Terra nera

Ovvero:

(le inaspettate virtù della necessità)

di Valeriano Forte.

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TRENTADUESIMO EPISODIO

Trascorse l’intero fine settimana a compiere quell’impresa, senza sosta continuò ad accumulare sacchi, faceva pause per andare in bagno, riposarsi e mangiare. Il raccolto s’era accumulato, i piccioli si flettevano sotto il peso, i rami lo stesso,  ma Gregorio era intenzionato a terminare, avrebbe poi pensato al resto.

La domenica arrivò con un venticello, a mitigare la calura dei giorni andati. Si destò di buon’ora, arzillo preparò il caffè, approfittò dell’attesa per lavarsi e cambiarsi, finì per sorseggiarlo osservando il vecchio salotto, cosa fosse diventato. Stette per un po’, dubbioso ingollò l’ultimo sorso e lasciò la tazza sotto la goccia lenta del rubinetto che perdeva. Iniziò con il raccolto, prese tutto, fino all’ultimo dono che la terra concedeva, poi eradicò le piante una ad una. In cucina, una distesa di casse ricolme di colori: il rosso scuro dei peperoni, il verde brillante delle zucchine, il viola delle melanzane, il rosso acceso delle fragole, il quasi nero delle more, il verde chiaro sfumato di bianco della lattuga, il violetto delle rape, l’arancio delle carote, un vero e proprio tripudio. Nell’altra stanza, lo svisceramento era quasi al termine, novanta metri cubi di terra nera, le quattro pareti nude ora scendevano per quasi tre metri dal calpestio. Dispiaciuto, smontò le passerelle della nave che l’aveva condotto in quel momento triste e difficile, nel cabotare se stesso e la pandemia, aveva scoperto una rotta importante acquisendo consapevolezza di se del dopo. Triste sbaraccò la stanza dall’albero, le assi accatastate arrivavano al davanzale, i due alberi, soli, erano enormi fette di torta sulle zolle rimaste. Prese dei teli resistenti, li avvolse e strozzò alla base i tronchi. Con la carriola trasportò prima l’albicocco e  finì con il mandarino, li adagiò in corte, accanto alla finestra, per la prima volta le pagine delle foglie percepivano il sole. La stanza era così spoglia, assoluta, un’opera d’arte contemporanea: volume puro con radice nel muro. Gennarino non aveva più appoggi, Gregorio lo stesso, un venticello caldo entrò spazzandogli la polvere dal viso.
L’unica cosa che rimaneva da fare ora era: tappare il muro. Dall’angolo opposto della stanza lo scrutava, come se dovesse venire a momenti fuori qualcosa, provò un senso di sconfitta, di amarezza, per non essere riuscito a trovare la fonte della radice. S’era dedicato anima e corpo ed ora era lì, con la stessa curiosità che lo aveva portato a fare tutto, ma la curiosità, era destinata a restare tale, non c’era altro tempo. Non si perse d’animo, prese malta e mattoni e accostato alla parete iniziò a lavorarsela. Sistemava mattone per mattone in maniera isodoma, senza far cadere una goccia, con un gesto a scatto della mano, lanciava la malta dalla cazzuola alla fila di laterizi. In poco tempo aveva circondato e chiuso la radice, era fatta, ricoprì il tutto di stucco. Non restava che attendere l’indomani per la gettata di cemento, i ragazzi sarebbero arrivati per le dieci con un furgone e una betoniera. Queste erano le istruzioni.

La cucina oltre le casse, conteneva i suoi affetti, poca roba: qualche vestito, alcuni libri, la radio. Il resto l’avrebbe lasciato lì, non valeva la pena portarsi dietro quel poco di mobilio e una cucina malandata. Le ore della giornata erano state completamente assorbite dal lavoro, se ne accorse perché lo stomaco languì rumorosamente, mentre stipava meglio sacchi, cartoni e valige. Sbrigò le ultime cose, fece una doccia per lavare via un po’della stanchezza del giorno e cucinò qualcosa per la cena. Non era mosso da molti sentimentalismi nei confronti delle cose che avrebbe lasciato, forse la finestra alta della cucina. Gli sarebbe mancato quel sipario basso su una vita fatta di piedi, di scarpe, di passi senza visi, di rumore di passaggio, attimi, la sua televisione. Si divertiva a immaginare chi indossasse un determinato tipo di scarpe piuttosto che un altro, come fosse il resto del corpo al di sopra di un bel paio di gambe. Il pappagallo aveva trovato appoggio sull’applique, nel corridoio e si lisciava, Greg invece, tra le casse, il divano e la libreria, divorò il pasto sul tavolino di plastica, come ai vecchi tempi, lanciando ogni tanto uno sguardo alla finestra, richiamato da qualche rumore, l’ora della passeggiata serale: corteo di piedi, guinzagli e zampe e se era piccolo, l’intero quadrupede, con alcuni era arrivato a scambiarsi anche qualche occhiata, come a dire nun ce provà! Riassettò la cucina, l’indomani avrebbe trasportato le poche cose sul furgone, aiutato a caricare i sacchi e gli alberi, per poi partire con Gennarino verso una nuova vita. Stanco, lanciò al pennuto una manciata di semi sul tavolino sgombro e andò sul divano, tirandosi dietro il libro trovato nello scrigno della terra.

(…) Prima che il buio sia
Sole e lampada stelle e luna
E dopo dirotte piogge
Si riformino i nembi

E sia giorno di scompiglio
Per chi guarda la casa
E si affloscino i bravi
Che la forza reggeva
E le mugnaie rarificate
Disimparino a macinare
E le sbircianti nelle colombaie
La caligine invada

Le porte del mercato
Al cessare del suono della macina
Si chiudono
E il grido di un uccello
Fa trasalire
E le figlie del canto
Non sono udibili più

E l’altezza mette paura
Ti agguantano spaventi per la via
E il mandorlo è tutto bianco
S’intorpida la cavalletta
Il cappero resta inerte
E l’uomo se ne va
Alla sua casa fuori del tempo
Tra i piagnistei rituali
Delle donne nel sûk

Prima che il cavo argenteo sia rotto
E l’aureo globo sommerso
E la brocca s’infranga sulla fonte
E la ruota precipitando
Termini in fondo al pozzo
E sia il ritorno alla terra
Della polvere che lo fu
E torni al Dio che lo ha dato
Il soffio animatore

Fumo di fumi
dice il Qohélet
Polvere di polveri
tutto fumo
polvere (…)

Il cuore batteva forte, sentiva l’emozione per ciò che stava avvenendo, sembrava, guardando la cosa con distacco, e non era questo il momento, quasi un sogno. “Tutto è polvere, è proprio vero, se ce pensi Gennarì, ed io ne ho impastata di polvere, ne ho tirati su di palazzi, di case, di strade, de chiese, na volta pure na tomba, tutta polvere e acqua. E retorneremo a esse porvere. Pure tu! Nun te crede! Vale pure per le penne, sarai un mucchietto de porvere!” Scoppiò a ridere fino a perdersi in un riso amaro, per ritornare poi al pensiero del casale, Marco, Matteo, Pigi, Gabriele, Simone, Bruno, il Dottore, il Francese, il sarto con la famigliola, pensò a tutti quelli che attendevano di condividere il sogno, la speranza di riavere la seconda possibilità. E lui, Gregorio Gaetano Quaranta, credeva fermamente che l’opportunità avuta, per uscire dall’aridità dell’esistenza, non la meritasse più di qualcun altro. Continuò il suo pensare a voce alta,”ce stà porvere e porvere, quella che giace e viene calpestata e quella che se perde nel vento e vola, noi dobbiamo esse questa”. Tra pensieri polverosi prese sonno e la notte invece possesso della casa, tra il rumore del frigo in fondo al corridoio e la lenta goccia nel lavello, passò serena.

Fu Gennarino a svegliarlo il lunedì mattina, aveva preso a cantare e svolazzare nella stanza vuota. Gregorio s’alzò malvolentieri, imprecando, s’affacciò nella stanza, accecato dal chiarore cercò di scrutare, “a Gennarì che te piglia?” Guardò meglio, socchiuse gli occhi, con la mano sulla fronte,” ma che è stato? Il terremoto? Se è così non ho sentito niente, dormivo come un sasso! Anvedi tu, me devo mette a riparà pure stò pezzo mò, sempre all’urtimo minuto!”

Una porzione di muro, esattamente sotto al rattoppo che aveva fatto il giorno prima, era venuta giù.
Gregorio cercò il telefono per sapere che ora fosse, le sette e un quarto, “porca puttana è presto, Gennarì vieni qua, ce penso dopo a riparà il fatto, o vieni o te ne vai a cantà da n’artra parte, voglio dormì, sccccccchhhh, sccccccchhhh”, si rigirò tra i cuscini e tirò il lenzuolo fino alla testa.
Trascorse un’altra ora, Gennarino andò a svolazzare fuori, Gregorio s’alzò al suono della sveglia, questa volta meglio, andò in bagno, tagliò la barba, uscì una faccia più piccola di quella che ricordava, prese una crema idratante per schiaffeggiarsi con smorfie, l’odore del caffè entrò nel bagno, si preparò veloce per uscire a fare colazione. Non aveva molta scelta, finì per sorseggiare dalla sua tazzina nuovamente sulla soglia del salotto, sul fondo c’erano i detriti di quel crollo, lasciò sbattere la mano sul lato della gamba, “nnamo a vedè che è stato”. Riprese dal corridoio la tavola di legno e ridiscese sul fondo della stanza, per guardare più da vicino. “Ma comm’è che è venuto giù? È come se se fosse sfonnato, guarda qua, pure la terra sotto al tunnel è franata”, chino, iniziò a sbirciare nel buco nuovo, lo allargò togliendo delle zolle, risalì in casa per prendere torcia e cazzuola. Il muro al di sopra, quello rattoppato, era rimasto intatto. Ficcò la torcia, era grande abbastanza per entrarci, guardò l’ora, aveva ancora del tempo prima dell’appuntamento, esitò, per poi farsi coraggio, “ma si”, fece, “giusto un’altra sbirciatina, tante volte trovo il capo della radice e me metto in pace”, la voce riecheggiò nella stanza e finì ovattata tra le pareti brune del tunnel, i piedi scomparvero nel barlume. Percorse alcuni metri, aveva scavato lungamente, quasi si meravigliò di quanto lungo e snodato fosse, avanzava carponi, sostando ogni tanto per asciugare la fronte. Arrivato in fondo, si ricordò della facciata scura dove s’era fermato, non per mancanza di forze, ma per gli impegni. Prese a scavare con la cazzuola, speranzoso di poter raggiungere un principio, lavorava con grande energia, riportando la terra tolta verso i lati. Dall’altra parte, a metri di distanza il cancello della corte s’apriva per far passare il furgone e la betoniera, i vicini dalle finestre osservavano, erano rimasti in pochi, avevano tutti rincorso il sole per diradare le tenebre, incentivati a partire dallo Stato, ma le tenebre attenderanno e verrà l’inverno.

Donato era un uomo sulla quarantina, tratti gentili contornati da una folta barba nera, occhi piccoli a esprimere timidezza e calma, di poche parole, amava condurre mezzi pesanti, appunto era stato mandato a fare la gettata di cemento per la stanza di Gregorio. Il furgone invece era condotto da Pierpaolo, dinamico, reattivo, capace di organizzare una squadra di lavoro in pochi minuti. Erano stati coinvolti nel progetto Terra Nera da Gabriele, li aveva incontrati espressamente per parlargliene, certo, che le loro qualità umane e le loro esperienze, sarebbero state di grande aiuto. Avevano ricevuto istruzioni precise da Pigi e Marco e dallo stesso Gregorio, che aveva lasciato una copia delle chiavi, il lunedì mattina alle dieci, sarebbero entrati dalla corte, avrebbero individuato la finestra a cui accostare, riconoscendola per i due alberi accostati, un albicocco e un mandarino. Sarebbe stata aperta, così nel caso si fosse allontanato per gli ultimi preparativi, avrebbero comunque potuto svolgere il lavoro. Donato s’affacciò all’interno della stanza, era vuota, S’udì il colpo sul frigo, Pierpaolo entrò dall’ingresso, percorse il corridoio, vide i sacchi e il resto della roba stipata, entrò in cucina, il telefonino era sul tavolo, s’affacciò in bagno, nessuno. Andò verso il salotto e disse «è jut a se piglià nu cafè!» con il suo accento campano, «procedo?»  chiese l’altro, «vai pure và!» La betoniera srotolò la lunga proboscide nella finestra, iniziò a vomitare cemento, Pierpaolo prese a caricare i sacchi sul furgone, il piccoletto nell’attesa, accese una sigaretta e andò ad aiutarlo. Gregorio continuava ad allontanarsi scavando e scavando, sentiva sarebbe arrivato a qualcosa, non demordeva, quelle pareti di terra erano familiari, calde, accoglienti, piene di vita, e la speranza di capirci poi, non lo mollava, anzi, lo esortava a continuare, da perdere completamente la cognizione del tempo. Nel cortile i bambini giocavano a pallone, «rompeteme n’artra finestra me raccomando co’stò pallone», una voce di donna dal piano rialzato del palazzo di fronte. Come un fantasma, alle spalle di Donato, apparve Bilotti mascherato di nero, muto l’uno, silenzioso l’altro, guardavano il cemento riempire la stanza, Bilotti tentò pure di dire qualche cosa, ma l’altro non capì e rispose solo con un «sine», rimettendosi a fissare il vuoto.
Pierpaolo caricò i due alberi, c’era ancora posto nel furgone, aveva finito, li fece entrare senza problemi e senza perder frutto.

«Donà, quanto ti manca?»
«Che?»
«Quanto ti manca a finì?»
«Poco, tre, quattro minuti! Pecchè?»
«Ho finito, ho caricato tutto. U’mett’a fa nu’bell’cafè? Po’esse’che intanto ritorni Gregorio!»
«Si, bravo, ce vo’nu’bell’cafè come dici tu!»

La densa piscina grigia lievitava nella stanza, il segno del battiscopa s’avvicinava, Donato era molto attento a non sbagliare, doveva fermare il getto al momento giusto. Bilotti era sempre lì, una statua, il sole girava e presto quell’angolo di corte sarebbe stato in luce. Donato alzò una leva, il cemento smise di colare sgocciolando, ritirò la proboscide, ne chiuse l’estremità con una bocchetta e l’ancorò. Dallo squarcio della finestra s’udì «ù’cafè è pront’,viè, sennò se fà fridd’». Soddisfatto, lento tolse i guanti da lavoro, Bilotti s’animò, come per essere coinvolto, Donato annuì con la testa e sparì nell’accesso secondario del palazzo, l’altro rimase interdetto e muto. Il caldo preannunciava il solleone, il calore fibrillante saliva con le grida dei bambini, l’odore di cucinato e del bucato, sostenendo il volo a vela di Gennarino.

FINE