Qualcosa che ha a che fare con l’arte

di Sirio La Pietra

 

A Parigi molti possiedono una galleria d’arte, è usanza! Un po’ come fare nuoto, calcetto o sparare ai cinghiali dalle mie parti. Mi stupisce sempre questa alta concentrazione di galleristi e la conseguente passione della città per l’arte: eppure è così. Una sera, ero in un ristorante di ritorno dal Centro George Pompidou, si presenta al tavolo uno di quei tipici ristoratori parigini, tutto burro e camicia, che cerca, forse, di sopperire alla discutibile qualità dei propri piatti con un po’ di cortesia, una chiacchiera amichevole e un caffè offerto: ovviamente pure lui gallerista!

Apprezzo di Parigi la distanza e il riserbo che si osservano nei confronti del prossimo. Sono un italiano un po’ anomalo, come atipicamente francese era lui; ma, nonostante questo esilio dai modi da osteria e dall’invadenza italiana, mi trovai comunque relegato dietro il tavolino del bistrot con un secondino sorridente che spargeva sul tavolo domande del genere: ‘’e allora che fate qui?’’ “vi piace la città?’’.

Casualità volle che una volta palesati i miei studi in Storia dell’arte questo aguzzino concentrasse la sua attenzione proprio su di me. Dunque proseguì: ‘’Io possiedo una galleria d’arte contemporanea!’’  “E te pareva” gli risposi, ma la mia sortita, per quanto incomprensibile, fu seppellita dagli “aaaaahh’’ stupefatti dei miei compagni di tavolo molto più entusiasti di me.
Il sequestratore prontamente tira fuori la spada dal fodero: un telefono con uno schermo/vassoio da due, due tazze e mezzo di caffè e prende a mostrarci le foto dei suoi trofei di caccia. Si siede al mio fianco e tira fuori l’immagine di un dipinto di un’artista olandese, a suo dire emergente, e mi chiede un commento a caldo. Subito mi saltano all’occhio due somiglianze, Bue squartato di Soutine, che a sua volta è uno sviluppo di Bue macellato di Rembrandt.

Ora non sono in possesso dell’immagine, ma con uno sforzo di immaginazione potete collocare il terzo tassello di questa trilogia.

Gli espongo la somiglianza con un’opera di Soutine, un quadro molto conosciuto che è stato anche raffigurato in un celebre film su Modigliani. Il master chef googla il titolo ed emette una specie di pernacchia che in francese vuol dire “boh’’ e mi dice che il “SUO’’ artista “non era figurativo’’ ma orgogliosamente astratto. Il quadro era davvero identico, anche a dire dei miei commensali, cambiava semplicemente qualche tonalità ma le macchie di colore erano disposte esattamente negli stessi spazi sulla tela e forse con un tete à tete delle due immagini, entrambe in bianco e nero, si faceva fatica a distinguerle. La mia risposta lo deluse, se la prese non tanto per la copia, quanto per la figurazione che alle sue orecchie suonava come un insulto: avevo privato le sue finanze dello spirito rivoluzionario che egli aveva attribuito al loro non figurare. Vai a capire il perché. Forse al giorno d’oggi si tende ad attribuire al modus agendi propri del “genio artistico’’ (soprattutto in pittura) un’ispirazione proveniente forse da un Dio ipotetico o sconosciuto, “agnostos theos”, che porta i pittori, presi da questo delirio, a comporre assecondando sensazioni metafisiche talmente fugaci da annichilire una tecnica, una progettualità, una cultura storico-artistica di oggettiva provenienza.

Il tempo cambia radicalmente le cose, capovolge i giudizi, riformula le idee, abbatte i dittatori ma soprattutto modifica le parole. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” “La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi’’; probabilmente più che il nome delle cose mi viene da pensare che ciò che sopravvive, in noi semplificativi pensatori, è una sorta di valutazione sentimentale dei suoni, appunto i nomi delle cose, come una carica emotiva che attribuiamo alle parole. Per quanto queste accezioni siano vane e frettolose, esse costituiscono comunque uno strumento utile per una storiografia forse più autentica e completa poiché comprendere le diverse concezioni di un termine significa anche conoscerne le finalità, il suo senso. Precisiamo però qualcosa: le fonti dell’epoca riportano Soutine come un’artista astratto, anche se proporre tale definizione oggi e agli inizi del novecento significa concettualizzare due cose diverse, ancor più se consideriamo che essa rientrava nella terminologia usata dai critici per schernire gli artisti.
Non a caso tra i primi “accusati” di astrattismo furono i pittori fauves e i cubisti: una delle critiche rivolte ai fauves era quella di aver dissociato mezzo e fine della pittura, cioè di aver trascurato la natura dando più importanza agli stessi mezzi pittorici ridotti alla loro più semplice espressione. Riportiamo la critica di Louis Vauxcelles a cui si deve la paternità del nome Fauves al movimento:

“È mio dovere far presente a Matisse quello che credo sia il suo errore. Che abbia voluto realizzare una sintesi, lo so. Ma una sintesi deve procedere da lunghe e laboriose analisi; non si devono confondere semplificazione e povertà, schematismo e vuoto. In arte bisogna tenere a distanza le teorie, il sistema e l’astratto come la peste.”

Tra le altre celebri ironie che vennero indirizzate alle rappresentazioni astratte, o ritenute tali, resta quella di Maurice Denis che appellava i dipinti astratti ‘’NOUMENI DI QUADRI’’. Anche Cezanne dirà che il pittore opera “concretizzando le proprie azioni con il colore mentre il letterato si muove per astrazioni’’, e poi dirà anche “il mestiere astratto si esaurisce nella retorica che si eleva fino ad esaurirsi’’.

Volendo attualizzare lo spirito critico che aleggiò intorno a quel tipo di arte possiamo dire che gli astrattisti erano considerati come quelli che noi oggi chiamiamo, passatemi il termine, dei radical chic: ossia dei loschi figuri che, abbandonando la vita reale, si dedicano alla contemplazione della loro noia esistenziale attraverso bizzarrie e artifici retorici. Il termine astratto dunque, era un aggettivo usato per giudicare negativamente le opere pittoriche e letterarie ritenute artatamente incomprensibili, formalmente pompose. Eppure queste riflessioni sono ancora insufficienti per capire, ammesso che sia possibile comprendere. È necessario, infatti, collocare il termine nello spazio e nel tempo; posizionando la questione in Francia in un dato momento storico essa assume un valore e un significato, spostandoci ad esempio in Germania ne ha un altro. Questa comparazione offre sempre ulteriori e significativi elementi di valutazione poiché gli artisti, agendo ognuno nel proprio interesse e contesto, proponevano interpretazioni diverse e singolari di quest’ansia espressiva senza raggiungere con le loro opere un valore universale.

Fondamentalmente, dunque, dire che un’opera è astratta significa non aggiungere nulla alla sua specificazione, figuriamoci esserne orgogliosi. La verità è che un museo andrebbe letto con gli strumenti della psichiatria di fronte al disagio mentale: si agisce su frammenti di un tempo lontano, di una vita che non è la nostra e che guardiamo con telescopico distacco, ma che un tempo aveva finalità e progetti. Dovremmo scavalcare la rassicurante tentazione di liquidare come folle e arbitrario ciò che ci troviamo di fronte, riconoscendo a noi stessi il grande nemico che coltiviamo nella perversa supponenza che ci insidia quotidianamente – il tifo, il manicheismo, il pensiero binario di derivazione digitale: giusto/sbagliato, bello/brutto, buono/cattivo.

Montale diceva:
“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche sorta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”

 

Magritte tenta lo stesso nel linguaggio pittorico :
“Guardate e passate, accrescete il vostro bagaglio visivo, raffinate il vostro gusto. Delle due, cercatene molte altre.”