Parma vista dall’altro

Quando abbiamo deciso di dedicare a Parma la nostra rubrica degli itinerari una voce autorevole nonché amica fraterna, quella di Giuseppe Forlani prefetto della città, ci ha messi in contatto con  la fondazione Cariparma, per potere attraverso il catalogo della mostra presentare ai nostri lettori l’interpretazione visiva di Carlo Mattioli del viaggio di Stendhal. In questo gioco di specchi, tra frontiere, del vedere con gli occhi di chi ci vede, la parola che ci viene sussurrata dalle pagine e dalle immagini è : meraviglia. Ringraziamo dunque Francesca Magri per averci reso disponibili le immagini e il racconto di Anna Zaniboni Mattioli

(la redazione).

Parma che non c’è

estratto di Anna Zaniboni Mattioli

Prima di cingere d’assedio la Chartreuse, Mattioli ha scelto la via diplomatica e convoca Stendhal e i suoi personaggi principali. Una farsa, una trappola? Forse una prova di forza.

Li ha chiamati a raccolta tutti: Stendhal, colto nella sua matura pinguedine, seduto come deve essere un patriarca o un capocomico; poi il giovane splendido e irriducibile Fabrizio Del Dongo, Clelia, la Sanseverina, il Conte Mosca e Fabio Conti…

Tutti riuniti di fronte al loro autore, come convocati ad un’udienza importante.

Una piccola corte asfittica come quella che dovette essere quella di Ranuccio Ernesto.

Un arroccamento di tube, parrucche. Nessuna relazione fra i vari personaggi. Manichini, figuranti dagli occhi spenti, svuotati. Qualche pennellata di rosso. Sono tutti un po’ sospesi e appesi e Stendhal è lì, sovrano sorridente ed orgoglioso come un padre di fronte a tanti figli.

Ed ecco Parma, eccola!, è sullo sfondo la città promessa con tanto orgoglio nel titolo del romanzo, incastonata come un modellino medievale di città, di quelli che orgogliosi donatori offrono alla Vergine negli antichi affreschi o nei mosaici persi nei languori dorati della laguna. Un profilo di campanili e cupole correggesche! Anzi farnesiane, del tutto romane (Castel sant’Angelo), “vero” fondale, “vera” scenografia teatrale. Però già in quel primo – e unico! – tentativo di convivenza fra personaggi e scene il pittore “oscura” l’adorata Parma, la graffia quasi, con pennellate nere su un cielo turchino, quasi a negare l’esperimento. Scena da rifare, tutto da rifare! Il regista scontento è ormai il solo Mattioli, ha riunito la troupe e il cast sul set della prima scena. Controlla le luci e la tenuta del gruppo con cui dovrà lavorare nel tempo a venire. Congeda senza complimenti l’autore della sceneggiatura. Poi lavora coi personaggi soli. O con le scene sole. Se il personaggio ha uno sfondo lontano, sembra casuale, una prova. Come un attore colto, stralunato e sigaretta in bocca, da un fotografo in un momento di pausa della rappresentazione. Eccola dunque Parma presa quasi sempre di notte e da un punto di vista sempre leggermente ribassato perché risulti maestosa.

Una Parma completamente vuota o percorsa da file geometriche di soldatini in uniforme, ricordo delle antiche formiche diocesane di piazza del Duomo …che vanno chissà dove sull’eco di un inutile o tardivo ordine dato solo per dare “geometria” e prospettiva alla scena. Un espediente per richiamare in vita a gran voce Masaccio o Paolo Uccello.

Sorgi Parma! Sorgi serena e immensa. Mattioli allora disegna una città grande e maestosa, una città cupamente ideale. Niente a che vedere con quella limpida e smaltata Pienza che dovette sognare Enea Silvio Piccolomini per la sua Corsignano. In entrambe manca l’alito di vita ma tra le due passa la stessa differenza che c’è fra il sogno e l’incubo.

Qui c’entra un “fare grande” che molto deve agli incubi avviluppati di sovrani (e qui sta il solo debito al Beyle) che sanno di esser gli epigoni di una dinastia che volle essere anche europea ma che ora pratica solo l’ordine di arresto, l’intrigo e i salotti serali e polverosi.

Una dinastia morente che fa manovrare i soldati di notte perché di giorno questi non saprebbero dove andare. Una città notturna fatta di piazze dilatate e deserte da capitale, palazzi con lunghe teorie di finestre buie e vuote, come se gli abitanti fossero fuggiti inseguiti da un invasore. A chi comanderà mai questo sovrano?

Compare la basilica della Steccata nella notte. Vista sempre dal retro, incastrata fra i palazzi circostanti, come se la piazza accanto non esistesse. Un bagliore triangolare di luce lunare rende la scena ancor più sinistra e se possibile buia. Nemmeno la consolazione di vedere la facciata della basilica. Poi la chiesa “del Quartiere” vista scorciata in un vuoto siderale, alla cui gigantesca mole alludono solo i soliti piccoli soldatini in fila costretti a marciarvi accanto.

La Parma di Mattioli ha la magnificenza nera di un sogno di Piranesi che ha voluto immergersi nelle acque padane e allucinate che bagnano tanto Parma quanto la Ferrara di De Chirico. Metafisica e vuota, l’incubo di un tiranno che sa di avere i giorni contati.

Poi la prigione, la torre Farnese che si sovrappone come un lapsus alla Certosa in cui Fabrizio finirà i suoi giorni. È una torre tozza che diventa il tamburo di una cupola, quasi sempre vista di lontano, incombente e buia, sempre immersa nella notte. Un Castel sant’Angelo padano che forse il pittore avrebbe voluto  allietato dalla grazia del Correggio e invece rimane buio e inarrivabile.

Quella Parma Mattioli la vuole nera, con bagliori blu, lunari, punti di bianco mobili, le uniformi degli onnipresenti soldatini. Se usa il rosa è acido, freddo, allucinato.

C’è anche il teatro cittadino alle cui rappresentazioni i personaggi partecipano. Scorciato, enorme, notturno, sempre incombente, più spesso visto da dietro, dall’ingresso dei musicanti e degli attori con i soldatini in fila che misurano lo spazio e lo fanno ancora più grande e allucinante.

Diventano le comparse in costume di una rappresentazione andata male che sfuggono ai fischi del pubblico. Corrono in una sognante piazza vuota. Dov’è mai il nemico? Cercano Fabrizio eppure, nelle carte di Mattioli non destinate a Parma ma ai personaggi quel Fabrizio è un’ossessione, onnipresente e strabordante. Come non trovarlo? C’è in effetti solo Fabrizio e nessun altro. Tra Fabrizio e Clelia o tra Fabrizio e la Sanseverina Mattioli sceglie solo Fabrizio. Anzi, c’è solo la sua divina e scriteriata giovinezza destinata sempre a soccombere. Delle avventure di Fabrizio e dei suoi spasimi la mano del pittore non registra quasi nulla, così come dei tanti comprimari. Molti capitoli li ignora, li ritiene inutili, non vuole fare illustrazioni: solo un accenno di racconto nell’arresto di Fabrizio in piedi accanto alla carrozza su cui siede Clelia; e poi Fabrizio che corre, pugnale in mano, dopo aver ucciso Giletti, la torre Farnese in lontananza a memento. Per il resto nulla: o le scene vuote o il personaggio, Fabrizio, che riempie tutto, il foglio ma prima ancora la mente. La sua bellezza soverchiante è come quella delle figure dei vasi attici, colta sempre di profilo. Fabrizio è dove deve essere. Al centro del foglio, al centro dell’idea e di tutto. È semplicemente. È eterno. Ha l’aria di attendere un Destino che non giunge o è beffardamente in ritardo. Fabrizio in piedi, Fabrizio a mezzo busto, o adagiato su un triclinio inesistente come il defunto sui sarcofagi romani che banchetta nonostante la morte). È una bellezza fatta di capelli biondi e di un profilo che è un canone policleteo e aurea mediocritas. È tuba nera, stivali e mantello rosso sempre mosso dal vento. O c’è Parma vuota, grande, inabitabile e deserta o c’è Fabrizio senza futuro e senza passato con il mantello gonfio di vento.

L’ossessione stendhaliana di Mattioli è esondata e ha riempito molte carte ed è diventata nel 1977 finalmente un volume con nuovi colori (stavolta davvero il rosso e il nero), poi si è esaurita, così come doveva essere, nella calma larga di una serie indimenticabile di ceramiche, come le anse quiete di un fiume vorticoso che si placa e respira prima di tuffarsi nel mare.

Nel doloroso momento del commiato da una storia e dai suoi personaggi, Mattioli ha scelto di lasciare Parma e Fabrizio con durezza e decisione, senza sussulti e senza rimpianti. Un alto muro nero che termina con coppi rossi. È quello di San Paolo ovvero, stendhalianamente, di palazzo Crescenzi. Il palazzo–Sacello – sepolcro di Clelia. Una porta buia ci fa capire che è sempre notte.

L’orlo di un mantello rosso entra in quella porta. Fabrizio va da Clelia, è il primo vero incontro d’amore, foriero delle tragedie a venire che Stendhal racconta in poche righe, dopo lungo peregrinare, molte avventure e molte pagine. La fine, per tutti tragica, arriva a precipizio in un pugno di parole. Fulminea, un rantolo. Come se non ci fosse più niente da scrivere e il dolore fosse affidato all’immaginazione asciutta del lettore. Lo stesso ha fatto in un certo senso Mattioli: la vasta Parma ad un certo punto scompare. Della sua onirica immensità rimane solo un muro in primo piano. Di Fabrizio, del suo amore, delle sue avventure e della sua morte solo l’orlo del suo leggendario mantello in fuga. La Bellezza sfugge alla morte o vi corre incontro, scriteriata, in un mortale abbraccio. Poi più niente. To the happy few.

LA CERTOSA DI PARMA

La città sognata di Stendhal

interpretata da Carlo Mattioli

A cura di Francesca Magri, Anna Zaniboni Mattioli, con la collaborazione di Francesca Dosi

Parma, Palazzo Bossi Bocchi

22 febbraio – 31 maggio 2020