Giallo a librerie chiuse

Intervista a distanza (di tempo e di spazio) a Alessandro Robecchi

a cura di Sirio La Pietra

 

Il 12 marzo è uscito I cerchi nell’acqua, una storia di strada, un intreccio di sbirri, di criminali e di criminali sbirri, di senso del dovere, di cognizione del lavoro, di come si cerca di stringere, a qualunque costo, il confine del dolore che si espande come un cerchio nell’acqua.

 

Un periodo non troppo florido per l’uscita del libro che comunque sta avendo un enorme successo. Sarebbe stato travolto da presentazioni e conferenze, come ha trascorso le giornate in quarantena, si riposa o lavora già a qualcosa di nuovo?

Non passa giorno che il calendario di Google non mi ricordi, su tutti i miei device e con trilli diversi, gli impegni saltati, le presentazioni annullate, i posti in cui avrei dovuto essere. È un piccolo colpo, ogni volta, perché io considero il rapporto con i lettori, con i librai e con tutti gli operatori del settore editoriale come una cosa preziosa. È vero che il libro va molto bene, anche se non so cosa significhino le classifiche con le librerie chiuse, ma trovo eroica, a volte addirittura commovente, questa ostinazione a cercare il libro, a procurarselo, a consegnarlo a domicilio. Riapriranno le librerie (con tutte le cautele del caso, la difesa dei lavoratori di qualsiasi settore mi sta molto a cuore) e il libro avrà una vita quasi normale, ma non mi dispiace in fondo l’idea che finora abbia vissuto come un samizdad. Quanto alla quarantena non credo di essere un caso a parte. Come per tutti la fatica maggiore è la concentrazione e quanto a scrivere è molto difficile: per me scrivere è parlare di noi, del nostro mondo, delle nostre città, della curvatura che prendono le vite, e cosa ci sarà dopo questo momento catastrofico alla romanzo di Ballard che stiamo vivendo è difficile da immaginare.

L’uscita de I cerchi nell’acqua credo sia coincisa con l’inizio della quarantena e dunque con la chiusura delle librerie. Nonostante il grande lavoro che le librerie indipendenti hanno fatto, aprendo e effettuando consegne a domicilio, molti lettori si sono avvicinati all’e-book, come considera questo tipo di esperienza di lettura? 

I cerchi nell’acqua è uscito, cioè non è uscito, proprio il giorno di chiusura delle librerie. Ci rido un po’ su, è una cosa da romanzo russo, da raccontare ai nipoti: dietro le serrande chiuse delle librerie italiane ci sono decine di migliaia di copie “in sonno”. Per chi lavora nel settore è una mazzata senza precedenti. Sul libro elettronico non so che dire, io mi muovo in un, diciamo così, sistema misto per cui non disdegno la lettura elettronica, non me ne sfugge la comodità, ma i miei libri del cuore, quelli che amo, quelli che spesso riprendo in mano, li voglio di carta, sul comodino. Vorrei aggiungere due cose che meriterebbero qualche riflessione “colta” (che quindi lascio ad altri). Si parla sempre molto di tecnologie friendly, di “touch”, di fazioni che dividono il mondo, per esempio, tra Apple e Android… beh, il touch che ti dà un libro di carta, che ha il suo odore, la sua consistenza, il suo frusciare, il suo rovinarsi per uso e amore non è facilmente sostituibile. Ma per favore non mi faccia passare per il vecchio parruccone che “Ah, era meglio con le tavolette di cera e i papiri”, non è così. Poi c’è un’altra faccenda: il libro elettronico cambia il modo di leggere, non è detto che sia un male. Il lettore può cercare facilmente all’interno del testo, scovare ripetizioni, sapere quante volte è stata scritta una determinata parola. È rischioso per chi scrive, d’accordo, ma forse metterà il lettore davanti alla rivelazione che scrivere un libro, e magari scriverlo bene, non è una faccenda così semplice…

L’architettura del romanzo è disarmante. L’assurdo sta nella ragionevolezza, nella logica conseguenza degli eventi che si incastrano perfettamente nella trama. È una domanda indiscreta, ma credo che in molti se lo siano chiesto. Come ha lavorato? Come ha progettato la storia? In itinere o aveva già una struttura che ha poi rivestito in forma letteraria?

Vorrei fare una premessa: ognuno ha il suo metodo e tutti i metodi sono validi. Detto questo, non credo che la forma e la sostanza siano divisibili: quando penso a una cosa, diciamo così, la penso “scritta”, quindi non è possibile per me costruire una sostanza e poi “verniciarla” con una forma. Non prendo nessun tipo di appunto, non scrivo niente, nemmeno le date e i nomi dei personaggi. La storia cresce con me per mesi, la penso, la limo, la cambio nella mia testa, anche mentre faccio altro, forse soprattutto mentre faccio altro, come se avessi una finestra di Word perpetuamente aperta nel cervello. Quando apro il mio Macper scrivere so da dove partire e dove arriverò, naturalmente concedendomi variazioni e modifiche, digressioni. Riscrivo molto, si può dire che per tre, quattro mesi scrivo e leggo solo quello che scrivo, e lo riscrivo meglio. Se si vuole usare il genere per fare letteratura (chiedo perdono) bisogna conoscere gli stilemi e i topos del genere, e usarli con grande rispetto. Il meccanismo noir (voi dite polar, giusto?) deve funzionare come un orologio, non deve mai esserci qualcosa di non spiegabile (quei gialli col sosia, o col gemello, o mio dio!). Ma vengo alla cosa più importante: quando penso a una storia, la prima cosa che mi chiedo è: cosa voglio dire? Sulle nostre vite, sulle dinamiche che attraversiamo, sui nostri posti, sulle nostre città, la trama è costruita su questo, deve dirci qualcosa di noi. Sorrido molto quando sento frasi come “È un noir ma è scritto bene”, oppure – grande complimento – “È più di un noir”. Penso a Therèse Raquin di Zola, uno dei più bei noir della storia, un libro sulla potenza del rimorso… chissà se nel 1867 qualcuno ha detto… “È più di un noir!”.

In questo romanzo c’è una grande assenza, il Monterossi, protagonista di altri sette gialli, e con lui anche Bob Dylan, compare solo una canzone: Absolutely sweet Marie. Ma il Monterossi trasuda dylanismo anche se non lo dice apertamente, infatti la conversazione con il poliziotto Ghezzi si svolge in un’atmosfera che ricorda The ballad of a thin man dove Monterossi è il mister Jones di Dylan e il Ghezzi usa parole che somigliano a Positively 4th street. Insomma il Monterossi evoca Dylan in ogni gesto e ovunque si trovi. Quanto le è costato farne a meno?  Non ha paura che il Monterossi possa risentirsi?

“Perchè qui sta succedendo qualcosa / ma tu non sai cos’è / vero, mister Jones?”. Sì, è una citazione azzeccatissima, mi complimento. Però contesto che il Monterossi sia assente. Certo, è assente dalla trama principale, dalla storia e dall’azione. Ma è lui che riceve il racconto-confessione del poliziotto Ghezzi, ed è lui che – dopo – ci pensa e ne trae alcune conclusioni. Una delle cose che volevo dire è proprio questa: ci sono parti della società, ambienti, classi sociali che non si parlano, non si capiscono, nemmeno prendono in considerazione l’esistenza di altre parti della società. Ghezzi dice al Monterossi “Lei non ha idea di cosa c’è là fuori”, ed è vero, Carlo non ne ha idea. In questo senso non è più il vecchio flaubertiano “Monterossi c’est moi”, ma un più generale “Monterossi c’est nous”. Questo contiene una grande ipocrisia, perché sono i bravi cittadini, i buoni borghesi, che vanno a puttane o comprano la cocaina, quindi con quello che c’è “là fuori” hanno contatti frequenti, ma continuano a far finta che non esista… Su Dylan dirò questo: Dylan è un grande poeta degli abbandoni, è come la Bibbia, è come Shakespeare, quando non sai dare parole a uno spiazzamento emotivo, a uno spostamento del cuore, sai (Monterossi lo sa bene) che Dylan avrà una strofa per te, una riga in cui dice quello che stai provando meglio di come lo diresti tu. Ma… non è a questo che servono i poeti? Esattamente a questo. Quando Monterossi riflette sul racconto di Ghezzi, che è duro, realistico, senza sconti per nessuno, gli viene in mente un altro poeta, non solo Dylan. È il Majakovskji de La nuvola in calzoni quando dice “Un chiodo del mio stivale / è più raccapricciante / della fantasia di Goethe”: Ecco, due righe per dire una cosa immensa, densa, grandissima. I poeti servono a questo, e Dylan è un grandissimo poeta.

C’è un momento del libro in cui gli eventi si fermano un momento. Il Ghezzi si trova sulla soglia dei sessant’anni a fare i conti con il sé stesso di quarant’anni prima, il tempo ha deformato il confine tra i buoni e i cattivi a cui il sovrintendente Ghezzi faceva la guardia e ora non ha più cognizione di dove si trova o di dove sia giusto trovarsi. Tutto ciò gli si apre di fronte una città che non riconosce più, viene colto dalla nostalgia di una Milano che forse non c’è più e difatti quella che viene raccontata è una Milano diversa da come la si immagina di consueto, più barbara e più incivile. Si nota che forse anche lei è in conflitto con l’immagine così smart, chic ed esasperatamente fashion della città. È d’accordo? Come va ad accavallarsi questa nostalgia della città con quella che si sta vivendo in questi giorni di quarantena?

Il discorso su Milano è complesso. È una città che si è raccontata benissimo in passato. Penso a Testori, al Bianciardi de La vita agra, ma anche alle atmosfere cupe di Scerbanenco, alla stralunata follia di Jannacci… Dagli anni Ottanta in poi la narrazione sulla città è diventata monodimensionale: moda, design, uh, il grattacielo con le piante! Uh, la dinamica modernità!… alti redditi e bei negozi. Si è accettata supinamente una narrazione “padronale”, dimenticando che quel dinamismo ha un prezzo altissimo in termini di diseguaglianze. Mentre le narrazioni importanti sul boom economico dei Sessanta erano narrazioni critiche su quel modello economico e culturale (penso a un maestro assoluto come Lucio Mastronardi), oggi si sostiene l’onda, pare che convenga. La percezione di Milano che si ha nel Sud e Centro Italia, per esempio, è completamente sfalsata da questa propaganda. Milano è moltissime altre cose, che si preferisce non vedere. È vero, Ghezzi ha delle nostalgie, pensa alla Milano in cui ha cominciato a fare lo sbirro quarant’anni fa e trova quella di oggi molto diversa, stravolta. Si chiede: “Siamo più felici? Siamo migliori?”. Rileggendo oggi quella pagina non si può sfuggire a un effetto di… matrioska delle nostalgie. Ghezzi ricorda la città di un tempo, noi ricordiamo quella anche solo di due mesi fa, e ci manca. Ogni tempo contiene una nostalgia, con dentro una nostalgia, con dentro una nostalgia… Attenzione, non intendo nostalgia come “Ah, che bello il passato” (il passatismo non mi interessa), ma come una giusta, sacrosanta affezione ai segni che quel passato ci ha lasciato.

L’altra grande figura del romanzo è Carella, energia pura canalizzata dalla saggezza del suo collega Ghezzi. Carella sembra apparentemente uno che non vuol sentire ragioni, che agisce istintivamente, che prende botte e che ne dà se necessario. Nel corso della storia si dischiude e comunica di essere proprio alla ricerca di motivi, la ratio del proprio mestiere che mette a rischio il mestiere stesso, Carella cerca di cambiare il corso degli eventi per rafforzare i pilastri della sua morale di ferro. Ho trovato che I cerchi nell’acqua sia un libro che parla anche di questo: di cosa sia più importante tra coltivare un talento o coltivare un surrogato di fama, c’è un conflitto tra lo scopo del proprio lavoro e i meriti che ne derivano. Non trova che questo sia molto distante dalla nostra epoca?

Io sono un chandleriano, e capisco bene cosa voleva dire Chandler quando scriveva “L’investigatore è tutto”. Carella ha un’etica a prova di bomba proprio perché non va tanto per il sottile, non capisce le sfumature, gli sembrano deviazioni dal percorso. Anche da sbirro, sa bene che la giustizia dei tribunali e il senso di giustizia che ognuno porta nel profondo di sé sono cose molto diverse, è uno che prende i suoi casi come “una faccenda personale”, e qui, dove la faccenda è quasi davvero personale, esce dal seminato, fa cose che non dovrebbe fare, si sporca. Ci sono pagine molto hard-boiled, nel romanzo, e non è un esercizio di stile, è che a certe latitudini della società (quelle che tutti noi Monterossi non vogliamo vedere) la vita è piuttosto dura e hard-boiled. Né Carella né Ghezzi si preoccupano di quel “surrogato di fama” che è la carriera, avanzare di qualche gradino, sovrastare chi sta sotto di te, le medaglie e gli encomi, sono cose che non gli interessano, preferiscono avere la folle pretesa di raddrizzare un po’ i torti che osservano e su cui lavorano. È molto distante dalla nostra epoca? Può darsi. Può darsi anche che sia questa distanza a renderceli preziosi, perché ci dice che della nostra epoca non dobbiamo proprio accettare tutto, e se vogliamo – un domani – un’altra epoca è bene distinguere, tra le cose che abbiamo, quelle buone e quelle cattive.