SECONDO EPISODIO

La porta si aprì a metà, l’angolo di apertura era interrotto dal mini frigo che stava nell’unico posto in cui poteva stare. Per pochi secondi stette all’ingresso ad ammirare quel panorama, mantenne la testa incastrata tra la porta e il muro e gli sembrò di scoprire casa per la prima volta. Entrò dondolando come un granchio, con le buste della spesa che facevano da chele. Posò le buste sul tavolino di plastica e senza pensarci due volte si lanciò sul letto, non diversamente da come faceva tornando da lavoro. La luce di mezzogiorno occupava tutta la stanza, il rumore del portone che sbatteva in alto alle sue spalle era una manopola che gli conciliava il sonno. Come se fosse inseguito, Gregorio si eclissò con le coperte e s’addormentò.

Gregorio Quaranta si svegliò alle nove e un quarto di sera, con lo stomaco sottosopra. Si sedette sul letto e strofinò un poco il piede su una mattonella, era rialzata, il monolocale puzzava di sigaretta e di latticini andati a male, camminò avanti e indietro per qualche minuto tenendo le mani al caldo nella molla delle mutande. Aprì la porta di casa e intrappolò nuovamente la testa tra la porta e il muro, questa volta all’inverso, assaporò il profondo silenzio delle scale ed emise un rutto così potente che rimbombò per tutto il condominio, sembrò venire dalle viscere della terra, come un terremoto, quel cattolico di primo pelo di Bilotti avrà sicuramente pensato che il giorno del giudizio fosse ormai giunto. Fu uno sgarro al silenzio più che ai condòmini. Rientrò in casa soddisfatto, riordinò la spesa, svuotò i posaceneri che fiorivano sul pavimento e si ricordò delle sigarette, lo aspettava una notte per gran parte insonne, doveva procurarsi del tabacco.

Prese il cappotto e perquisì le tasche cercando il portafogli, niente. Cercò sotto il letto, nello spazio tra muro e materasso, nelle buste della spesa, niente. Prese le chiavi e sbatté la porta, fece gli scalini a tre a tre toccando il mento con le ginocchia. Aprì il portone del palazzo, perse un secondo nel vederlo compiere l’intero tragitto, fino a sbattere contro la parete, poi scattò verso il centro della strada, non c’era nessuno, quella desolazione aveva lo stesso profumo delle scale vuote. Percorse la strada correndo lungo la striscia bianca che divideva le due corsie, per un attimo, giocare con quella linea gli fece dimenticare il problema. Un gabbiano strideva in cerca anche lui di qualcosa, quel verso lo fece rinsavire, ripercorse guardando come un segugio a destra e sinistra il marciapiede su cui aveva camminato quella mattina per rientrare. Gli occhi, erano ancora abbottonati dal sonno.

Sarà stata l’agitazione o la smania di ritrovare quel poco che aveva, camminava toccando appena a terra, con un’andatura somigliante a una danza, a tratti sculettava borbottando: “porca mignotta ladra lurida infame, mannaggia a me e a stà testa de cazzo che me ritrovo, stò a pagà la pera di qualche tossico de merda infame fracico, vorrei sapè mò che trovo a quest’ora, stà ceppa trovo, nà bella ceppa! E mò che m’envento soprattutto? No, ma questa è na tragedia incredibile e soprattutto che cazzo me magno mò senza sordi?”

Tornò all’incrocio di Via Garibaldi, vide da lontano la sagoma affacciata della signora che dava da mangiare ai piccioni come se non ci fosse un domani, era ancora lì.

“Ecco ci mancava solo la vecchia che se sogna i piccioni”.

«SIGNOOO’, che per caso ha visto un portafogli a terra o qualcuno che l’ha trovato?»

Neanche Gregorio, credette a una qualche utilità di questa domanda, non smise neanche di camminare per aspettare la risposta della donna, ma doveva provarle tutte.

“Ha perso il portafogli?” Chiese la vecchia.

“No signò lo faccio pe lavoro, trovo i portafogli dell’artri”

Non si curò di attendere la risposta della signora e proseguì, zigzagando con lo sguardo e con la mente alla ricerca di qualche ricordo. Ma nella memoria, come nella strada, nessuna traccia.
Si fermò come fosse smarrito, alzò gli occhi al cielo, la città era delle stelle, che tanto il silenzio, sembravano nel brillare scricchiolare come di ghiaccio. Prese tempo per pensare, bevve alla fontanella del biscione che nel gergo del quartiere era divenuta del piscione, girò per dietro ripercorrendo il ritorno del mattino e vide una fila come dal pizzicagnolo, “sarà morto qualcuno” pensò, probabilmente erano tossici, uno a un metro dall’altro per rispetto alle regole vigenti sulla salute, ma in attesa di crack. Scosse la testa, continuò l’ultimo tratto avendo perso la speranza di rivedere il portafogli, figuriamoci, seppure l’avesse lasciato lì, se l’erano già fumato.

“C’ho ancora una piccola riserva de sordi” pensò, ‘”ma per quanto ancora, posso tirà à carretta? Domani devo chiamà lo stronzo”, detto ciò alzò gli occhi intorno e vide che la bottega der killer, il pizzicagnolo, era ancora illuminata ma con la serranda abbassata, s’avvicinò sospettoso, “vuoi vedè che stanno a grattà la roba ar sor Arturo?” Scrutò tra le fessure della saracinesca e vide che nel negozio c’era proprio sor Arturo, bussò a mano aperta chiamandolo per nome.