Professore di fiducia

Incontro con Tommaso Greco

di Maud Coudrais, avocate au barreau de Paris

Nel suo recente libro intitolato La legge della fiducia. Alle radici del diritto (Editori Laterza, 2021), il Professor Tommaso Greco dimostra come la fiducia sia l’essenza stessa del diritto, smontando l’abituale modello sfiduciario.

Professor Greco, in Italia, il suo libro sta avendo un grandissimo successo. È molto raro per un libro scritto da un giurista. Come lo spiega?

Credo che una delle ragioni di questo “successo” (se vogliamo chiamarlo così) stia nel fatto che il libro si rivolga ai nostri sentimenti positivi anziché, come avviene spesso, a quelli negativi, e quindi da un certo punto di vista rappresenti un messaggio di speranza. Senza che questo induca a farci illusioni, naturalmente. Non ho voluto dire che “dobbiamo essere più buoni”, o che “dobbiamo attribuire più fiducia”. Ho voluto sottolineare che, così come avviene in generale nella nostra vita, anche nelle nostre relazioni giuridiche ci affidiamo continuamente agli altri, dal momento che il diritto, prima di essere uno strumento di costrizione, ha a che fare con le relazioni che abbiamo con gli altri e quindi affida a ciascuno di noi la buona riuscita di queste relazioni. Perciò, anche se facciamo fatica a vederlo, il nostro quotidiano è già pieno di atti fiduciari. Concentrare tutto sull’immagine negativa dell’uomo, sulla sua costante tendenza a ingannare gli altri, mi è sempre parso un modo per giustificare i comportamenti fraudolenti. Una specie di profezia che si autoavvera.

Il suo libro è molto chiaro. Spessissimo, i giuristi parlano tra di loro. Non assumono la loro missione di informazione del pubblico. 

Ha ragione, questo è un grande problema della nostra cultura giuridica. I giuristi tengono molto al loro ruolo di “tecnici”, di specialisti, di “scienziati”. Il loro linguaggio risulta spesso esoterico, e direi che serve anche a questo, a porre una specie di distanza rispetto agli altri. 

Lei sottolinea come la mancanza di cultura della legalità in Italia abbia portato all’eccesso contrario di un iper-burocrazia.

Io credo che il problema stia nella convinzione diffusa che, se siamo tenuti ad ubbidire alle regole, è solo perché c’è la minaccia di una sanzione. È un modello che non aiuta il senso della responsabilità. Non dico naturalmente che la sanzione non ci debba essere; essa è necessaria soprattutto per tutelare i soggetti più deboli. Ma dico che se pensiamo che il diritto abbia valore solo perché c’è la sanzione, allora il senso delle regole decade.

Ma lei non percepisce nel popolo una fame di regole sempre più precise, una fame di sicurezza? Secondo lei, il giurista non ha la responsabilità di spiegare alle persone che non si può andare nella direzione di un eccesso di sicurezza, di controllo ossessivo, di certezze assolute? 

Io non credo che la gente chieda sempre e solo più certezza o sicurezza; penso che chieda più chiarezza, che è una cosa diversa. Un esempio perfetto di quanto sto dicendo lo abbiamo avuto nel periodo del lockdown. Pensi alla regola in base alla quale non ci si poteva allontanare da casa per fare esercizio fisico: se in quel caso cerco la certezza dirò che non ci si può allontanare oltre 500 metri. Ma le persone non vivono solo in città sovraffollate, piene di grandi e fitti palazzi e di strade trafficate; vivono anche in piccoli paesi o addirittura in campagna: sarebbe del tutto controproducente (e direi stupido) regolare situazioni tanto diverse con una norma rigida come questa. Allora, sicuramente è molto meglio adottare una regola chiara, anche se poco precisa (“in prossimità della propria abitazione”), una regola che si affida alla responsabilità di ognuno e anche di chi deve vigilare sul rispetto della regola stessa. Certo, ci sarà sempre colui che violerà questa norma e si allontanerà più del consentito. Ma a mio parere non si possono pensare le norme a partire da colui che certamente la violerà; bisogna pensare innanzitutto alla gran parte delle persone che, se la norma è ben congegnata, saranno indotti a rispettarla.

Però questa regola è stata criticata proprio perché non dava sicurezza. La gente è abituata ad essere infantilizzata. Non tocca secondo lei al giurista spiegare il senso delle norme alle persone ed aiutarle a responsabilizzarsi?

Sì, certo, qui c’è una grande responsabilità del giurista. C’è un lavoro di educazione che va fatto dal giurista ma anche dal legislatore, senza che questo implichi l’adozione di un atteggiamento paternalistico. Il legislatore deve essere consapevole che quando usa certi tipi di regole provoca certe dinamiche. 

Alla fine, quindi, il costo della sfiducia è molto più alto dei suoi vantaggi. A mio parere, cercare la rassicurazione con delle regole rigide è un’illusione. In questo momento particolare, con il COVID, il diritto è stato strumentalizzato per scopi politici. Nemmeno le regole rigide sono una vera garanzia contro gli abusi.

Il diritto, come frutto della volontà umana, è sempre a rischio di essere strumentalizzato, anche se personalmente rifiuto di vederlo solo e sempre come uno strumento di dominio dei governanti sui governati. Personalmente, anche se ho sentito un certo disagio rispetto ad alcune misure che hanno creato contrapposizioni tra i cittadini, credo che non ci fossero molte alternative rispetto alla necessità di provocare, anche attraverso regole adeguate, un diffuso atteggiamento cooperativo e responsabile, senza il quale non sarebbe stato facile combattere la pandemia. 

Per esempio in Francia, nei discorsi del Presidente della Repubblica, è stata molto alimentata l’opposizione tra coloro che erano favorevoli al vaccino e no-vax. Una distinzione che per me è molto contestabile. 

Come dicevo prima, personalmente ho sentito un disagio e ho preso molto sul serio alcune delle riserve avanzate contro certe misure. Però credo si sia fatto l’errore di generalizzare anche nel discutere di queste categorie. Chi sono i no-vax? Davvero sono raggruppabili in un gruppo omogeneo? Ciò che è mancato, non solo alla politica e alla scienza giuridica, è forse un po’ di fantasia per trovare delle soluzioni intermedie. Bisogna fare lo sforzo di superare le dicotomie, ma non sempre è facile e per farlo serve appunto una certa inventiva. 

Non è che l’obiettivo della sicurezza diventa una giustificazione per la disumanizzazione?

È un rischio molto serio. La mia convinzione è che bisogna recuperare il valore della sicurezza che viene dallo spirito relazionale e di comunità. Cito sempre a questo proposito la Dichiarazione che precede la costituzione francese del 1795, nella quale si dice che “la sicurezza risulta dal concorso di tutti per assicurare il diritto di ciascuno”. Non c’è garanzia migliore per la sicurezza di ciascuno di noi se non quella che ognuno offre all’altro attraverso i propri comportamenti. Nel periodo pandemico ne abbiamo avuto una dimostrazione eclatante.