QUARTO EPISODIO

Rientrò a casa Gregorio, strafelice, non tanto per il panino, che pure era stata una gran manna di sor Arturo, ma per la gazzetta, ultima reliquia di un tempo giocoso, anche vecchia e riletta non faceva niente, se la sarebbe passata e ripassata, gustata, sminuzzata, immaginando azioni, finte, dribbling, falli e goal. Panem e circeo, come diceva Mario ogni volta che passava all’edicola per prendere la gazzetta, in verità non aveva mai capito bene il significato di quella frase, ma lo faceva ridere e la ripeteva.  Sbocciarono tutti insieme i pensieri, sulla scia di quell’entusiasmo delle piccole cose, gli venne in mente che avrebbe dovuto fare la telefonata al gran caino del capo, sempre lui, si trovò al centro della stanza, con il tavolo già apparecchiato, c’era pure il sangue della terra, così chiamava il vino, lo considerava una sorta di ambrosia proletaria, non doveva mancare, mai, neppure sul cantiere. Aveva fatto tutto in automatico, preso com’era a cavalcare i ragionamenti e le parole che avrebbe ripetuto al telefono. Divorò il panino, continuando quel monologo immaginario e combattivo, si trattava pur sempre della sua esistenza, gesticolava Gregorio, non nella stanza, nella porzione di spazio che crollava appena fuori la sua mente. Ritornò da quel viaggio, per il rumore del portone sul muro alle spalle, lì, in quel soggiorno/camera da letto, con la finestra aperta sul mondo per  far entrare un po’ di aria, Gregorio sentiva di non capire ancora bene ciò che stava vivendo.  “Mo ce fumamo na bella paglia der killer” disse a se stesso ingollando l’ultimo sorso di vino, tirò la sedia verso la finestra, inciampò, sempre la stessa mattonella, quasi cadeva se non fosse stato per l’angolo dell’armadio che si prestò alla mano, “giuro che domani te sistemo io, quanto è vero che so’ vivo”, fece minaccioso col dito rivolto al pavimento. Menomale che aveva quella finestra sulla corte a rendergli meno prigione la casa, l’altra, quella della cucina, era ad altezza marciapiede, da lì la vita pure entrava, ma in maniera diversa, a metà. Gregorio sognava un balcone, da sempre,  “prima o poi me devo fa un balcone che deve essere n’artra casa”, diceva, proprio lui che di balconi ne aveva tirati su tanti, lui proprio non l’aveva. Si spensero le ultime luci nei palazzi intorno, anche Gregorio decise di spegnere quella giornata, era stata faticosa, molto, anche senza lavoro.

06:24,  i numeri rossi della piccola radiosveglia illuminavano il buio della stanza, Gregorio saltò dal sonno, “cazzo è tardi”, per realizzare un istante dopo, che era stato beffato ancora dall’abitudine, stette con i piedi a metà nelle ciabatte e gli occhi cisposi, tutto rincoglionito col culo sul bordo del letto. Poi preso da un guizzo di energia, come un sommozzatore si tuffò all’indietro, immergendosi tra le coperte per  riprendere sonno. Alle 08:30 spaccate, la voce di quel rompicoglioni di Bilotti lo svegliò con un: “Lisa, Lisaa, Lisaaa, gettami il piumino dal balcone!”
“Li mortacci tua Bilò, a te e ar piumino che usi pe’ spolverà quer cesso di macchina che te ritrovi! Chissà come è che stavo a dormì!”

Questo fu il buongiorno di Gregorio al mondo.
S’alzò, pure la vescica ci si metteva, a spingerlo fuori dalla branda. Inforcò le ciabatte, inciampò al secondo passo, “li mortacci tua” disse alla mattonella, “nun te preoccupà che oggi te sistemo”, andò in cucina, c’era il sole, preparò il rituale della colazione, da gustare sfogliando la tanto amata gazzetta. Sorseggiò il caffè come un signore al tavolino di un bistrot parigino, osservava il mondo da quel ritaglio di finestra, piedi e piedi con cani, molti cani, “dalle scarpe de la gente se capiscono tante cose”, Gregorio era cresciuto con un padre fissato con le scarpe e loro pulizia. Gli diceva sempre: “un signore Gregò se vede dalle scarpe, pure er più povero le po’tenè pulite, e ricordate de diffidà sempe da chi tiene li mocassini, devono esse dei fraccomodi pe’uscì co le ciabatte de casa!” Sempre così, ogni volta che Gregorio tornava con le scarpe impolverate e invano gli rispondeva: “a papà, e daje co’sta storia, lo vuoi capì che lavoro sur cantiere, mica so’ Bilotti io” e l’altro scuotendo la testa gli diceva,”se vabbè, fai finta tu de non capì”. Su quei ricordi sorrise, andò nell’altra stanza per cercare il telefono, era arrivato il momento di fare la telefonata allo stronzo.