Emporio romano

di Francesco Forlani

Presentati:

Sono Alessandra Pierini e sono venuta in Francia nel febbraio dell’87, in una piccola cittadina a 20 km da Aix-en-Province, nella campagna provenzale per raggiungere il mio futuro marito all’epoca direttore di un caseificio nel quale si producevano mozzarella, caciotte e formaggi del sud Italia.

Quindi sei venuta per amore…

Si, sono venuta per amore. Sono partita da Genova. Nel caseificio, in cui c’erano solo italiani, per la maggior parte ragazzi pugliesi molto giovani, mi sono dedicata soprattutto alla promozione dei nostri prodotti. Ora è di moda ma all’epoca non se ne sapeva granché dei formaggi nostrani. Con l’unica eccezione della mozzarella, ma quella del supermercato, con un utilizzo in cucina e una consistenza molto diversa, più dura, e insipida rispetto alla mozzarella italiana. La mia missione era quella di fare il giro dei clienti per mostrare loro il nostro tipo di prodotto, come conservarlo, prepararlo e per le degustazioni portavo con me sempre un buon olio d’oliva, dell’origano, delle olive taggiasche, capperi, pomodorini… Tutte quelle cose insomma che uno si porta in borsa per andare in giro! La cosa buffa è che il cliente non era attirato soltanto dalla mozzarella ma anche da tutto ciò che portavo per accompagnarne la degustazione. Ogni volta che andavo in Italia, facevo la scorta di tutti questi prodotti da lasciare ai clienti dopo la degustazione e alla lunga le cose cominciavano a farsi un po’ faticose. Appena si è presentata a Marsiglia l’occasione di rilevare l’épicerie di una nostra cliente affezionata non ci abbiamo pensato due volte. Nel ’92 ho aperto il mio primo locale e messo su famiglia con l’arrivo di mio figlio. Vendevamo cose che non si trovavano da nessuna parte ancora, tutta una tradizione casalinga, intima, di mamme e nonne, di abitudini culinarie, rendendo il negozio a immagine e somiglianza della credenza di casa mia, ma solo un po’ più grande. 

Com’è stato l’incontro con la comunità italiana di Marsiglia? 

I primi anni in cui avevo il negozio a Marsiglia sono stati tra i più bei momenti della mia vita professionale fino ad adesso. Come sappiamo in Italia la cucina è molto variegata, da noi facciamo una chiara distinzione tra la cucina del Nord e del Sud, nonché delle varie regioni con tutte le tradizioni annesse. Mia madre è parmigiana e mio padre genovese, quindi la nostra cucina rispecchiava le tradizioni del Nord, con qualche influenza romana. Dunque quando sono arrivata a Marsiglia, dove la comunità italiana era formata principalmente da siciliani, pugliesi e calabresi, mi parlavano di cose che io non conoscevo minimamente, lanciandomi alla scoperta di una serie di realtà gastronomiche regionali, di identità ogni volta nuove a seconda delle persone con cui entravo in contatto. Gli italiani che venivano nel mio negozio (erano gli anni ’90) erano di solito immigrati di seconda generazione, ovvero figli di coloro che erano venuti in Francia intorno agli anni ’50-’60. Tutte persone che mi parlavano di prodotti che in Italia ormai già non si utilizzavano più, cose che loro vedevano negli anni ’50-’60 preparare dalle loro nonne. 

Mi viene in mente un piatto, la tiella, pizza rustica a base di sugo e polipetti, che si fa a Gaeta e che ritrovi identico a Sette, vicino Montpellier proprio perché c’era una comunità di pescatori gaetani trasferitisi lì in blocco. 

Il fatto di essere stata lanciata in questo paiolo di tradizioni così particolari e diverse è stata per me un’occasione per riscoprire le mie radici italiane. Ho avuto anche la fortuna di incontrare il signor Scognamillo, che ora non c’è più, che veniva in negozio per insegnarmi la pasticceria napoletana e siciliana, come fare i cannoli, il casatiello napoletano, la sfogliatella… Per me è stata una scuola di vita gastronomica incredibile. 

La tua vita è stata davvero un ponte tra l’Italia e la Francia, e si riflette nella bellissima opera, On va déguster l’Italie, in cui hai dato un contributo fondamentale, direi.

È il risultato di tanti anni di scoperte grazie alle quali il mio lavoro è diventato una vera passione e, alla fine, il modo in cui vivo veramente la mia vita, sempre a contatto con questi prodotti e le loro storie. Come ho già raccontato, ogni 15 giorni, di lunedì, andavo al mercato di Sanremo o a quello di Ventimiglia, prendevo i prodotti freschi e li portavo a Marsiglia per venderli. Quando però ho aperto il negozio, i clienti hanno cominciato a interessarsi sempre di più non soltanto a questi prodotti ma anche a come cucinarli. Allora ho pensato: e se aprissi un ristorante? Nel negozio di Marsiglia avevo una piccola cucina, e una seconda sala in cui abbiamo messo 22 coperti, così ho iniziato a far da mangiare a pranzo soltanto con i prodotti che avevo nel negozio. Ho potuto far conoscere tutte le paste artigianali che le persone non potevano spesso acquistare, perché erano molto care, e che avevano paura perfino di cucinare nel timore di rovinarle o sprecarle. Tutto questo per 17 anni. 

Come mai ti sei trasferita da Marsiglia a Parigi?

L’avventura della locanda di Marsiglia, nata nel 1994, si è conclusa il 15 giugno 2010. Immediatamente, il 16 giugno 2010, ho firmato il contratto per il ristorante a Parigi. Mi sono stabilita a Parigi definitivamente in agosto. C’erano tante cose nuove che avevo voglia di fare e che la struttura del negozio di Marsiglia non mi permetteva di realizzare perché non c’era abbastanza posto. Il ristorante di Parigi mi permetteva di ampliare la scelta del menù, fino ad allora limitata ai prodotti che avevo in negozio, con piatti anche di pesce e di carne, sempre eseguendo ricette regionali. Ricordo che stavamo ancora facendo i lavori nel nuovo locale quando ho visto dall’altra parte della strada due locali chiusi e un po’ in rovina, con le vetrine sporche, tanto da farmi pensare che sarebbe stato un un peccato con i clienti seduti in terrasse di trovarsi di fronte a uno scempio del genere. I due locali erano in affitto, e la curiosità mi ha portato a chiedere all’agenzia che se ne occupava se potevo mettere a posto gratuitamente la facciata, abbellirla un po’. Ho saputo da loro che erano anni e anni che nessuno veniva a visitare questi posti, e che se fossi stata interessata ad affittarli me lo avrebbero fatto vedere. Curiosa come sono accettai l’invito a visitare quella che aveva tutta l’aria di essere un’agenzia immobiliare degli anni ‘70, con tanto di moquette. C’era una stanza principale d’una ventina di metri quadri che sovrastava un vero e proprio tesoro: una cantina in pietra di tufo di 25 m2 (più grande del mio locale!). L’ideale per la cantina di vini da servire alla gente in negozio. Lo affitto su due piedi. Al pianterreno ho creato un’épicerie e due mesi dopo ho aperto il ristorante. Nel 2014, esausta per il lavoro al ristorante che tra l’altro non mi permetteva più di andare in Italia a cercare i prodotti, conoscere i produttori da portare in Francia, di fare insomma quello che mi piaceva di più del mio lavoro, ho deciso di vendere tutto riaprendo soltanto l’épicerie in un locale pochi metri più in là. 

Come descriveresti la nouvelle vague della cucina italiana, dovuta in parte anche alla grande nuova migrazione degli italiani di cui sei stata in definitiva una pioniera? 

Innanzitutto non avrei mai creduto di lasciare Marsiglia. Una città che mi ha dato tantissimo dal punto di vista professionale, dove ho potuto vedere come le persone avessero davvero la curiosità di seguirmi, di scoprire i miei prodotti con un’attenzione particolare. Il cliente di Parigi però, essendo di solito “di quartiere”, solitamente è molto più fedele. Il grande numero di persone che si trovano poi in una grande città ti permette di raggiungere i vari appassionati di cultura italiana, e sono più curiosi e aperti al nuovo, mentre il marsigliese devi prenderlo per mano ed avvicinarlo con attenzione ad un mondo che non conosce. Lavorare a Parigi mi permette quindi anche di ampliare i miei orizzonti di vendita, di inventarmi nuove cose. 

Il libro. Com’è nato?

François-Régis Gaudry è venuto a trovarmi quando ancora avevo il ristorante qui a Parigi per fare un articolo sulla nostra cucina. Lui ha subito capito le mie intenzioni, è entrato in sintonia con la cucina italiana che proponevo, differente rispetto a quelle presenti un po’ in tutta Parigi. Un giorno, sapendo che facevo spesso la spola con Genova, mi chiese di potermi accompagnare. Era l’anno del Campionato Mondiale del Pesto a Palazzo Ducale, un’occasione unica per visitare la città. Si è innamorato della cucina genovese, scoprendo che la cucina italiana nel suo insieme è un mosaico infinito di tradizioni e particolarità regionali tutte da scoprire. Abbiamo così cominciato a viaggiare per l’Italia, a patto che lui non vestisse i panni del giornalista e che mi accompagnasse semplicemente in quanto viaggiatore curioso. L’ho presentato a tutti i miei amici del settore e alle persone con cui lavoravo, dal pastore in Sardegna alle nonne siciliane. Una vera e propria Eldorado per lui e per me un momento di riscoperta, di ritrovamento, visto che era tanto che non viaggiavo così in Italia (era il 2011). Abbiamo allora cominciato a fare queste incursioni con una certa regolarità, ad animare delle trasmissioni radio, a scriverne, soprattutto lui, per la stampa. Anno dopo anno abbiamo raccolto tanto di quel materiale che alla fine ci siamo detti: e se ne facessimo un libro? Vista la natura enciclopedica dell’impresa abbiamo messo su una squadra di collaboratori, persone del mestiere, conoscitori della cucina italiana come suo cugino Stéphane Solier, professore di Lettere classiche al liceo francese di Roma dove ha vissuto per molto tempo, a Palazzo Farnese per la precisione, gastronomo e ricercatore della cucina romana antica.  Ben 159 persone hanno collaborato, tra chef e specialisti. Il risultato è stato enorme, alla fine abbiamo dovuto togliere più di trenta pagine per esigenze tipografiche. Ha avuto un successo incredibile e inatteso, per noi, gli editori, con un numero di ristampe pazzesco e con circa 85 mila copie vendute. A volte mi chiedo se un’impresa titanica come questa sarebbe stata possibile se non fossimo stati chiusi dentro per via del confinement.