Palermo è una cipolla. Remix

di Roberto Alajmo

Bisogna farsi dare un posto dal lato del finestrino e sperare di arrivare in una giornata limpida e soleggiata. Ce ne sono anche d’inverno, perché in ogni stagione la Città ci tiene a fare sempre la sua figura. Quando l’aereo comincia ad abbassarsi, dal finestrino appaiono le scogliere rosse di Terrasini, e il mare color turchese e blu senza che si possa dire dove finisce il blu e dove comincia il turchese. Persino le case, i cosiddetti villini, ti possono sembrare magari troppi, ma visti dal cielo non mostrano la sciatteria con pretese di originalità che invece rivelano nell’inquadratura dal basso. Tu osservi tutto questo e pensi di essere arrivato nel posto più bello del mondo. Ammettilo: credevi di esserti fatto un’idea della Città e dell’Isola perché è difficile sfuggire ai luoghi comuni; ma di fronte allo spettacolo della costa intorno all’aeroporto ogni pregiudizio cade all’istante. Guardando dal finestrino hai il tempo di formulare pensieri del genere, di struggerti di fronte a tanta bellezza, persino di riflettere sull’ipotesi di mollare tutto – lavoro, famiglia, radici – per venire a vivere da queste parti. E quando ormai la tua testa si è scaldata all’idea di un’estate perenne, ecco che subito arriva un contrordine. Arriva sempre dal finestrino, perché mentre hai ancora gli occhi pieni di luce e mare, ecco che ti si para davanti una montagna. Un’enorme montagna grigia su cui l’aereo sembra destinato a schiantarsi da un momento all’altro. L’aeroporto di Punta Raisi è costruito su una stretta lingua di terra che separa il mare dalla montagna; tanto che in passato è successo che un aereo sia finito sulla montagna (5 maggio 1972) e un altro in mare (23 dicembre 1978). L’aeroporto della Città è fatto così. La Città è fatta così. Tu, viaggiatore, queste cose prima di partire le sapevi, ma le avevi dimenticate di fronte all’accecante bellezza del paesaggio. Adesso magari ti fai prendere da una leggera forma di panico, perché la montagna si avvicina, e si avvicina in maniera preoccupante. Ma puoi stare tranquillo, alla fine non succederà niente perché i piloti ormai sono bravi a infilarsi esattamente nella striscia praticabile fra mare e montagna, e nel susseguente sollievo avrai modo di riflettere sul fatto che la Città ha provveduto ad avvertirti subito: non credere che le cose da queste parti siano sempre come appaiono a prima vista. Non è che tu ti possa abbandonare alla contemplazione del bello come se fossimo in Polinesia o nella campagna toscana. Qui non c’è da fidarsi, e anzi è proprio quando sembra di aver raggiunto l’estasi che arriva il cazzotto sullo sterno, quello che ti leva il fiato e ti costringe a riprendere il distacco dalle cose. La difficoltà del pilota in fase di atterraggio, il problema di evitare gli opposti disastri di mare e montagna, è una metafora delle difficoltà quotidiane che comporta il fatto di vivere nell’Isola in generale e nella Città in particolare; che dell’Isola è, oltre che capitale, anche una specie di grandiosa esasperazione. Meglio dunque non rilassarti mai, tenere i sensi sempre all’erta. Da un momento all’altro potrebbe succedere qualcosa di irreparabile. Una volta recuperato il bagaglio, prendi un taxi e tieni gli occhi aperti. Per capire una città, tante volte basta fare il tragitto che va dall’aeroporto al centro. Nell’impossibilità di una visita più approfondita – mentre si aspetta una coincidenza, magari – basta prendere un taxi, andare e tornare. Nel percorso autostradale c’è buona parte di ciò che la città, consciamente o inconsciamente, ci tiene a far sapere di sé. Non è tutto, né è tutto spontaneo. Ma tenendo gli occhi aperti almeno qualcosa si riesce a capire. Fra l’aeroporto e il centro si trova il biglietto da visita di ogni città. Ci sono città che questo lo sanno, ne tengono conto e curano la propria immagine mettendo in mostra il meglio; e ci sono città che invece se ne fregano dell’immagine e lasciano fare al caso. La Città appartiene a questa seconda categoria. Tuttavia anche il caso si riserva le sue sottigliezze, e nel giro di pochi chilometri ha provveduto a distribuire almeno tre punti focali. Tre indizi che ti torneranno utili nel corso del tuo soggiorno. Il primo di questi punti arriva quasi subito. Guardando a sinistra, verso il mare, più o meno all’altezza di Carini vedrai una bidonville costruita direttamente sulla spiaggia. Lo stato di abbandono in cui versano le baracche, il fatto che sembrino costruite con materiali raccolti in una discarica, il fatto che siano corrose dalla salsedine, tutto lascia pensare che si tratti di un quartiere abusivo per necessità. Gente costretta a vivere in condizioni da terzo mondo. Magari sei autorizzato a immaginare che qualcuno avrà fatto il furbo trasformando la necessità in vantaggio: dovendosi costruire un tetto sotto il quale dormire, tanto valeva costruirselo in riva al mare. E invece no, nessuna necessità abitativa: queste baracche sono le seconde case degli abitanti della Città. Le case dove la gente si trasferisce d’estate per fare la villeggiatura. A suo tempo vennero costruite secondo le regole del far west. Oggi chi vuole fare lo spiritoso la chiama edilizia creativa, sebbene l’espressione stia poco a poco perdendo la sua connotazione sarcastica, e presto edilizia creativa diventerà uno stile architettonico a sé stante. I muri non sono intonacati perché poi ci sarà tempo di intonacarli. I tondini di ferro spuntano dal tetto perché un domani si possa realizzare un altro piano destinato alla figlia che si sposa. Le case si lasciano incompiute nelle parti esterne per diversi motivi; alcuni pratici e altri, per così dire, etici. Intanto si aspetta sempre una sanatoria che consenta di rendere l’abitazione ineccepibile anche all’occhio fiscale dello Stato. E poi c’è il fatto che l’interno è una cosa e l’esterno un’altra. Nell’Isola quel che avviene un passo oltre la soglia di casa è considerato superfluo, se non addirittura volgare. Per rendersene conto basta visitare un condominio. Un condominio qualsiasi, dove abita anche gente ricca. Se ti capita, facci caso: dopo le sei del pomeriggio ogni appartamento avrà un sacchetto di spazzatura poggiato per terra appena fuori dall’uscio. Nelle ore precedenti il sacchetto si è andato riempiendo, fino a quando la brava madre di famiglia si è incaricata di farne una confezione da relegare fuori dalla sacra cerchia delle mura di casa. Appena possibile la spazzatura va messa a carico della comunità, fosse anche solo quella comunità solidale rappresentata dal pianerottolo di un condominio. Una volta chiuso e annodato, il sacchetto non riguarda più gli abitanti della casa. L’immondizia appartiene alla sfera pubblica. La casa deve rimanere inviolabile dalle sporcizie del mondo. C’è da scommettere che l’arredamento interno delle case sul litorale di Cinisi è curatissimo, in pieno contrasto con l’aspetto esterno. Dell’aspetto esterno i proprietari se ne fregano, non è particolare che li riguardi. La facciata esterna è spazzatura, e come tale riguarda lo Stato. Ma c’è pure un altro motivo per cui queste case sono tanto sciatte a vedersi. Gli abitanti dell’Isola nutrono un’avversione scaramantica per ogni forma di compiutezza. Se inaugurano un teatro, lo fanno sempre in assenza di qualche requisito essenziale per il pieno funzionamento. Se si costruisce una diga, saranno le canalizzazioni a restare incompiute. Al completamento si penserà poi, se e quando sarà possibile. Dietro questa sistematica inconcludenza è possibile rintracciare un profilo ancestrale di superstizione. Sembra quasi che le persone inconsciamente avvertano che nella piena compiutezza è inscritta un’infelicità latente. Sopravvive l’antica credenza che l’appagamento possa attrarre il malocchio degli invidiosi, ma non è solo questo. Il vero timore riguarda lo sconforto che deriva dal non avere qualcosa che pensavi di avere una volta che finalmente hai avuto tutto quello che desideravi. C’è sempre qualcosa che sfugge alle maglie anche strette della rete che ci siamo fabbricati con le nostre mani. Allora tanto vale lasciare che le cose vengano come vengono. Forse è addirittura un retaggio mediorientale. Nella perfezione della tessitura dei loro tappeti gli antichi maestri persiani introducevano sempre un piccolissimo errore. Lo facevano apposta per non sfidare Dio sul terreno che è solo di Sua competenza, quello della perfezione. Ma qui, nelle case davanti al mare di Carini, si è decisamente esagerato con questa forma di devozione. C’è stato un sindaco, diversi anni fa, che aveva provato a farle abbattere scontrandosi col piagnisteo dei proprietari. Quando poi questi proprietari sono apparsi in televisione si è visto che effettivamente non appartenevano alla tipologia degli abitanti di una bidonville. Non parevano abusivi per necessità. Erano anzi dei buoni borghesi che possedevano tutti i mezzi culturali ed economici per difendere le loro ragioni. Difatti quelli del Comune fecero in tempo a tirare giù un paio di villini a favore di telecamera, e subito dopo le demolizioni si fermarono. Alla successiva tornata il sindaco non venne rieletto, l’amministrazione cambiò, e di demolizioni da allora non si è più parlato. In quanto viaggiatore ben attrezzato sei tenuto a sapere che in Città e nei dintorni l’abusivismo edilizio è quasi l’unico intervento urbanistico di recente realizzazione. Specialmente nel centro storico o in prossimità della costa i vincoli sono molto severi, tanto che nessuno si azzarda a costruire, tranne la categoria dei mascalzoni senza scrupoli. Dal dopoguerra a oggi quasi mai è arrivata una significativa committenza architettonica di qualità, pubblica o privata. La regola formale è che non si può contaminare antico e moderno. Il risultato della regola è che questa generazione sarà la prima e unica, nella storia dell’umanità, a non lasciare traccia del proprio passaggio sulla terra. Nessun intervento qualificato, almeno. Quando fra mille anni gli storici dell’arte si interrogheranno sullo stile architettonico in voga fra Novecento e Duemila, la risposta non lascerà scampo: l’abusivismo edilizio. Oppure: le pagode. Perché ci sono anche le pagode. Ne incontrerai parecchie, una volta arrivato in Città, tanto da immaginare che siano previste da un piano paesaggistico ben preciso, tutte uguali e bianche come sono. I greci hanno lasciato il modello perfetto dei loro templi. I romani portarono a compimento l’ideale dell’anfiteatro. I bizantini le loro basiliche. Gli arabi acquedotti e moschee. I normanni le chiese con la cupoletta rossa. Gli spagnoli i portali gotico-catalani. Dell’epoca barocca si celebra il fasto degli oratori di Giacomo Serpotta. L’eredità ottocentesca è nella compostezza severa delle facciate cittadine. E allo stesso modo anche gli odierni abitanti della Città lasceranno ai posteri una prova architettonica del grado di civiltà conseguito, ciò che dopo diecimila anni di evoluzione del gusto sulle sponde del Mediterraneo hanno saputo elaborare di originale e progressivo: le pagode. Se l’Isola crollasse o sprofondasse, se ogni memoria venisse cancellata e fra duemila anni gli archeologi riportassero alla luce le rovine del centro abitato, questo sarebbe il nome che darebbero alla nostra cultura: la Civiltà delle Pagode. Con riferimento non alla Palazzina Cinese – che pure esiste, testimonianza del capriccio di un sovrano settecentesco – ma piuttosto ai gazebo in forma di pagoda bianca che popolano ogni angolo della Città. Oltretutto, essendo di plastica, la pagoda è difficilmente biodegradabile, e le future generazioni di archeologi avranno ogni comodo di studiare il pagodismo in tutti i suoi risvolti più interessanti. La pagoda di plastica è per gli abitanti della Città quel che i nuraghe sono stati per il popolo sardo. Quel che le grandi teste di pietra rappresentano per gli abitanti dell’isola di Pasqua. Quel che i trulli sono per la civiltà contadina pugliese. Quel che gli igloo sono per gli eschimesi. Non c’è giardino, piazza, parcheggio, lungomare che ne resti incolume. Ovunque ci sia uno spazio, lì prima o poi sorgerà una pagoda. È ormai un riflesso urbanistico condizionato, una forma di horror vacui. Ogni pausa nel tessuto edilizio, ogni panorama marino o terrestre vengono vissuti come una specie di vergognoso strappo sul dietro dei pantaloni. E la pagoda rappresenta la toppa ideale. Che serva a vendere oggetti da regalo o libri, che ospiti una rassegna d’artigianato o pittura, che si vogliano raccogliere firme o offerte per cause umanitarie, sarà sempre una pagoda la cornice architettonica prescelta. Anzi, l’unica possibile. La pagoda è comoda. Si monta facilmente e facilmente potrebbe essere smontata. Potrebbe, perché sullo smontaggio in verità non esistono notizie certe, dato che la pagoda per sua natura tende a rimanere dov’è. Si sedimenta. Agevola l’usucapione del terreno pubblico sul quale è stata eretta. Se viene allestita allo scopo di ospitare una bancarella di giocattoli in vista del 2 novembre, poi non vale la pena di smontarla a ridosso delle feste di fine anno, quando accoglierà addobbi natalizi e presepi. E poi c’è Carnevale: maschere e finte merde. E poi Pasqua: uova e colombe. E poi l’estate: salvagenti, secchielli e palette. Ed è subito autunno, quando l’eterno ciclo della pagoda può ricominciare ancora e sempre, nei secoli dei secoli. Bisogna prenderne atto e rassegnarsi: per questo in futuro saremo ricordati noi, attuale generazione di abitanti della Città. Per le pagode e per l’abusivismo edilizio con vista mare. Quel che vedi transitando in velocità sull’autostrada è una fila di case cariate, fatte a somiglianza di una dentatura andata a male. Il dentista ha provato a estrarre qualche dente guasto e, attraverso il varco, a tratti riesci persino a scorgere il mare. Il mare di per sé sarebbe una visione allegra. Ma l’impressione che fanno i varchi è, se possibile, ancora peggiore della pessima edilizia che costituisce la norma del litorale. Dopo le demolizioni le macerie sono state portate via solo in parte, nessuno ha pensato a una sistemazione dei luoghi. Perciò i varchi attraverso i quali si può vedere il mare sono dolorosi, perché rappresentano il memoriale di una battaglia perduta. Stanno a ricordare a tutti che ci fu un momento in cui pareva che certe battaglie valesse la pena di combatterle. Di questo genere di battaglie nella Città se ne sono combattute parecchie. Così come parecchi sono i monumenti involontari che stanno lì a ricordarle. Un altro memoriale di battaglia si trova pochi chilometri più avanti. Sulla destra. All’altezza di Capaci. Fino a qualche anno fa succedeva che durante le conversazioni in automobile, durante qualsiasi conversazione fatta viaggiando fra Punta Raisi e la Città, ci fosse una pausa improvvisa. Era il momento in cui si transitava davanti al tratto di guardrail dipinto di rosso. Se c’era un ospite straniero lo si avvertiva qualche decina di metri prima: guarda, stiamo per passare dal punto in cui c’è stato l’attentato. Poi, la pausa. Era una pausa di silenzio in cui ognuno pensava a dov’era quel giorno, a cosa stava facendo. Poi la pausa finiva e la conversazione riprendeva. Poi quel tratto di autostrada è cambiato. Ci hanno messo una stele da ciascuno dei due lati, coi nomi, la data e tutto. Spesso c’è ancora la corona di fiori che hanno lasciato il 23 maggio precedente, e siccome i fiori appassiscono nel giro di qualche giorno, anche questo dettaglio contribuisce a immalinconire la grandiosità della scena. Col tempo, i due obelischi e la corona di fiori appassiti che ci sta appoggiata sopra sono entrati a far parte del paesaggio. Passandoci davanti nessuno più sente il bisogno di fermare la conversazione. Ci si è abituati. Al massimo c’è un breve pensiero su come eravamo, quanto tempo è passato, cose così. È normale. È l’ordinaria elaborazione del lutto, specialmente quando lo Stato si è fatto carico di ricordare con commozione, attraverso monumenti e cerimonie. La società civile si è sentita sollevata dall’obbligo della memoria, e la vita è andata avanti sui binari consueti. Eppure esiste un senso di colpa molto isolano che dopo ciascun delitto di mafia, di solito a ogni anniversario, induce a porsi una domanda un po’ stronza: è stata inutile, la sua morte? Come se esistesse un criterio utilitaristico per la morte di una persona. Come se fosse possibile stabilire una soglia di convenienza sotto la quale non vale la pena di morire. Come se la morte potesse essere messa su una bilancia e pesata. Come se la morte fosse una merce. Come se ci fosse un mercato dove scambiarla. Come se ci fosse un’altra merce in grado di essere scambiata con la morte di una persona. A distanza di tanti anni si può dire che la morte di Falcone e quella di Borsellino siano state almeno diverse. Che quelle morti siano risultate almeno non inutili. Dal ’92 al ’94 la Città si convinse di essere prefigurazione del migliore futuro di tutta l’Italia. Si è sempre detto che nella Città le cose succedono prima. Di sicuro succedono con un’evidenza persino esagerata. Allora una parte degli abitanti della Città si domandò: perché una rivolta morale non può cominciare da qui? Prima del ’92 la pratica comune era di delegare la lotta alla mafia. Si mandavano a morire giudici e poliziotti, e poi ci si indignava per la loro morte. In seguito, l’arco dell’indignazione iniziava la sua parabola discendente, parallela a quella dell’indignazione statale, fino a quando le cose finivano sfumando nel nulla. Ci si ricordava dell’anniversario, si faceva un processo che almeno nella sua lungaggine serviva a prolungare la memoria, e alla fine il tutto tornava nell’ordinaria amministrazione della convivenza-sopravvivenza. Per capire perché i delitti Falcone e Borsellino segnarono il punto cruciale della prima, vera, unica e breve insurrezione antimafia, bisogna forse risalire all’agosto del ’91, quando venne ucciso Libero Grassi. Rispetto agli altri, Grassi era un delegato antimafia unilaterale. Si era delegato da solo. Non aveva ricevuto un mandato ufficiale da parte di nessuno. Non era poliziotto o magistrato. Non combatteva la mafia per professione, non era pagato per questo. Non era nemmeno il primo delegato unilaterale della storia della lotta alla mafia; ma fu il primo a usare i mezzi di comunicazione di massa. Le sue denunce andò a farle in televisione, convinto che questo rappresentasse per lui una specie di assicurazione sulla vita. Era un calcolo sbagliato, come dimostra il fatto che venne ucciso proprio per la pubblicità che aveva dato alle sue denunce. Libero Grassi voleva essere un esempio per dare coraggio agli imprenditori onesti, e lo uccisero proprio per rovesciare questo esempio. La mattina in cui gli spararono era solo, ed era praticamente solo anche al funerale, quando la Città rimase a spiare da dietro le imposte, secondo il copione di tanti film sulla mafia. Questa volta però era diverso, non era omertà: era vergogna. La Città si vergognava perché il movente del delitto era stato reso noto in anticipo proprio per l’uso che Libero Grassi aveva fatto dei mezzi di comunicazione. In quell’occasione nessuno poté fare finta di nulla. Non funzionò nemmeno il bozzolo della minimizzazione che dopo ogni delitto viene messo in opera da ambienti mafiosi o paramafiosi: un intreccio di fatalismo e diffamazioni postume che però stavolta si dimostrò inutile, perché il movente era stato messo da tem-po sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Quella fu la prima volta in cui la Città non poté fare a meno di vergognarsi di se stessa, come un gatto cui strofinano il muso nell’angolo del salotto dove ha fatto pipì. Attenzione, però: fu la vergogna di chi non ammetterebbe mai di doversi vergognare. Nell’immediato, nessun segnale arrivò dai colleghi imprenditori di Libero Grassi, che conti-nuarono imperterriti a pagare il pizzo. Fu piuttosto una rivoluzione lenta, dal basso; una rivolta morale in cui la classe dirigente, imprenditoriale e politica ebbe un ruolo del tutto marginale. Le due stragi del ’92 furono la prima occasione per dare sfogo al senso di colpa cittadino che nel frattempo aveva cominciato a lievitare nel ventre della Città. Il senso di colpa prese forma di corteo, diventarono visibili i fermenti della società civile nei suoi strati medio-bassi e deresponsabilizzati. Scesero in piazza in molti, dicendo tutti più o meno la stessa cosa: ora basta. E siccome in quei giorni nella Città c’erano ancora gli inviati della stampa di mezzo mondo che aspettavano di vedere se per caso succedeva un’altra strage, i cortei antimafia e il comitato dei lenzuoli finirono per diventare, in mancanza d’altro, l’apertura dei telegiornali. Finita la manifestazione, la gente tornò a casa, vide se stessa sfilare in televisione, si riconobbe, si accorse che almeno nella prospettiva televisiva era maggioranza e tornò in piazza l’indomani, e l’indomani ancora, specchiandosi all’infinito nella riproduzione mediatica della propria indignazione. Per la prima volta la Città lesse di se stessa sulla stampa un’interpretazione in positivo. E questo le piacque. Più o meno per due anni sembrò che potesse succedere qualcosa. Ci fu un lungo momento in cui poliziotti e carabinieri smisero di essere sbirri. Prima, quando una coppia di ragazzi sul vespino vedeva dietro la curva una pattuglia, uno dei due diceva: gli sbirri. Oppure: i migni, che significa la stessa cosa, qualcosa che oscilla fra pericolo e vaffanculo. Nel breve periodo dei due anni dopo le stragi, invece, quando i ragazzini senza casco vedevano dietro la curva una pattuglia, si preoccupavano forse allo stesso modo, ma si limitavano a dire: la polizia. Si sentivano in difetto e cercavano scampo in una traversa, ma quel che volevano dire dicendo la polizia era solo: la polizia. Almeno i figli della borghesia perbene non dicevano più i migni o gli sbirri per indicare le forze dell’ordine. Dicevano: la polizia. Pare una cosa da niente, ma non è così. Se un cambiamento ci fu, questa evoluzione lessicale ne fu il miglior simbolo: per i ragazzini la polizia non era più pregiudizialmente ostile. Era qualcuno a cui potersi rivolgere con fiducia condizionata. I rappresentanti dello Stato erano diventati cobelligeranti. Questo era un effetto che derivava dalla radicalizzazione dello scontro Mafia-Resto del Mondo avvenuta con la prevalenza dell’ala stragista di Cosa Nostra. Le generazioni precedenti dicevano gli sbirri non perché fossero formate da delinquenti abituali, ma perché si portavano dietro un retaggio ancestrale. Sbirri erano i rappresentanti dei Savoia e quelli dei Borboni; e prima ancora, risalendo ai rami più remoti nella genealogia delle dominazioni, sbirri erano pure i rappresentanti del potere fenicio. Poi – a un certo punto, per la prima volta, quasi centoquarant’anni dopo l’impresa dei Mille – non fu più così. Per un momento sembrò dover cambiare qualcosa che era rimasto uguale per tremila anni. Naturalmente questo cambiamento riguardava solamente il ceto medio, e di certo non valeva per tutti i suoi rappresentanti. Restavano fuori quelli che avevano peccati da nascondere ben più gravi dell’andare in vespino in due senza casco. Il tasso di connivenza fra criminalità organizzata e classe imprenditoriale rimase altissimo. I traguardi raggiunti in campo culturale erano innegabili, ma rimasero fini a se stessi, se si considera il tentativo di consolidarli in ambito economico. A un imprenditore che volesse investire nell’Isola veniva ancora prescritto il dilemma fra collusione ed eroismo. E non è questo il genere di coraggio che si possa prescrivere a un investitore. Ma l’insurrezione morale seguita alle stragi era un piccolo fuoco da tenere al riparo dalla pioggia. Perché difatti dopo l’estate ricominciò come sempre a piovere. I poliziotti ricominciarono a chiamarsi sbirri e le cose ripresero ad andare come erano sempre andate. Volendo semplificare, l’insurrezione morale iniziò subito dopo le stragi e cominciò a finire con la prima elezione diretta a sindaco di Leoluca Orlando, nel 1993. Fu il tempo dovuto all’elaborazione del lutto e concluso con una nuova delega di vecchio stampo. Unica differenza: non si delegò più solo alla magistratura, ma anche alla classe politica. La società civile decise di eleggere per una volta un personale politico un po’ migliore di se stessa, affidandogli il compito di combattere la mafia. Ma non solo questo: la nuova generazione di amministratori era tenuta a fornire risposte su ogni argomento, debito e indebito. Tutto quanto era ovvio e possibile, ma anche molto dell’impossibile. Le aspettative suscitate da Orlando erano enormi. Orlando diventò il santo protettore della Città. Nel bene e nel male, di ogni cosa venne ritenuto responsabile Orlando. E naturalmente, col tempo, a Orlando alcuni cominciarono ad addebitare la colpa di non aver saputo mantenere accesa la speranza. Non si tenne conto del fatto che, salvo brevi periodi, a un sindaco e al proprio coniuge non si chiede speranza: si chiede affidabilità e costanza. Per lungo tempo venne alimentato il mito di una Città rinata, ma proprio questa rinascita diretta dall’alto divenne anche l’alibi per un disimpegno generalizzato. Dopo la cosiddetta primavera della Città (fine degli anni Ottanta) venne la malinconica estate – malinconica, ma estate – dei lenzuoli alle finestre e delle catene umane. Poi arrivò un autunno soleggiato e infine l’inverno del ripiegamento della società civile su se stessa. In fondo, un uomo forte vale l’altro, e subito dopo Orlando il consenso popolare migrò verso Berlusconi, e poi ancora verso il potere nelle sue diverse declinazioni. Mafia e antimafia aprirono un nuovo mazzo di carte, se le distribuirono e se le scambiarono alimentando confusione, sconfinamenti, travisamenti ed equivoci a non finire. A un certo punto tutto era mafia e niente era mafia. Ma soprattutto tutto era antimafia e niente era antimafia. Moltissima era la confusione sotto il sole. E comunque, per scoprire come è andata a finire la partita che conta, il derby fra vera mafia e finta antimafia, basta dare tempo al tempo, e intanto lasciare che il viaggio faccia il suo corso. In fondo il taxi si trova già alla fine dell’autostrada, sta imboccando la circonvallazione. Qui si trova il terzo indizio, la terza traccia che la Città ha lasciato di sé lungo il tragitto d’esordio di ogni visitatore. È una traccia fantasmatica, perché ormai non c’è più. Se fossi venuto qualche anno fa l’avresti visto. Anche fisicamente visto. Era un cartello giallo rimasto sulla carreggiata per anni. Ora non puoi fare altro che sforzarti di immaginartelo. Sul cartello giallo c’era scritto a caratteri neri: “IMPIANTO DI ILLUMINAZIONE SPENTO PER ADEGUAMENTO ALLE NORME DI SICUREZZA”. Specialmente se lungo la strada c’è un ingorgo, hai tutto il tempo di immaginartelo e riflettere. Non c’era scritto spento per LAVORI DI adeguamento. C’era scritto precisamente: spento per adeguamento alle norme di sicurezza. Cioè, secondo questo cartello, le norme di sicurezza prevedevano che l’impianto di illuminazione venisse tenuto spento. Difatti non c’era traccia di lavori di nessun tipo. Non ce n’erano mai, almeno a vista d’occhio e memoria d’uomo. Certi giorni, addirittura, il cartello si trovava in un punto della strada dove l’illuminazione era perfettamente accesa, tanto che chi passava si domandava: Perché spento? Quale illuminazione? Quale adeguamento? Anche tu, che sei un viaggiatore riflessivo, dovresti porti queste domande. E cercando risposte impossibili ti renderai conto che quel cartello era qualcosa di più di quel che sembrava. Quel cartello travalicava l’ambito della semplice segnaletica stradale. Pur essendo mobile, è rimasto sul posto per tanto tempo che ormai, anche se non c’è più, il suo fantasma può essere considerato parte del paesaggio. È rimasta la sua ombra morale a perpetuarne il ricordo. Giusto così, perché quel cartello giallo era un perfetto esempio di un carattere tipico della Città. Un carattere che potremmo definire Tendenza di Adeguamento al Peggio. Facciamo un esempio: se in un ufficio c’è qualche nuovo assunto che arriva con l’intenzione di lavorare, il soggetto in questione verrà presto isolato e neutralizzato. Gli si formerà attorno un cordone sanitario di colleghi che non lavorando, non accettano nemmeno che qualcuno lavori al posto loro. Una variabile lavorativa impazzita potrebbe rovinare la media dell’ufficio: bisogna impedirlo a tutti i costi. Nel giro di pochi mesi lo stacanovista verrà ricondotto al senso comune e messo in condizione di contribuire pienamente all’abbassamento della media. Altro esempio: quando un bombardamento distrusse uno dei due fastosi piloni di Porta Felice, gli abitanti della Città in prima istanza non pensarono di ricostruirlo, ma per un istinto di abietta simmetria immaginarono di abbattere anche l’altro, quello rimasto intatto. Poi non se ne fece niente, ma in questi casi basta il pensiero per rendere l’idea. Allo stesso modo, se un teatro ha un problema all’impianto elettrico si aprirà un dibattito su quale sia il migliore elettricista in grado di risolverlo, e con quale sistema. Nel frattempo, come misura prudenziale, il teatro verrà chiuso. È successo pari pari al Teatro Massimo, il teatro lirico della città, che è rimasto chiuso per quasi un quarto di secolo prima che si trovasse un elettricista in grado di risolvere il problema. Più tutta la caterva di problemi che nel frattempo erano derivati dalla prudenziale chiusura. E ancora: se un partito o un candidato deciderà di accattivarsi i voti degli abusivi o degli evasori fiscali, subito tutti gli altri si affretteranno a seguirlo sulla stessa strada. Corteggeranno abusivi ed evasori cercando di trarne vantaggio elettorale. Di modo che si potrà sempre dire che i partiti e i candidati sono tutti uguali, e dunque tanto vale votare per quello che le spara prima e le spara più grosse. Esempi se ne potrebbero fare tanti, ma insomma in questo consiste la Tendenza di Adeguamento al Peggio: nell’incertezza, meglio scegliere sempre la soluzione peggiore. Nella Città questa tendenza ha raggiunto livelli di applicazione altrove nemmeno ipotizzabili. Qui la legge di Murphy è costituzionalmente garantita. Si terranno vertici e convegni per stabilire quale sia la peggior risposta da dare alle principali domande. Se qualcosa potrà andare male si formerà una dele-gazione, si organizzerà una task force, verrà allestita una scorta armata; qualsiasi cosa pur di garantire che questo qualcosa abbia un esito davvero negativo. Ogni volta che una realtà imprenditoriale, artistica o di altro genere riesce a emergere, subito si attivano gli anticorpi e l’eccellenza viene scongiurata. Sorge il sospetto che le cose funzionanti una dopo l’altra subiscano un tentativo di sabotaggio secondo un disegno magari inconscio, ma inesorabile. Come se tutto quel che emerge dal quadro generale di mediocrità, bruttezza e inefficienza fosse destinato a essere piallato perché rovina la media del sottosviluppo. La media del sottosviluppo: se qualcosa riesce a funzionare in mezzo al disastro, rischia di smentire l’alibi degli incapaci e degli incompetenti. Si sa: il clima, l’indole, il destino non consentono di schiodarsi dall’arretratezza. La miseria è una vocazione, su questo non bisogna discutere. Il contesto non tollera eccezioni che rischiano di somigliare a un pericoloso precedente.  Da qui deriva la variante siciliana della celebre legge di Murphy che dice “se qualcosa può andar male, andrà male”. Qui in Sicilia, salvo eccezioni, se qualcosa può andar bene andrà male pure quella. Esiste in via Rocco Pirri una chiesa che si chiama Santa Maria dei Naufraghi. Ebbene, nessuno nella zona la chiama così. Il suo nome è per tutti Santa Maria degli Annegati. Cioè: non viene presa nemmeno in considerazione l’ipotesi che la tribolazione del naufragio possa risolversi in salvezza. Nessuna speranza che il naufrago possa riuscire a sopravvivere raggiungendo la riva sano e salvo. Naufragio equivale ad annegamento. Dunque tanto vale affidare alla Madonna direttamente la salvezza dell’anima sua. Viaggiatore appena arrivato, queste cose devi saperle; di modo che quando ti racconteranno del tipico pessimismo isolano tu sappia che è un pessimismo autoalimentato. Un pessimismo compiaciuto che si nutre di se stesso fino a diventare ricerca sistematica del pessimo. Se pensi che qualcosa debba andare male, ci sono ottime possibilità che vada male davvero. Più ti concentri, più ti sforzi di immaginare come possano peggiorare le cose e più le cose riusciranno a peggiorare sul serio. Ed è giusto che tu lo sappia subito, appena arrivato in Città. A questo serve immaginare l’avviso giallo all’imboccatura della circonvallazione: a metterti in guardia. In pratica è l’equivalente di un cartello che invece, stranamente, su quella strada non si trova affatto: Benvenuti nella Città.

(Laterza, 2019, 13€)