Il perimetro di niente

di Patrizia Molteni

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Un dolce far niente che è sinonimo – in Francia e nel mondo – de l’art de vivre à l’italienne. Ma quanto è dolce il far niente? E soprattutto che cos’è il “niente” che si fa? È possibile non fare assolutamente niente, neanche pensare, dormire, sognare? E in che cosa sarebbe dolce? Dove si situano l’ozio, l’accidia, la noia, la procrastinazione, lo spleen?

Un ossimoro, il dolce far niente: all’azione del “fare” viene associato il niente. Quello che ha reso questa espressione nota nel mondo intero, quasi sempre a designare l’art de vivre à l’italienne, è l’idea geniale di aver aggiunto “dolce”.  Pare sia stato Plinio il Giovane, che dalle vacanze romane in una villa come solo allora potevano esserci, fa dire a una ragazza “illud iucundum nihil agere”, da sempre tradotto in “quel dolce far niente” anche se “iucundum” evoca piuttosto un momento giocondo, per lo meno sereno e piacevole, tanto che l’aggettivo servì a coniare il soprannome di Monna Lisa con la sua aria pensosa e qual sorrisino zen sulle labbra, ma anche gioioso, divertente, magari un po’ brillo.

Senza queste accortezze linguistiche, il far niente si riduce a ozio, pigrizia, noia, procrastinazione, persino depressione. Jovanotti così l’ha usato in uno dei suoi testi dedicati ai bamboccioni scansafatiche: “Dolce fare niente dolce rimandare / stare con i piedi penzoloni guardando il mondo girare / aspettare dolcemente l’ora di mangiare” (1999).

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Il frattempo

Mia madre viveva nel frattempo, plagiando per anticipazione i tempi odierni. Nel frattempo che il ragù cuoceva faceva un arredo per la casa, nel frattempo ne approfittava per sistemare e nello stesso frattempo guardava gli estratti conto della banca mentre rispondeva al telefono alla figlia che chiamava dieci volte al giorno (mia sorella), si prendeva cura della nipotina…. Alla fine non si capiva più nel frattempo di cosa stava facendo cosa. Era un tempo moltiplicato che noi figli abbiamo imparato da lei, diventato tutti più o meno iperattivi (nostro malgrado).

Lo abbiamo visto in questi mesi di confino più o meno rigido che ci sono cascati addosso quando ormai ci eravamo abituati a ritmi di vita frenetici, all’iper-produttività, all’efficienza, al divorare a tempo di record anche quelli che potrebbero essere momenti di piacere, dallo shopping al teatro, alla cena con gli amici interrotta da telefonate urgenti del lavoro. Chi non si era accorto che questo stile di vita non aveva niente a che fare con la Vita, ha continuato in telelavoro, passandoci non solo le ore dette “d’ufficio”, ma anche quelle che avrebbero dovuto essere dedicate a svago e famiglia. Magari anche con quel senso di colpa di aver preso un caffè in più, di aver perso tempo a fare i compiti con i figli, di aver passato cinque minuti al telefono con la sorella, durante quelle benedette “ore di ufficio”. Chi invece non aveva granché da telelavorare, si è riempito il tempo di corsi di russo, yoga, cucina vegana, programmi di grafica, scrittura creativa e via dicendo. Con un senso di colpa simile, solo che questo viene dall’impressione di perder tempo, di non avere diritto a non fare proprio niente. Moltissimi altri si sono rifugiati nella TV, intesa come oggetto di compagnia più che di cultura, pranzi e cene e spuntini da far ingrassare anche le acciughe e tanti, ma proprio tanti, sui social a dir la loro su qualsiasi cosa, a sproposito, e intavolando animate discussioni con perfetti sconosciuti su temi di scarsissimo interesse, o postando l’inventario di tutto quello che hanno mangiato e bevuto nel mese di marzo (poi aprile, maggio…) 2020.

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