Piccolo dizionario amoroso di Livorno

di Simone Lenzi e Silvia Pampaloni

Un abbecedario molto soggettivo, un vagabondaggio intimo, una lista non esaustiva di pensieri fuggitivi intorno ai luoghi, alle parole e ai personaggi della città toscana.

Ardenza. Non è proprio Livorno, o meglio ne è la propaggine a sud. Un nome bellissimo, dall’etimologia incerta, ma che rimanda l’orecchio al calore del sole, mitigato dai bagni di mare. Lì sorge la Rotonda, centro ideale della passeggiata a mare. E i Casini di Ardenza: la cosa più simile al Royal Crescent di Bath che si possa immaginare, quasi una copia. Jane Austin li avrebbe amati.

Bagitto. È un antico linguaggio giudeo-livornese, arricchito di componenti spagnole, portoghesi, arabe, greche con tracce di turco e di yiddish che bene incarna la diaspora ebraica fino a Livorno. Il bagitto era prevalentemente usato come gergo nei rapporti interni alla comunità. E’ quasi scomparso ma alcune parole restano nell’uso corrente della parlata livornese, come l’aggettivo “bobo” per indicare una persona ingenua che crede a tutto.

Ciampi. Ha tutte le carte in regola per essere un artista: ha un carattere melanconico, beve come un irlandese.

Dé. Figura linguistica di straordinario rilievo, viene usata in infinite situazioni. A seconda del contesto può significare qualsiasi cosa. Ha funzione esclamativa, rassicurativa, rafforzativa, esortativa. Tutto dipende dal tono e dalla gestualità. In ogni caso il è un intercalare tipico della parlata livornese, collocandosi all’interno praticamente di ogni discorso. A qualsiasi affermazione dell’interlocutore un sarà sempre una replica laconica perfetta.

Estate. Più che una stagione è uno stato mentale. Tuffi in mare in pieno inverno, corse o semplici passeggiate in pausa pranzo, il richiamo del mare è un canto delle sirene per ogni livornese. Forse perché come diceva Jean Claude Izzo “Di fronte al mare la felicità è una cosa semplice”.

Fossi. Così si chiamano i canali di acqua di mare che percorrono il centro della città. Ai lati dei canali si trovano le cantine, i magazzini degli antichi mercanti. In fondo ai fossi solo melma e qualche bicicletta. Di false teste di Modigliani nessuno vuole più sentir parlare.

Ghetto. Inutile cercarlo. Non c’è. Livorno è stata l’unica città europea a non costruire un ghetto ebraico. Gli ebrei livornesi godettero di libertà commerciali e di costumi mai viste in nessun altro luogo. “Non esistevano ghetti a Livorno, non si indulgeva a pregiudizi razziali. Ricchi e poveri potevano vestirsi di velluto, di seta e di broccato, portare nastri, cappelli e piume. Era permesso il gioco d’azzardo, il libertinaggio, i bordelli” (Un cappello pieno di ciliegie, Oriana Fallaci, BUR, 2009).

H. Via la acca! Questa la differenza fra la parlata livornese e il resto della toscana. Qui nessuna “gorgia”: la c non si aspira, si elide. La coha hola dei fiorentini è insomma semplicemente coa ola. Non si sprechi il fiato dunque. Siamo gente di poche aspirazioni.

Il Principe di Montparnasse. Amedeo Modigliani, qui chiamato affettuosamente Dedo. Un amore tormentato quello tra l’artista e la sua città natale. Fatto di fughe, ritorni, tradimenti, beffe e riconciliazioni tardive. Del resto, come canta Vinicio Capossela nella sua Modì, “Livorno dà gloria soltanto all’esilio ed ai morti la celebrità”.

Lungomai. “La retorica impone che si dia prima la cattiva notizia: i livornesi vogliono avere a che fare soltanto con i livornesi. La buona è invece che diventare livornesi non è affatto difficile: siamo tutti pronti a darvi una mano. Perché è bene si sappia subito che a noi, di voi, di chi siete e del luogo da cui provenite, francamente non ce ne importa nulla. Se però, dichiarando la vostra apostasia, professerete adesione alla livornesità, non solo sarete i benvenuti, ma faremo di tutto per farvi sentire a casa, visto che, per la vostra intelligenza, avete saputo vedere quel che gli altri (si pensi ai disgraziati che si ostinano a vivere a Parigi, Milano, New York o Roma) non vedono”.

(Sul lungomai di Livorno di Simone Lenzi, Laterza, 2013).

Montenero. Sulla sommità del quale sta un santuario mariano. E che un santuario mariano stia sulla sommità di un monte “nero” non è probabilmente un caso. Splendidi gli ex voto della devozione popolare: la salvifica medaglietta della Madonna che bloccò il proiettile, la mano provvidente che guidò in porto la nave squassata dai flutti. I segni miracolosi di quando si credeva che la fortuna sfacciata avesse un nome santo. 

Natali. Uno degli esponenti di spicco della corrente pittorica dei post-macchiaioli, gli eredi degli insegnamenti del grande maestro livornese Giovanni Fattori. Nel 1920 Renato Natali con Gino Romiti fu tra i fondatori del Gruppo Labronico, fertile sodalizio di artisti toscani ancora oggi attivo.

Opera. Non può che essere La Cavalleria rusticana la prima opera composta dal livornese Pietro Mascagni e senza dubbio la più celebre. Il suo successo fu enorme già dalla prima rappresentazione a Roma nel 1890 e tale è rimasto fino ad oggi. La Cavalleria rusticana permane nel repertorio stabile dei principali enti lirici mondiali.

Ponce. Una versione nostrana del punch. Ma al posto del tè e del Rum delle Antille, abbiamo caffè e “rhum fantasia”. Ogni vero livornese ama il ponce. Di certi portuali temprati dal libeccio si diceva che avessero la voce “arrochita dai ponci”.  Se ne vantano virtù medicamentose, ma è solo una scusa per berlo.

Quattro mori. I celebri quattro saraceni incatenati posti al di sotto della statua di Ferdinando I de’ Medici accolgono i forestieri al porto Mediceo. Vale la pena sottolineare che i livornesi si sono sempre più identificati con gli statuari prigionieri in bronzo che con il Granduca fiorentino. 

Ribellione. Porto franco rumoroso, opulento, meticcio, popolato in fretta da fuggiaschi, criminali, prostitute, commercianti astuti e perseguitati di ogni genere. Facce da Babilonia. Logico pensare di non trovarsi davanti a docili ed impauriti cittadini. I livornesi sono ribelli ed anticonformisti per dna. La rivolta del 1849 contro gli invasori austriaci, che provocò centinaia di morti tra i ribelli dopo due giorni di assedio, è un ricordo ancora vivo e celebrato in città.

Sorpasso. Il capolavoro di Dino Risi del 1962. Il primo road movie all’italiana, con Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant, è ambientato tra Livorno e Castiglioncello. La scena del sorpasso fatale sulle curve della scogliera a picco sul mare, il Romito, è rimasta nella storia del cinema.

Terrazza Mascagni. Una scacchiera di 9.000 metri quadri affacciata direttamente sul mare. Un sogno metafisico, indispensabile luogo di passeggio e di riflessione dei livornesi, intitolata al grande compositore Pietro Mascagni.

Umorismo. Componente imprescindibile del carattere livornese è spesso più vicino al tagliente sarcasmo. Irriverenti per natura, i livornesi non risparmiano nessuna autorità da questa usanza. Istruzioni per l’uso. Spesso l’ironia è contrastiva. Se per esempio avete un naso importante, il livornese commenterà “E sai ‘osa? E sei senza naso!”. Non è un caso che Livorno sia la patria della graffiante rivista satirica Il Vernacoliere.

Venezia. Quella di Livorno. Il quartiere attraversato dai canali che un tempo portavano in città le merci dal porto. Ciò che resta della città storica dopo i bombardamenti alleati.

Zighe. Così si chiamano a Livorno le arselle o telline. Le zighe alla livornese sono un piatto tradizionale, gustoso ed economico. La cucina di Livorno è povera e multietnica. Composta prevalentemente da pesce non pregiato e da piatti speziati di antico sapore sefardita. 

Simone Lenzi è scrittore, traduttore, sceneggiatore, cantautore e frontman del gruppo indie rock Virginiana Miller. Dal 2019 è Assessore alla Cultura del Comune di Livorno.