Respiro a scatti

A cura di Francesco Forlani

In una pregevole opera collettiva, Il senso del respiro, pubblicata da Castelvecchi quest’anno, a cura di Luciano Minerva e Ilaria Drago, Vincenzo Cottinelli s’interroga sul ruolo del respiro in un’arte, quella della fotografia, che proprio da quell’atto semplice e vitale, ha attinto i nomi principi della propria attrezzatura: soffietto, diaframma.

“Dietro alla grande storia della fotografia c’è un discorso sul respiro, che riguarda il fotografo, il soggetto della fotografia, ma anche l’ontologia respiratoria della macchina fotografica, che respira non aria ma fotoni. E la stessa carta fotografica, al di là delle apparenze, ha una sua forma di respiro.”

Fotografo e fotografati devono trattenere il respiro perché la messa a fuoco sia precisa.  Vincenzo Cottinelli, va detto, è un fotografo di grande respiro. Potrebbe bastare la nota biografica che il lettore troverà in calce al dossier per averne conferma, ma ridurre una vita d’artista a 360 gradi a una nota biografica, per quanto completa essa sia, significherebbe fare un torto alla vita e all’opera di un autore che la Tour de Babel ha avuto il privilegio di ospitare per una mostra nel 2013 con i Volti della cultura italiana da lui ritratti. È stato proprio in libreria, in quel retrobottega cui hanno accesso gli amici della Tour, che ho incontrato per la prima volta Vincenzo Cottinelli di ritorno dallo stupendo reportage da Venezia. Il neologismo mi è venuto in mente nell’attimo esatto in cui mi mostrava, immagine dopo immagine, la cartografia di una città segreta, intima, refrattaria a ogni tipo di chiusura, fissità, ma colta nel suo divenire, scatto dopo scatto, ogni volta diversa da sé. Per capire fino in fondo il multiversum di Cottinelli dovremmo riprendere quel magnifico ed efficace paradigma della “città analoga” creato dall’architetto Aldo Rossi. Cosa significa la città analoga e qual è il rapporto con il più “analogico” dei fotografi del nostro paesaggio contemporaneo?

Aldo Rossi definisce la città analoga come “un tentativo di allestire una scena architettonica nella quale si sopprime l’egemonia del conscio e si introducono, invece, le enigmatiche regole del caso”. Vincenzo Cottinelli dal canto suo ci racconta Fotografare Venezia (2019 e 2020) con parole analoghe:

“Una sperimentazione sia visiva che tecnica: raccontare natura e paesaggi con la libertà stilistica delle foto ai sali d’argento su pellicola medio formato in bianco e nero in vecchie fotocamere ‘a rullo libero’ che consentono una ripresa scivolata, multipla e irregolare (…) Acqua e pietre, muri e canali, incredibile permanenza sopra il nulla e un ritmo di chiari e scuri profondi. Non un discorso ambientalista o catastrofista: solo la volontà di raccontare con affetto una speciale bellezza, giocando con l’ignoto nascosto sotto le acque o dietro le svolte dei rii, intimità sofferente e vacillante, o luminosità di stupende facciate, fragili quinte senza teatro, a volte sul punto di precipitare nei canali”.

È impossibile non solo fissare la Venezia di Cottinelli in un solo fotogramma, come abbiamo potuto verificare con Stefania e Patrizia quando si è trattato di scegliere l’immagine per la copertina, ma perfino contenere ogni singola visione attraversata da linee di fuga verso uno scatto finale aperto. Respiro e scatto diventano elementi di una dimensione atletica, l’irregolarità del battito, l’imperfezione di una natura in flusso continuo. Lo spettatore, pare accedere attraverso ognuno di quegli interstizi verticali in un oltre mondo, introdursi nelle segrete per poi di nuovo tentare l’evasione alla maniera del gentiluomo veneziano per eccellenza nella sua fuga nei piombi. Piombo e argento come chiaroscuri su cui ‘impressiona la visione flou, altalenante alla maniera di natanti all’imbarchino. Ecco perché da quel pomeriggio trascorso insieme al maestro nel retrobottega della Tour non riuscivo a non ripetermi passaggi mandati a memoria delle Città invisibili di Calvino. Opera del 1972, va ricordato dunque, appena quattro anni prima che l’architetto Aldo Rossi presentasse alla biennale di Venezia il suo progetto della città analoga. E Calvino racconta così la genealogia del suo progetto contenuto nelle Lezioni Americane e precisamente in quel magnifico capitolo dedicato all’esattezza.

“Dal momento in cui ho scritto quella pagina (Le città invisibili) mi è stato chiaro che la mia ricerca dell’esattezza si biforcava in due direzioni. Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; e dall’altra parte lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose. In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d’una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l’altra che si muove in uno spazio gremito d’oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile”.

La fotografia di Cottinelli le percorre entrambe quelle strade proseguendo da una parte nel felice cammino segnato essenzialmente dai ritratti narrativi e letterari del passato, e dall’altra nell’esplorazione del vuoto, l’apparentemente vuoto che regge e separa l’inconscio dalla realtà, un vuoto d’aria che provoca vertigini. 

Mi perdonerà a questo punto l’autore per questa mia ricomposizione testuale, analogica nell’uso di fonti eccessivamente ricche ma mai abbastanza per una città abitata dall’acqua. 

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