetici nel vuoto. Sono questi il risultato degli incontri tra l’autrice e il dottor Luciano Sorrentino, compiuti a zig zag tra il tempo e le occasioni. E come spesso ha voluto il gioco letterario del pretesto di partenza, queste storie nascono da un ritrovamento, o meglio da una riesumazione. Lo psichiatra Sorrentino infatti, nel corso di questi appuntamenti, porta con sé una pila di “quaderni sbrindellati”, denominati “rapportini”. Questi cimeli, risalenti agli anni ’80, erano stati compilati meticolosamente dagli infermieri del reparto SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Mauriziano di Torino) al fine di lasciare un resoconto giornaliero che potesse tenere aggiornati medici e personale sanitario. Personalissimi, spesso buffi e strampalati, i testi che vengono riportati fedelmente poi nel libro sembrano effettivamente ispirare l’immaginazione a causa della loro frequente assurdità, che insieme alla naturalezza dell’abitudine del mestiere, pongono i “personaggi” descritti in un alone di bizzarra normalità. Ne viene fuori una ricostruzione immaginifica di ciò che, di queste sbiadite persone (non per tempo ma per diagnosi) è rimasto nei documenti di prassi quotidiana, di utilizzo pratico e informativo. 

Molto presente in queste invenzioni/ricostruzioni è il discorso, il lavoro compiuto da Franco Basaglia, secondo il quale era venuto il momento di costruire un’alternativa più dignitosa alla logica manicomiale. Questa, prediligendo la reclusione del malato psichiatrico, circoscrive i “danneggiati» anche e soprattutto per rassicurare quella parte di umanità considerata normale e sana. Quest’ipocrita e insufficiente scissione di valori costringe da entrambe le parti, tendendo poi a trasformare la normalità nel demone più nefasto e dannoso per l’uomo. Basaglia proponeva lo sviluppo di tecniche di relazione e di dialogo per far fronte alla «percezione vivissima dell’infelicità e dell’omologazione di tutti gli esseri umani». Nei primi anni ’80 lo psichiatra aveva infatti spinto per l’approvazione della legge 180, che consisteva nell’abolizione degli ospedali psichiatrici e dei manicomi, nonché nella regolamentazione del trattamento sanitario obbligatorio e nell’istituzione di reparti che fossero “aperti”, in cui chi soffriva di malattie mentali non venisse confinato ma, al contrario, trattato e curato come gli altri. 

Lo scopo in quel luogo di recinzione era continuare ad avere un destino. La pazzia stessa, paradossalmente, era «la convinzione d’avercelo, quel destino, e di doverlo nutrire». Grazie a questi «sacri campi di concentrazione d’inabili», si compiva dunque l’illusione della sanità propria al resto della popolazione: «ognuno di quei matti era il segno che la malattia esisteva, era presente nella società dei vivi, e andava separata dal bene comune (consueto, inconfutabile) e catalogata in reparti distinti, singoli organi e arti di un gigante paraplegico».

La pazzia diventa «una crepa» attraverso cui sgorga una luce in grado di «scovare e scardinare le ipocrisie», in grado di liberare e di insegnare la gentilezza, strumento difficilissimo da acquisire, rarissimo da trovare, ma sempre e comunque efficace nei confronti di coloro che sono colpiti dalla sventura suprema, dalla mancanza di normalità. Il «tempo della famiglia», la cui mancanza o distorsione genera spesso traumi e dissociazioni, è fonte principale di pericolo perché sede assoluta della norma. È la sventura di un sogno che non si potrà mai avverare nel modo in cui la norma lo rappresenta. Oppure, nel caso in cui si avverasse, c’è il pericolo che diventi gabbia e malessere. «La vita vera è vivere vite multiple. Singolari. Si ferma quando abbandona lo stupore e si riduce a una soltanto, quando si dimentica la lingua del posto e quelle apprese negli incontri e nelle visioni non trovano più interlocutori.» L’espressione anomala del sentire, l’eccesso del sentirsi vivere svia dalla rotta principale, dando un «aggancio particolare alla vita». Lo sviamento di conseguenza porta all’assenza di sé stessi ( «bisogna vivere vite multiple»), al continuo rinnovamento del proprio io. 

Il libro di Francesca Valente è l’ipotesi di un «io» non presente a sé stesso ma che, allo stesso momento, non essendoci stato ha contribuito alla lotta verso la stasi creata da quei soggetti perennemente sincronizzati al tempo della vita: «La ragione è spesso un’intrusa. E l’idea del tempo che ognuno si forma per sé non tiene affatto conto né della ragione, né della realtà. L’idea è anarchica.»