«Sono andata sulla finzione per timidezza»

Intervista ad Alice Rohrwacher

a cura di Ellénore Loehr

Alice Rohrwacher fa parte della generazione di registi contemporanei che contribuiscono a far rinascere un grande cinema italiano, vincendo vari premi nei festival più prestigiosi da una decina d’anni (Cannes, Berlino, Venezia…). In questa intervista, cerchiamo di interrogare il modo di lavorare e di scrivere della regista che ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 2014 per Le meraviglie, e il Premio per la migliore sceneggiatura sempre a Cannes nel 2018 per Lazzaro felice.

Vede un rinnovo del cinema italiano tra la sua generazione?

Ogni generazione si sente di rinnovare. Non so se c’è un cambiamento epocale. È sempre un’onda continua, come le onde del mare. Nanni Moretti ha fatto questo grande rinnovamento; dopo sono arrivati altri, poi altri ancora. Ogni epoca porta avanti a volte un rinnovamento più pigro, meno forte, a volte l’onda va indietro e regredisce. Ci sono stati degli anni d’estasi, e degli anni in cui c’era più movimento.

E cosa condivide con gli altri registi che lavorano in questo periodo?

Sicuramente la crisi del cinema! Poi è famoso che c’è tutta una generazione di persone che hanno cominciato col documentario e che poi è andata verso la finzione. Però non vuol dire solo che erano più interessati al reale rispetto alla finzione. Semplicemente stiamo parlando di persone, tra cui anche io, che non hanno fatto magari una scuola di cinema e quindi è stato sempre più facile iniziare dal documentario perché è più accessibile e perché puoi farlo da solo. Anche la finzione puoi farla da solo, ma è più lungo. E invece, la cosa bella della finzione è lavorare con la troupe. Io provo sempre ad avere la stessa troupe tra l’altro, tenerla insieme è la cosa più bella che puoi fare nella tua vita. Da Garrone, a Pietro Marcello, a Jonas Carpignano, tanti hanno iniziato dal documentario però mi sembra banale dire che questo è un interesse alla realtà. Perché questo potrebbe essere semplicemente una coincidenza di tutte persone che non hanno fatto la scuola di cinema perché non li hanno presi, perché non hanno voluto, perché non avevano soldi… per cento motivi. Io sono partita dal documentario e poi sono andata sulla finzione per timidezza. Timidezza non verso il genere documentaristico, ma verso il fatto di riprendere le persone nella loro vita. Allora ho cercato sempre di più di andare verso la finzione perché mi sentivo più stabile, più forte, più gioiosa di chiedere a qualcuno di essere un altro che di chiedergli di essere se stesso.

Qualsiasi persona potrebbe dunque essere un personaggio di un suo film?

Sì. In Lazzaro felice, ci sono 54 non-attori all’inizio. E anche Lazzaro non era un attore.

Dall’inizio sapeva che voleva un ragazzo scelto «a caso» ?

Non ero chiusa. Ho cercato tra gli attori, poi ho capito che non c’era tra gli attori. L’ho cercato poi tra gli studenti. Ho cercato un po’ dappertutto.

Oggi si parla di neo-neorealismo. Pensa che sia adatto per definire il suo cinema?

Non credo. Penso che stiamo facendo un cinema estremo perché è un cinema che continua a credere nel cinema in un mondo che ci crede sempre meno. È piuttosto post-realista che neo-neorealista.

Qual è la relazione tra la realtà, la società di oggi, il mondo e i suoi film?

Si vede da sé che sono dei film che cercano di dare al pubblico delle domande, uno sguardo sul mondo. Ma è la base del cinema comunque. Il mio è un cinema di struggimento, da quando ho cominciato.

Nella sua estetica, quale sarebbe la cosa fondamentale?

Alla base è sempre un grande rispetto, un pudore. Fin da piccoli ci hanno sempre detto «non toccare, tocca con gli occhi», e così ho fatto. Ho toccato con gli occhi le cose e vorrei fare un cinema in cui le immagini per lo spettatore toccano le cose, come se lo spettatore potesse toccare lui le cose.

La sua voglia di fare cinema sarebbe quindi questa: toccare con gli occhi quello che non si può toccare nella vita reale?

Sì.

Come nascono le storie che scrive? [Alice Rohrwacher scrive senza sceneggiatore]

Sempre da cose diverse. Per Le meraviglie, c’è dentro un mondo che è quello della mia vita, della mia infanzia però la storia è inventata. È nata sempre da questa domanda : che cosa facciamo con il passato, come lo vendiamo ? A cosa serve? A farci degli affari sopra, o serve per imparare qualcosa? Serve per ricordare qualcosa? O lo dobbiamo dimenticare? Tutti e tre i miei film pongono questa domanda: che cos’è il passato, che cos’è il presente? Che cos’è il tempo?

Fa un cinema impegnato?

Si può dire ma spero che impegnate siano più le cose che faccio nella vita reale che i miei film.

La critica la aiuta per i suoi film ? È un sostegno?

La critica è sempre interessante, è importante confrontarsi con la critica. Se i film sono i nostri sogni, la critica è il nostro psicoanalista. Imparo tante cose con la critica.

Daniele Luchetti diceva che « il cinema è lo specchio dello spirito del tempo ». Cosa ne pensa?

È una bellissima espressione. La cosa incredibile è che il cinema è veramente tante cose. Rispecchia la molteplicità degli occhi delle persone e anche tutto quello che può essere il cinema. Per qualcuno è solo intrattenimento. Alcuni vanno al cinema per dimenticare, altri per ricordare.

Avrebbe voglia di tornare al documentario?

Non lo so. Forse sì. Non è una questione di stile, è qualcosa di più profondo. Se incontrerò una storia che è più importante fatta in documentario, allora farò un documentario.

La parte dei sogni e dell’infanzia mi sembra molto forte nei suoi film. Si può dire che il suo cinema è fatto di un immaginario molto forte?

È un lavoro in cui la realtà cerca l’immaginazione e l’immaginazione cerca la realtà.

E per finire, pensa che il cinema possa cambiare il mondo?

Magari! L’unica cosa che può fare forse è lavorare sull’essere umano, e in qualche modo cambiando l’essere umano si può anche cambiare il mondo. È da dentro il percorso che fa, quindi è un percorso molto più lento. Il cambiamento è semplicemente far vedere alle persone con gli occhi di un altro. Il cinema permette comunque di creare dei simboli, delle immagini con cui si possa interpretare il mondo in una maniera meno chiusa. Non so se il cinema lavora per il cambiamento del mondo ma lavora per la pace.