Mare, miraggio, meriggio, Reggio

Testo e foto di Eva Clesis

 

 

La prima volta che, appena scesa dal treno, ho visto la città che sarebbe stata la mia casa, ho visto la persona il cui sguardo sarebbe stato la mia casa.
Subito dopo è venuta la città.
E con essa un’epifania: di avere forse capito e apprezzato il Sud Italia a partire dall’ultima delle sue città e forse anche dalla meno considerata. Reggio Calabria.
Prima di Reggio, temevo il Sud Italia come coloro che temono quello che sentono diverso e non conoscono appieno.
E mi ero convinta che una città con meno sole e meno caldo e meno sale potesse essere la mia città ideale. Io il Sud non lo sentivo, a parte l’esigenza di avere il mare vicino.
Eppure sono nata a Bari. Pure Bari è sud, ma tocca il centro Italia, da Bari si arriva prima a Pescara e poi si sale dritti per il Nord, le distanze peninsulari pesano meno. Città dove fa meno caldo, che si organizza meglio, che pur essendo pittoresca come ogni città del sud vive di commercio da sempre, perciò si sa acchittare.
Reggio Calabria invece è un sud al quadrato, è remota, è una città dove anche la gente viene da un altro tempo e luogo ma è figlia di Aschenez, inventore della barca a remi, che lì si rifugiò dopo il diluvio. È una città di mare con abitanti che amano l’aspra montagna, chiusa dagli abissi governati da Scilla e Cariddi, i due mostri di vento, abituata alla calura e benedetta dai traghetti. Eppure si mostra umile e mai ostile, dandoti del voi. Qui le lingue si mescolano, la cadenza dialettica è variegata ed esibita con la tranquillità di chi ha questo ed è questo e non può essere altri che questo. Non ci si nasconde dalla propria identità, semmai la si rifugge, si cambia luogo, ma non la si traveste.
Reggio Calabria va oltre le contraddizioni di un meridione ostinato: ha il vizio di mostrarsi come è, camminare scalza dove si pescano i tonni, chiamarti per nome o con l’universale appellativo di «gioia» e farti entrare. Prenderti così, senza chiedere.
Di Reggio Calabria, che si fa bella sulla Sicilia e vede l’Etna meglio dei siciliani, ci sarebbe tantissimo da dire.
Ricorda uno di quei film in bianco e nero che hai visto cento volte ma è ancora un altro film.
E delle sue contraddizioni ci sarebbe da dire anche di più. A iniziare da come ti accoglie.
Il lungomare reggino, nonostante la sua bellezza, parte già menzognero, ammantandosi della leggenda per cui Gabriele D’Annunzio lo definì il più bel chilometro d’Italia. E sebbene svendette i suoi lampioni a Nizza è un luogo unico, testimone di una Primavera reggina e diviso in due grandi passeggiate sul lato mare, e da una via Marina suddivisa in alta e bassa da una zona di piante unica nel suo genere. Nella parte bassa c’è la passeggiata superiore, un’ampia terrazza puntellata da palme e aiuole, e quella che dà sulle spiagge, da cui si accede per grandi scalinate in pietra o un sentiero con balconata e piazzette dove la mattina le persone meditano, fumano, corrono, dormono, si riprendono dagli affanni. Io è al piano di sotto che, nascosta dai cornicioni delle panchine, vado a rifugiarmi in un angolino mio a guardare il mare e confessarmi i miei peccati. Ed è sempre lì sotto che, da giugno a fine settembre, i locali stagionali mettono su una discoteca a cielo aperto lunga più di mezzo chilometro, con le sedie sulla spiaggia e la musica assordante.
La passeggiata superiore, che inizia dalla stazione Lido, è tenuta sotto tiro dal chiosco verde del gelataio Cesare, a testimonianza di una delle vere passioni dei reggini, a parte la carne di porco e lo stocco norvegese. Il gelato. A Reggio Calabria il mare si vive anche in inverno, ci si fa il bagno a Natale. E il gelato si mangia d’inverno come in estate. Anzi, qui si mangia la brioche con il gelato.
Il reggino sul gelato è un palato esigente. Le più famose gelaterie si fanno la guerra, c’è il guelfo e il ghibellino del cono, passeggiando con il gelato in mano si discetta sulla dose di panna e la dose di latte e quanta aria c’è nella crema, se si scioglie sulla lingua o no. E una delle prime cose che un reggino chiede a un altro reggino è quale gelateria preferisce, non per che squadra di calcio tifa. Così come si chiede al turista: ma da Cesare ci sei stato?
È dal gelato che si costruiscono le alleanze.
Dicevo, il lungomare. Dal lato delle gelaterie, dei locali diurni e dei palazzi della via Marina alta, alcuni incantevoli che cedono pezzi al tempo e all’incuria delle amministrazioni, al lato delle passeggiate a mare della via bassa, c’è una divisione fatta di spazi verdi che non possono essere disciplinati. Detta divisione è la striscia botanica. Dire che sono aiuole e prati è riduttivo.
Nel bel mezzo della striscia vi dimorano degli alberi secolari dalle radici gigantesche, i Ficus della baia di Moreton. A Reggio si inciampa nelle loro radici, ci si siede su queste radici, le loro radici fanno ombra, accolgono i gatti, nascondono topi e lucertole, sono panchine sulle panchine dell’uomo, ostacoli a cui le ruote delle macchine sono abituate ma i loro semiasse meno, rompono l’asfalto come spade nella roccia, sono sculture gibbose, attraversano tutta la strada per nodi e curve e passano oltre, sono lunghe decine, centinaia di metri, e forse, chi sa, si bagnano le punte al mare.
Sotto i grandi rami degli alberi si sistemano i gazebo delle gelaterie e dei bar: quando piove ne può cadere uno a distruggere con il suo peso una macchina o un arredo del locale, tanto gli alberi sono immensi. Ma grazie a Dio a Reggio Calabria piove poco, meno di ogni altra città d’Europa.
Sempre tra gli alberi secolari, si notano statue e passaggi segreti e salite di pietra, fontane e poi, più giù, le antiche terme. Dal lungomare ai palazzi, si fa la traversata degli alberi e inevitabilmente si perde un tacco o la pazienza.
La città si sviluppa per il lungo, per cui il centro, con divisione a scacchiera, sembra un paese, e da un punto all’altro della costa comprende il castello, il duomo, il teatro comunale, le due stazioni, qualche chiesa, le piazze, il museo e le due fiumare.
Tre volte la settimana lo percorro a piedi, arrivo a mare, mi rifugio dove ho detto, fumo, penso, faccio la spesa di stocco o maiale e torno a casa a cucinare e scrivere ancora.
I quartieri che circondano il centro hanno nomi che omaggiano chi c’è stato o chi ha aiutato a costruirli. Ci sta il quartiere periferico del barrio, il quartiere dei mulini, quello dei villini svizzeri, la zona delle sentinelle, l’eremo.
Tutto il centro si sviluppa in salita dal livello del mare, per cui girare per Reggio Calabria richiede buoni polmoni. I palazzi antichi e i nuovi sono stati adattati a questi dislivelli. In ciò mi ricordano la casa di una mia vecchia zia che al lato nord ha tre piani e a quello sud quattro e mezzo. Impossibile avere una metropolitana a Reggio Calabria, che nasce sotto l’antica città greca, per cui una delle sue attrazioni, richiesta persino dai turisti, è il famoso tapis roulant. Si tratta di una serie di scale mobili come quelle di centri commerciali o aeroporti, solo che il tapis di Reggio Calabria è otto volte più grande, ma per non farsene un vanto funziona una volta su otto. A volte mai. Di sera è illuminato a festa, anche da fermo.
Il tapis divide il centro città in parte destra e sinistra, e nell’ennesimo prima e dopo di ricchezze comunali dilapidate. Alla sua singolare bruttezza si aggiunge quella delle case senza intonaco, che il turista di bocca buona prenderà per una tipicità locale. Si dice che i proprietari le lascino nude, a volte senza infissi, per non pagare le tasse al Comune. Ligie alla regola del film di Vittorio De Sica, possiamo chiamarle case solo perché hanno un tetto. Dentro, però, si dice che siano bellissime come regge. Ci sta gente che le arreda coi tappeti persiani e i mobili di arte povera, mentre da fuori sono povertà senz’arte, perché Reggio Calabria è una città dove il decoro urbano non è arrivato e ognuno fa come gli pare. Soprattutto fuori casa.
Da cui la famosa Sindrome di Reggio Calabria. Chi sbaglia non viene sanzionato, ma imitato. Sbaglia uno e gli altri per non sbagliare a non sbagliare sbagliano come il primo. E questo vale per qualsiasi cosa, dai parcheggi abusivi agli atti vandalici. In altri testi la stessa sindrome viene riportata come uno spropositato eccesso di ira, ma questo non posso dirlo perché raramente ho visto un reggino arrabbiato. Rassegnato magari sì, ma stranamente sorridente.
Eppure, nonostante le innumerevoli storie che si possono raccontare sui confini e i conflitti di questa città, non solo è qui che vivo, ma è qui che mi piace vivere.
L’uomo per cui mi sono trasferita non fu all’epoca una buona guida. Al posto di mostrarmi le bellezze cittadine o parlarmi delle sue stranezze, come la storia del leone che un tempo viveva alla villa comunale, quel famoso giorno in cui scesi dal treno mi portò in giro per le strade peggiori, piene di buche. Al posto di portami a mangiare fuori, mi portò prima in farmacia e poi dal verduraio. Quando gli dissi che forse era il caso di fermarsi da qualche parte, mi indicò una tavola calda dove non ho mai messo più piede. Eravamo smarriti ognuno a suo modo, io perché non conoscevo la città e mi fidavo dei suoi occhi, lui perché ha da sempre l’abilità di trasformare ogni luogo in un non luogo, perciò di Reggio Calabria ama fotografare un tratto non distintivo sebbene onnipresente. Le sue panchine.
E il giorno dopo infatti mi comprò per colazione un chilo di pizzette fritte con origano e acciughe, che qui si mangiano nei giorni di festa o a merenda, in sacchetti di carta.
Inutile dire che alle dieci di mattina riuscii a mangiarne tre o quattro, per poi scendere dalla macchina e buttarle nella spazzatura. Cosa che mi rinfaccia ancora adesso che dopo anni di vita a Reggio Calabria ci siamo sposati.
Ma a parte amare lui, perché mi trovo bene in questa città?
È una cosa che mi chiedo spesso.
Forse perché da marzo a fine ottobre Reggio è la stagione bella. A volte fin troppo calda, da seccare i tubi dell’acqua nelle case. Ma bella, con le persone che si riversano nel blu verde del Mar Tirreno o nel grigio ghiaccio del mar Ionio, pranzando a mare, e tornano di sera. Non credo sia tanto il sole, quanto l’aria, e la sua luce, a farmi sentire in una località diversa, in vacanza, dalla primavera al tardo autunno.
Da spingermi fuori casa e tenermi allegra, io che sono profondamente eremita.
Quella di Reggio Calabria è un’aria che ti rilassa, che rende tutto mite, e porta con sé una luce unica, del meriggio anche se è l’alba.  È questa luce, sulle onde del mare, a creare il fenomeno della Fata Morgana, il miraggio per eccellenza.
Oppure amo questa città perché quando vidi i Bronzi di Riace ne rimasi così impressionata da scoppiare a piangere, cosa che di rado mi è successa alla vista di altri, seppur notevoli, sebbene eccezionali, patrimoni dell’arte italiana. Vedere quelle statue ti fa credere in Dio: provare per credere, cioè se si vuole ritrovare la fede.
E nonostante tutto quel che non funziona e sembra destinato a non funzionare mai, Reggio Calabria è una città verso cui provo una strana indulgenza. C’è sempre qualcosa di grottesco o pittoresco o narrativo che mi spinge a volerle bene spontaneamente, come la sua frutta tropicale, le sue feste religiose trasformate in sagre della salsiccia, i suoi caffè aperti tutta la notte, la sua aria tranquilla a dispetto delle ombre della mala, il suo prendere le cose come stanno, il suo essere un po’ di tutti, sebbene, come tutto, non per tutti. E quando questo non basta alla fine ci sono loro, anche per me come per quel filosofo di mio marito. Ci sono le panchine, all’ombra dei grandi alberi secolari. Alberi che sfidano i mostri del mare e come ogni cosa della natura sembrano essere lì da sempre. Per ammazzarti, proteggerti o, se ci credi, benedirti.