La poesia è una casa antica

testo e foto di Valeriano Forte

 

Ci sono strade che affondano nel passato, conducono nel presente e proiettano nel futuro, in piena continuità con ciò che più gli compete, guidare, collegare, condurre, diramando storie, culture, merci, vite; vene di un tessuto che si alimenta e vive di tutto, nel bene e nel male.

Non tutte hanno la fortuna di condurre in luoghi ricchi di storia, di leggende, di meraviglie paesaggistiche e architettoniche, alcune non hanno neppure uscita, altre invece, fanno da trait-d’union, dando vita ad itinerari che rapiscono. Salerno, antica città longobarda, adagiata tra la Costa d’Amalfi ad ovest e la Costa cilentana a sud-est, terra del mito cantata da Omero nell’Odissea. Salerno è lì, a cavallo, tra la dieta mediterranea e le repubbliche marinare e i loro scambi con l’oriente, con tramonti che bruciano sullo sfarzo delle antiche vestigia di Paestum e di Pompei. Un bagaglio che caratterizza lo spirito dei più antichi viaggiatori, o di quelli che nel grand-tour facevano tappa in questo sud, percorrendo itinerari che spesso li trattenevano dal far ritorno alle fredde patrie del nord-europa. Ogni percorso ha una chiave di lettura, più o meno tangibile, decifrabile, un racconto muto, che ogni viaggiatore legge differentemente. Quando si entra al Rione Fornelle, il tempo si ferma, congelato da qualcosa che ci sfugge, ma il genius loci è potente, ed erge questa porzione di spazio, un cuore nel cuore della città, il suo centro storico. Questo rione è il più antico e canta una melodia tutta sua, una versione della storia differente da quella che invece riguarda Salerno. Nell’anno 838 il Principe Sicardo, per meri fini commerciali, con la speranza di poter spostare parte degli interessi della Repubblica d’Amalfi verso Salerno, cercò, attraverso matrimoni, di fondere le due popolazioni, quella salernitana con quella amalfitana, ma si sa, ci sono cose che non si possono programmare e che sfuggono al controllo, generando poi storie del tutto inaspettate. Alla morte del principe, gli amalfitani incendiarono il quartiere e ritornarono sulla costa, mentre altri invece rimasero a Salerno. Agli amalfitani diedero l’area compresa tra il Fusandola e l’attuale via Porta Rateprandi: il quartiere, simile ad un borgo marinaro, aveva ancora, fino a venti anni fa, attività legate alla pesca e al traffico marittimo, come la fabbricazione di attrezzature per le barche, la tessitura di reti e la lavorazione della ceramica. Tutto questo ti investe quando entri alle Fornelle, ti lasci alle spalle la città rumorosa e frenetica, le doppie file, le luci d’artista, il provincialismo e le sterili iniziative. Qui c’è l’essenza, qui c’è Salerno, quella vera, quella fatta di poesia e di persone, ed è proprio la poesia a fare da red-carpet al visitatore. Parole, sapientemente cucite a mano sui muri bianchi da paese costiero, dal rumore dell’acqua, che accarezza e minaccia il suo fianco, in un connubio vecchio di secoli. Il fuoco delle vecchie fornaci ha lasciato la sua energia nel terreno e l’aria che mitiga il rione viene dal mare da un lato e dagli orti medievali che lo sovrastano dall’altro, orti dove la prima università di medicina al mondo coltivava erbe attraverso la maestria della prima donna medico della storia: Trotula de Ruggiero (1050-1097). La poesia, come un filo di Teseo, c’incoraggia e fa scoprire strade, slarghi, passaggi bassi, fatti da archi o volte, che uniscono i vicoli. La parola del quartiere nasce nel napoletano, in questa lingua unica, dalle mille sfumature, che qui viene parlata e cantata dai balconi. Una parola che diviene casa, sulle labbra delle donne sedute alla sera come intorno al fuco ai piedi delle abitazioni. Arte popolare, arte che racconta: poesia. Il connubio tra la parola scritta e l’immagine fa nascere un museo a cielo aperto (40 artisti), non istituzionalizzato, non mercificato, dove l’arte fa da grido e canzone, narrando ciò che occhi ed orecchi perdono, forse distratti da finte luci di progresso che altro non sono che cerini in una notte di tempesta. Ogni poesia scritta è accompagnata da un murales, ne porta fuori una descrizione tangibile, duratura. Quattro i capisaldi di questo percorso, sono gli ingressi al Rione Fornelle dalle varie direzioni, dal mare, dal Campo, antico mercato del centro storico, e quella che proviene dalle antiche mura che si chiudevano immediatamente fuori al Rione; tre di questi hanno un murales di quindici metri ad accogliere il viandante. Entrando dalla salita Fusandola, nome preso dal torrente che vi scorre, c’è l’Apollo ritrovato, disegno della testa bronzea ritrovata nelle reti dei pescatori in una fredda notte del dicembre 1930 nel golfo di Salerno. Una breve ma profonda scritta in basso recita: “Lasciare libero il passaggio di idee”. Entrando da Porta Catena, antica porta per chi giungeva dal mare e dalla costa d’Amalfi, si è risucchiati da un passage tutto azzurro, con al centro della volta un sigillo di parole, come a racchiudere la sintesi di ciò che sta per accoglierci, un sigillo di benvenuto: Alfonso Gatto, Fornelle, Salerno, Parole, Quartiere, Racconto, Popolare, Mare, Famiglia, Faro – circondato da un pattern di lettere blu, che immerge e proietta tra le onde e il viso di Nettuno del murales di fronte al tunnel. Venendo invece dall’antica direzione del Campo, si passa in un vicolo stretto e alto con la casa natale dell’immenso poeta che è stato Alfonso Gatto (la Fondazione a lui intitolata ha promosso il progetto Muri d’Autore1), si raggiunge una piazzetta, dove i bimbi giocano a segnare i loro goal in una porta da vero stadio, disegnata a murales, accanto, un piccolo edificio rettangolare, un dispensario di farmaci, rivestito di un pattern di parole e su esse la poesia di Gatto A uno straniero:

Se voi sapeste,

l’Italia è una povera terra dove l’uomo

nasce coi morti, azzurro con le pietre

dei secoli, (…)

Ci troviamo esattamente agli antipodi rispetto al murales dell’Apollo ritrovato, qui si trova L’estasi di Dafne, secondo murales di quindici metri che svetta in uno spazio pedonale stretto, ma visibile dall’alto dei giardini che lo costeggiano. È bellissimo! Il mito narra che Dafne si trasformò in albero per sfuggire all’amore folle di Apollo, accanto al disegno c’è una poesia di Paul Eluard che dona giustizia a questo primo caso di stalking della mitologia:

Fuggiremo il riposo,

Fuggiremo il sonno.

Prenderemo al volo

l’alba e la primavera.

E prepareremo giorni e stagioni.

A misura dei nostri sogni.

Alle nostre spalle c’è un muro diroccato, su cui spicca una frase di Alfonso Gatto utilizzata per la giornata della Shoah:

La memoria non è quello che voglio ricordare, ma ciò che non riesco a dimenticare.

Questo museo en plein air è divenuto meta di viaggiatori più che di turisti, di troupe di film indipendenti, di musicisti, di scolaresche, che fanno lezione tra colori e panni stesi al sole, con i versi di Ungaretti, di Alda Merini, di Nazim Hikmet, di Quasimodo, di Saba, di Allen Ginsberg, di Dylan Thomas, di Calvino, di Edoardo Sanguineti, di Mario Benedetti, di Sinisgalli, di Jim Morrison, di Libero Bovio, di Salvatore Di Giacomo, di Pino Daniele e Massimo Troisi, di Totò, di Eduardo De Filippo, con questi ultimi un tributo alla napoletanità, attraverso la sua bellissima lingua. Le radici, come quelle rappresentate dalle donne del quartiere, sono immortalate nell’ultimo murales di quindici metri, quello che ti accoglie quando provieni dall’ingresso dell’ascensore pubblico che unisce il centro storico alto con il basso; le donne, le madri, si ergono nel dipinto, sormontate da una rondine che spicca il volo trascinando un cartiglio con sopra un verso di Gatto:

Il cuore d’improvviso ci apparve in mezzo al petto.

Ma la poesia, con semplicità, fa anche da monito per i più refrattari, come quella di Antoine de Saint-Exupéry nel passaggio tra due blocchi di case:

Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.

O quella del poeta albanese Visar Zhiti:

E daccapo è giunta l’epoca di pensare, o cuore.

Questo camminare nel rione, non è qualcosa che si ricorda come una passeggiata, ma piuttosto un racconto fatto di pezzi che si montano dentro di te e che rimangono, sedimentando e dando nuovi spunti e riflessioni, non c’è un concetto chiuso, non c’è un messaggio univoco, ma universalità, un canto di fratellanza:

I sentieri del mio paese ti si impigliano tra i piedi.

Come recita appunto il poeta amerindiano Humberto Ak’abal, i vicoli del rione Fornelle di Salerno ti conducono lontano, tra culture, lingue, immagini, colori, emozioni, letteratura, storia, architettura, in un corale canto alla vita, che è la poesia stessa.