Missiroli nella sporca dozzina

di Sirio La Pietra

 

Marco Missiroli è uno dei romanzieri più affermati nel panorama italiano. La sua produzione letteraria inizia con Senza coda, pubblicato da Fanucci editore nel 2005, che gli vale il Premio Campiello opera prima nel 2006, nel corso degli anni pubblica Il buio addosso, Bianco, Il senso dell’elefante e Atti osceni in luogo privato, quest’ultimo, pubblicato da Feltrinelli nel Febbraio 2015, riscuote un notevole successo diventando un vero e proprio best-seller. Da poco è uscito il suo ultimo romanzo Fedeltà e abbiamo deciso di porgli qualche domanda. Non avendo particolari impellenze abbiamo scelto, assieme a Marco, di svolgere l’intervista a intermittenza su whatsapp nel corso di tre settimane. Ecco cosa ne è uscito.

 

È da poco uscito il tuo ultimo romanzo Fedeltà, ce lo racconti? Di quale fedeltà parla il romanzo? Cosa ti ha spinto a scriverlo?

«Ho scritto Fedeltà con uno spirito quasi di documentazione dei nostri tempi e l’ho fatto attraverso una materia vera, autentica e documentata. È un libro più pensato rispetto agli altri che sembra lavorato al calor bianco ma che vuole mettere in luce il nostro impatto emotivo con i tempi che stiamo vivendo. Fedeltà è un romanzo che risponde principalmente a una domanda, che è: “quanto siamo fedeli a noi stessi?’’ Non a chi siamo fedeli dunque non è un romanzo incentrato sulla fedeltà nel matrimonio o in altri contesti è un romanzo incentrato proprio su quanto siamo fedeli ai nostri istinti alla nostra etica e alla nostra morale, si interroga sul giorno d’oggi, cerca di fotografare attraverso i movimenti e le lotte intestine che ognuno di noi ha, quella che è la generazione dei nostri tempi. Una generazione di disgregazioni familiari, sentimentali, economiche e cerca soprattutto di capire a cosa diamo adito quando siamo infedeli a noi stessi. Cerco di riflettere su quelli che sono i subbugli rispetto a dei valori che ci vengono imposti. È uno scatto della nostra generazione».

Come stai vivendo la candidatura al Premio Strega?

«Sono molto felice di partecipare al Premio Strega e ci vado con grande curiosità. Sono tutti bei libri i 12 che sono entrati tra i finalisti, e ce n’erano di belli anche nella rosa dei 57 iniziali, vediamo come va. La prendo con divertimento, siamo in pista, bisogna ballare!».

 

L’ambientazione di Atti osceni in luogo privato parte da Parigi. Qual è la tua esperienza con la città? Perché la scelta di collocare l’abitazione del protagonista nel Marais?

«Parigi rappresenta un luogo di libertà e di ricongiungimento con me stesso molto importante. La scelta del Marais è nata perché è un quartiere legato allo stereotipo dello studente, del turista, lo stereotipo di chi quasi non capisce la vera Parigi, per cui ho voluto scaldare un luogo che è molto bello ma è anche riempito di cliché. Ho scelto di farlo attraverso Libero Marsell, attraverso l’Hotel de Lamoignon, attraverso Marie. C’è qualcosa in fermento che doveva nascere in una giovinezza che stava sbocciando. Per questo ho scelto quel quartiere e Parigi, che è un po’ la città della giovinezza eterna, delle scoperte, anche delle crudeltà, ma sempre di qualcosa di nuovo».

 

Nel tuo precedente romanzo l’impostazione narrativa del racconto era senz’altro lineare e scandita nel tempo e nello spazio. In Fedeltà adesso hai dato vita a un paesaggio molto più irto di personaggi e di trame. Cosa è cambiato e cosa sta cambiando nella tua scrittura?

«Forse sì, forse un tempo pensavo più linearmente, ma credo sia normale che un narratore cominci pensando in un’orizzontalità semplice e poi man mano acquisisca verticalità, digressioni e modelli a grappoli che si agganciano alla psicologia dei personaggi. Crescendo si fa esperienza. In questo aveva ragione MacEwan quando diceva che tra un libro e l’altro bisogna metterci la vera vita, perché poi si tramuta in strutture più complesse. Se ci pensi da Senza coda a Fedeltà c’è un modo diversissimo di intendere la letteratura, tranne il fatto che il libro non deve mai annoiare. Ecco, questo è il leitmotiv della mia narrazione: non ci deve essere noia, non intesa come velocità ma come profondità di veduta che prende sempre il lettore».

I tuoi personaggi sembrano tutti brancolare nell’oscurità del proprio inconscio. I fatti che si trovano ad affrontare, ma soprattutto interpretare, sono tutt’altro che casuali, anzi, appaiono ben legittimati da qualche manuale di psicologia o da qualche testo di Jung. Ravvisi anche tu quest’accostamento? Come si mescola questa programmaticità all’istinto del romanziere?

«Sono personaggi che brancolano non tanto nell’oscurità ma nelle zone di grigio, che è quel sottile stato un po’ purgatoriale in cui non si ha un’identità e la si cerca sempre, come se la nuova generazione fosse davvero condannata a vagare in eterno in questi meandri della quotidianità. Jung sicuramente è un punto di riferimento per quanto riguarda gli scambi tra i personaggi che sembrano casuali ma che in realtà sono sincronici. La struttura di questo libro è quindi un po’ jungiana, non per dire una cosa dozzinale ma proprio perché sono gli incontri che gestiscono la storia, non viceversa. Questo libro è stato scritto con una certa naturalezza almeno nel gesto e nel plot, per cui volevo che anche i personaggi decidessero loro stessi cosa incontrare e dove andare».

 

La comunicazione odierna continua a decimare il tempo e lo spazio del racconto. Ritieni che sia un momento storico improbo per essere scrittori o è solo banale angoscia del presente?

«Si assolutamente. Sai perché lo ritengo un tempo improbo? I social network, come le nuove tecnologie, abbreviano, all’interno della narrazione, le attese dei personaggi, la loro stessa formazione. Basta un SMS, basta davvero che un personaggio controlli l’altro attraverso i social network e tutta quella che è la lievitazione narrativa si esaurisce, viene interrotta e diventa molto meno naturale. C’è una contrazione del tempo dovuta alla tecnologia e questo sballa moltissimo il decorso umano dei sentimenti».

 

Ho visto Fedeltà come un libro che parla profondamente d’amore. La musica del romanzo è scandita dal ritmo “io-l’altro’’ dove l’amante è l’ambasciatore del mondo esterno, per quanto oscurato da un alone di quotidianità e frustrazione egli è effettivamente il circostante ed anche il suo diretto responsabile. È anche questo l’amore di cui parli?

«È vero, Fedeltà è un libro sull’amore proprio nel dialogo interno/esterno. Parlo di un amore inteso proprio come possibilità di conoscenza verso un mondo che altrimenti non si vedrebbe perché sopraffatti dalle abitudini matrimoniali, sociali, quindi costringendoci finalmente a un presunto tradimento, a una fedeltà a noi stessi. Vediamo cosa c’è fuori, dunque l’altro è il tramite ma anche l’esterno stesso ed è un’occasione anche di conoscerci, di legare l’interno con l’esterno. È per questo che Fedeltà è un romanzo sull’amore verso il mondo e non solo verso di noi».

 

I rapporti familiari costituiscono una parte consistente dei tuoi romanzi. Carlo e Margherita non smettono mai di essere figli, Sofia e Andrea sono i genitori dei loro genitori, Libero Marsell cerca di identificare la biografia del padre scomparso con la propria. La figura genitoriale modella profondamente il personaggio nei legami affettivi. Che rappresenta la famiglia nella vita di un individuo?

«La famiglia è anche quella che può essere chiamata “il grande blocco’’ verso uno sviluppo futuro, può essere una trappola oppure un trampolino di lancio. Carlo e Margherita vivono sicuramente come una trappola le loro famiglie, Carlo non riuscirà a sbloccarsi mai mentre Margherita si perché Anna, la madre, crescerà e così loro tre andranno a costituire un gruppo familiare che sarà sia sviluppo che regressione. Con Libero Marsell di Atti osceni in luogo privato vediamo una famiglia che subito si disgrega, ma lui, da questa rottura, riuscirà a trovare una nuova sfumatura, una sua nuova personale creatività che lo renderà effettivamente libero come il nome che porta».