L’europa degli oggetti

di Cinzia Crosali

Nel sessantesimo anniversario del primo atto costitutivo dell’Europa, il presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha annunciato “Fatti gli europei, ora bisogna fare l’Europa!”, alludendo in questo modo a un’altra frase famosa, “Fatta l’Italia ora bisogna fare gli italiani”, che Massimo D’Azelio avrebbe pronunciato all’alba dell’Unità d’Italia nel 1861. In entrambe le situazioni il riferimento è chiaro e riguarda la difficile governabilità e integrazione di popoli così  eterogenei e distanti fra loro.  Essere Italiani o essere Europei concerne l’identità, ed è quindi una questione di identificazione attorno  un significante che dovrebbe essere un simbolo fondamentale.  L’amore e l’odio per l’Europa non può prescindere da questi processi di identificazioni già esplorati da Freud in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”.  Senza ideali simbolici e senza passioni non si producono né identificazioni, né identità.  L’ambivalenza affettiva nei confronti dell’Europa è legata alla complessità del “sentirsi europei”, espressione ancora molto precaria e confusa per i cittadini dell’Unione.

La Storia trasmette che i Padri fondatori avevano pensato a un’Europa dei popoli, “estesa dall’Atlantico agli Urali”1, come lo sperava il generale De Gaulle, un’Europa attraversata dal romanticismo, da un ideale sovranazionale, dallo spirito del dopo guerra e dal grido “Mai più quello!”.  Possiamo oggi dire che c’è un “sogno europeo” così come si parlava una volta del “sogno americano”?  Alla fine degli anni cinquanta, questo sogno significava in primo luogo: pace! Significava accettare le differenze degli Stati, stringere alleanze con nemici secolari contro i quali tanto sangue era stato versato negli anni e nei secoli precedenti. Che rimane oggi di questo sogno? La mia generazione, nata insieme all’Europa dei primi sei paesi firmatari, non ha conosciuto la guerra; per la prima volta un’intera generazione ha vissuto senza la ferita diretta, intima, devastante, della guerra nelle proprie case. Condizione privilegiata e sconosciuta ai nostri genitori e ai nostri nonni, essa è considerata spesso come una normalità, è data per scontata, e l’eco dei cannoni e dei bombardamenti tra Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Spagna… appartiene al passato dei nostri libri di storia.   Eppure la fine delle guerre europee non ha inaugurato la fine dell’odio, né l’affermarsi di un’armonia europea. La guerra, che è sempre stata quella dei mercati, fa oggi l’economia degli antichi campi di battaglia, ma continua a essere feroce e animata dalla volontà di egemonia e di potere.  Il parlamento europeo con i suoi 750 deputati eletti democraticamente dai cittadini degli stati membri è la sola istituzione eletta dal popolo europeo, ma nei fatti il suo potere è estremamente limitato e l’emiciclo di Strasburgo è spesso teatro di attacchi, accuse e lacerazioni, quando non si tratta chiaramente di insulti.   L’attuale Europa non riesce a coniugare gli imperativi dell’economia e del mercato con gli ideali di unione e di libertà. L’allarme migratorio ha rivelato in modo lancinante la crisi politica Europea, mostrando l’altra faccia dell’unione, quella dell’indifferenza, che è spesso la maschera dell’intolleranza e dell’odio.  Nuovi fantasmi si agitano alla radice di un rinnovato razzismo, da tempo profetizzato da Lacan che, in Televisione, ne anticipava l’ascesa, indicandone la causa nella tensione che si apre tra i sembianti di fratellanza “l’umanitarieria d’obbligo2  e ciò che di insopportabile c’è nel godimento dell’altro.  La guerra non è solo fra le culture, ma soprattutto fra i diversi modi di godere. Il discorso capitalista subordina il godimento agli oggetti e alla loro consumazione sfrenata. La circolazione degli oggetti di produzione è la principale preoccupazione dell’economia europea confrontata tra l’altro al surplus di prodotti in eccesso. Le “quote di produzione” imposte dall’UE non hanno risolto i problemi di conflitto tra gli Stati e la Corte di giustizia Europea moltiplica le condanne e le sanzioni ai paesi insubordinati. L’Italia per esempio supera da anni la quota nazionale di produzione di latte, contravvenendo agli accordi stipulati a Bruxelles. È interessante che sia proprio il latte, uno dei prodotti più sensibili negli scontri economici dell’Unione, scontri che producono il malcontento degli allevatori frustrati dall’imposizione di limitazioni. I produttori vogliono avere diritto a più latte e guardano con ostilità i paesi concorrenti!  La vignetta agostiniana, che Lacan ha spesso commentato3, non è lontana da questa antica tenzone. Sant’Agostino descriveva l’invidia negli occhi di un bambino, ancora tanto piccolo da non saper parlare,  mentre guarda il fratellino più piccolo che, attaccato al seno della madre, succhia quel latte che fino a poco tempo prima era destinato a lui.  L’odio procede dal godimento dell’altro, dall’invidia di un godimento insopportabile perché appare superiore, migliore, comunque diverso dal mio.

L’amore e l’odio per l’Europa passa quindi per la via dell’oggetto.  Progettati, prodotti, immessi nella circolazione del mercato, contesi, desiderati, consumati, “gli oggetti” sono il fulcro delle relazioni contemporanee tra gli Stati, tra i partiti, tra i rivali. Non si discute e non si lotta più per le idee, ma per degli oggetti materiali: denaro, beni di consumo, tasse, prodotti.

E’ rilevante che l’Europa del trattato di Roma del 1957 abbia le sue radici nella CECA, cioè in un’organizzazione nata qualche anno prima attorno a due oggetti fondamentali: l’acciaio e il carbone, due “oggetti” talmente irrinunciabili per l’energia e per l’industria, che fu urgente nel dopoguerra, regolarne la produzione e la consumazione, cioè le modalità di godimento.  In seguito tutti gli oggetti della produzione-consumazione della futura Comunità Economica Europea, passeranno al vaglio di questo dispositivo regolatore.

Le derive del trionfo degli oggetti di consumo, rappresentano una minaccia per tutta l’Unione Europea.   L’Europa stessa rischia di situarsi al posto dell’oggetto, e più precisamente “dell’oggetto-scarto”, se il suo funzionamento resterà ridotto ai termini di mercato e di finanza. Se il rapporto tra i paesi membri è solo quello del controllo sospettoso, della misurazione dei bilanci, del confronto iroso, delle minacce reciproche di espulsione o di fuoriuscita, non ci sarà spazio per l’Europa delle idee, delle culture e dei sogni.

Il rischio maggiore per l’Europa non è quello di essere odiata dai suoi detrattori, ma quella di odiare se stessa, perseverando nell’ignoranza (altra passione dell’essere) dell’alterità che incontra in sé, quell’ignoranza che produce il rifiuto dell’Altro da sé che è in sé. Rifiutare il confronto con l’alterità contenuta in sé, conduce all’odio di sé, cosa insopportabile che viene quindi proiettata sull’altro da odiare: la straniero, il migrante, e anche il concorrente nelle quote di un latte che non è mai abbastanza, perché è l’essere stesso di colui che possiede l’oggetto bramato, ad essere il bersaglio dell’odio.  La scommessa dell’Europa è quindi di poter acconsentire a questa intima alterità, assumendo la responsabilità delle proprie divisioni, delle contraddizioni strutturali, senza rinunciare al confronto con la differenza.  Se l’Europa non vincerà questa scommessa, sarà allora facile il trionfo del populismo, del nazionalismo razzista, dei nuovi movimenti fascisti e intolleranti che già da ora, senza pudore e senza memoria,  si affermano e si impongono  come se la Storia non fosse mai esistita.

 1 Formula pronunciata da Charles De Gaulle il 25 marzo 1959 nel corso di una conferenza stampa : «…noi che viviamo tra l’Atlantico e gli Urali, noi che siamo l’Europa…».

 2 cf. Lacan J. in « Altri scritti », Televisione, Einaudi, Torino, 2013, p.528

3 cf. Lacan J. in « Scritti », Einaudi Torino 1974, L’aggressività in psicoanalisi, pp.108-109