Un disastro sotto molti punti di vista

di Manlio Di Stefano

La guerra russa in Ucraina è un disastro da molti punti di vista. Innanzitutto, è ovvio, per le popolazioni che la stanno subendo. In secondo luogo, ma su una prospettiva più lunga, per la Russia. Poi per il mondo intero, a causa delle crisi (energetica e alimentare) che sta già innescando o aggravando. Poi per l’Europa, che ha perso, prima ancora di definirla, la sua bussola strategica. Poi per la Cina, che ha una necessità vitale di stabilità per continuare a svilupparsi a ritmi più elevati dei suoi concorrenti. 

Questa guerra, invece, non è affatto un disastro per gli Stati Uniti, che ne sono, per ora, i grandi vincitori: un regalo dei russi, che forse non rientrava nei calcoli dei dirigenti moscoviti prima del 24 febbraio.

Un’osservazione a carattere generale si impone prima di entrare nel dettaglio: la storia non insegna nulla. Non dovrebbe essere una sorpresa, ma è certamente una conferma: quando scoppia una guerra, non solo riscopriamo che, come esseri umani, “procediamo ancora a quattro zampe e che non siamo ancora usciti dall’era barbarica della nostra storia” (come scrisse Trotsky allo scoppio delle guerre balcaniche centodieci anni fa); ma ricadiamo anche, pavlovianamente, nell’atavico bisogno di cieco intruppamento sviluppato all’era delle caverne. La volontà di capire, quando c’è, viene sovrastata e schiacciata dal bisogno di schierarci, di fonderci acriticamente dietro l’opinione dominante. Recentemente, un giornale italiano solitamente uso ad analisi dotte e raffinate, se l’è presa con i “demagoghi della complessità”, cioè con coloro che, invece di tifare per gli uni o per gli altri, si danno la pena di scavare nella complessità della realtà per cercare di capirla. La tesi sarebbe che, in questo caso, la cosa non ha bisogno di essere scavata: ci sono gli aggressori e ci sono gli aggrediti, e quindi bisogna schierarsi senza remore né tentennamenti dalla parte degli aggrediti contro gli aggressori. Semplice, lineare, incontrovertibilmente umano. Peccato che quello stesso giornale, nel 2003, si fosse schierato con gli aggressori americani (e britannici, italiani, spagnoli etc.) contro gli aggrediti irakeni. Peccato che il mondo sia pieno di aggrediti che ci dimentichiamo di difendere e di sostenere. Peccato che, in Russia, l’enorme maggioranza della popolazione creda che gli ucraini siano gli aggressori e i russi gli aggrediti, e che questa “operazione militare speciale” sia un atto di autodifesa. Finché non si affronta la complessità, si è vittime della propaganda: vittime consenzienti, perché desiderose di stare dalla parte dei più quando il pericolo si avvicina, ma sempre vittime.

La geopolitica affronta la complessità. Che comincia, in questo caso, dalla ricerca delle ragioni stesse che hanno generato il conflitto: perché la Russia è intervenuta militarmente in Ucraina? Ovviamente, alcune delle giustificazioni che i circoli dirigenti moscoviti hanno propinato alla loro popolazione (la “de-nazificazione” dell’Ucraina; il rischio che Kyiv potesse rappresentare una minaccia militare – o perfino nucleare – per la Russia) non meritano neppure di essere confutate; altre (che l’Ucraina stesse scivolando sempre più verso una integrazione militare con la NATO, pur senza aderire alla NATO) erano sicuramente più fondate. Ma i russi non si sono mai chiesti perché “hanno perso” l’Ucraina, cioè, in altri termini, perché i circoli dirigenti ucraini abbiano sentito il bisogno di scivolare verso l’Europa e di farsi proteggere dalla NATO (essenzialmente, per essere precisi, da americani, britannici, polacchi e turchi). Se al Cremlino si fosse cercato di rispondere a questa domanda, forse non sarebbero stati commessi tutti gli errori di valutazione che hanno portato a una guerra che, per la Russia, è una catastrofe strategica.

Negli ultimi decenni, i russi hanno cercato di mantenere l’Ucraina nella loro sfera di influenza agitando la carota: le reciproche filiere produttive stabilite all’epoca sovietica, le comuni radici storico-culturali e il progetto dell’Unione eurasiatica, “componente essenziale della Grande Europa… da Lisbona a Vladivostok”, come scriveva Putin nell’ottobre del 2011; se vi avesse aderito, l’Ucraina “avrebbe potuto integrarsi in Europa più rapidamente e da una posizione più forte”. In altre parole: da sola, l’Ucraina sarebbe stata trattata dall’Europa peggio della Romania e della Bulgaria; insieme alla Russia, sarebbe stata accolta con gli onori dovuti a una grande potenza.

Solo che – e qui sta il nodo della questione – la Russia non è una grande potenza. Già nel 2014, lo stesso anno in cui l’Unione eurasiatica avrebbe dovuto materializzarsi, il suo PIL crollò, trascinata dallo scivolone dei prezzi di gas e petrolio, per poi tornare al livello di dieci anni prima solo nel 2020. Già nel 2014, per gli ucraini, scegliere tra un modesto prestito russo e un accordo di associazione all’Unione europea non aveva più senso (se mai lo avesse avuto): il presidente filorusso Viktor Yanukovyč scelse il prestito russo, e da lì nacque la rivolta di Maidan. A cui Mosca rispose tirando fuori il bastone: annettendo la Crimea e creando manu militari due repubblichette intagliate nella vecchia cintura della ruggine sovietica, il Donbass. Non occorrono grandi doti di penetrazione psicologica per capire che la Russia, aggressiva, grigia e sempre più asfittica, si era alienata di colpo gran parte delle simpatie che poteva ancora riscuotere in Ucraina, e che il nuovo regime a Kyiv avrebbe cercato protezione (economica, politica e militare) altrove. Non occorrono grandi doti di penetrazione psicologica per capire che, tra un blocco economico (Stati Uniti, Europa e Regno Unito) con un PIL combinato di quasi 40.000 miliardi di dollari (nel 2020) e la Russia, con un PIL di 1.500 miliardi (un po’ meno della Corea del Sud, un po’ più della Spagna), l’Ucraina preferisse intendersi col primo piuttosto che con la seconda.

Ma, in Russia (e non solo in Russia, a dire il vero), si continua a pensare che la forza armata possa sopperire a tutte le altre deficienze, riducendo le volontà più ostili a più miti consigli. D’altra parte, la carta bianca che i russi avevano ottenuto alla fine della Seconda Guerra mondiale nella gestione dell’Europa centrale e orientale li ha confortati in quella convinzione. Il problema, però, è che le cose non stanno così. La forza armata diventa fragilità armata se non è sostenuta dalla forza economica; e quando coloro che sono sottomessi se ne accorgono, la rivolta diventa inevitabile: tra il 1989 e il 1991, l’Unione sovietica lo sperimentò su tutta la sua sfera di influenza, interna ed esterna, e il suo arsenale militare elefantiaco non poté nulla per evitare il collasso. Anzi, ne fu la causa ultima.

Da un punto di vista geopolitico, la Russia è stretta in un circolo vizioso dal quale le è pressoché impossibile uscire: per potersi sviluppare economicamente deve conquistare l’accesso a mari navigabili tutto l’anno; ma, per conquistare, deve spendere risorse che non ha. Due volte, nel secolo scorso, un impegno militare superiore alle proprie possibilità ha provocato il collasso e la scomparsa del paese dai radar della politica internazionale. Questa considerazione, da sola, sarebbe dovuta bastare per frenare gli impulsi aggressivi di Mosca. E invece non è bastata.

Per poter giocare in una categoria che non è la sua, la Russia si serve dell’arte del bluff, trasmettendo al resto del mondo un’impressione di potenza. E vi riesce non solo grazie alla sua spropositata forza militare e alla sua sfuggente diplomazia, ora arcignamente minacciosa, ora melliflua e intrigante; ma soprattutto grazie al fatto – anche se i russi non lo riconosceranno mai – che quasi mai i suoi rivali vanno a vedere quali carte ha in mano, nella speranza di usare il bluff russo ai propri fini. Nei giorni precedenti l’invasione, l’imponente mobilitazione militare, una comunicazione volutamente equivoca, e le aperture di Francia, Germania, Cina e India avevano già garantito a Mosca una serie di risultati: innanzitutto, la Russia era di nuovo, prepotentemente, al centro del mondo – temuta, lusingata e, come sempre, usata; poi il controllo della Crimea e delle due repubblichette le sarebbe stato riconosciuto (de facto, anche se non de jure); infine la NATO, fortemente divisa, avrebbe molto probabilmente accettato (magari senza dirlo) di alleggerire la sua presenza alle frontiere dell’ex-URSS. 

Tutti gli analisti allora scettici sulla possibilità di un attacco (compreso chi scrive) si basavano su questa semplice constatazione: se la Russia invade, rischia non soltanto di perdere quello che ha, di fatto, già ottenuto, ma molto di più. Ma, evidentemente, le esigenze di Mosca presentate in forma di ultimatum nascondevano un obiettivo molto più ampio: riprendere il controllo di tutta o di una parte dell’Ucraina, come si poteva evincere cercando di spremere un senso coerente dalla confusa filippica televisiva di Putin del 21 febbraio. È chiaro che la resa incondizionata dell’Ucraina non poteva essere ottenuta al tavolo delle trattative; nemmeno i due paesi NATO (Francia, Germania) più aperturisti verso le esigenze di Mosca lo avrebbero consentito. L’azione militare diventava quindi il solo ricorso possibile.

Ma non è perché gli obiettivi sono più ambiziosi, e perseguiti sulla punta delle baionette, che le deficienze di partenza spariscono. Anzi. Questa volta, la reazione internazionale ha imposto ai russi di mostrare le carte; e, come capita al tavolo del poker, quando non si ha nulla o molto poco in mano, si perde l’intera posta. Con la sua iniziativa, Mosca ha ottenuto una lunga serie di risultati opposti a quelli che si era, almeno a parole, prefissata: ha creato in Ucraina una coesione nazionale fin qui inesistente, perdendo gran parte dei suoi residui sostegni tra la popolazione russofona; ha riunificato e rinvigorito la NATO, data per cerebralmente morta da Emmanuel Macron un paio d’anni fa; ne ha accresciuto la popolarità in tutta Europa; ha spinto due paesi (Finlandia e Svezia) a volervi aderire; ha provocato un’impennata della sua presenza militare ai confini dell’ex URSS; ha permesso alla Germania di accelerare il suo riarmo; ha indotto l’apertura di un dibattito sulle armi nucleari in Giappone; si è alienata non poche simpatie in Cina, in Iran e in India (anche se cinesi, iraniani e indiani non lo possono dire apertamente); ha messo in allarme la Turchia; e, infine, è stata massicciamente condannata dall’Assemblea generale dell’ONU (141 a favore, 4 contro e 35 astenuti). Senza dimenticare, ovviamente, la salva di sanzioni estremamente dure che, innestandosi su un’economia estremamente fragile, ne mettono a repentaglio la stabilità; e forse la sua stessa esistenza, nel caso in cui gli europei riuscissero (anche a medio termine) a emanciparsi dalle forniture energetiche russe. A tutto ciò si aggiunge, last but not least, la prova sul terreno di una pochezza militare imbarazzante e di una catena di comando arrugginita e corrotta, che svalorizza di colpo tutto il bluff degli armamenti, presunta colonna portante dell’illusoria potenza russa.

I veri – e unici – vincitori di questa guerra, si diceva, sono gli Stati Uniti, almeno allo stadio attuale del conflitto (fine aprile). Se si parte dal postulato che Washington ha fatto, fa e farà sempre il possibile per tenere separati gli europei dai russi, molte tessere del puzzle vanno al loro posto: l’allargamento della NATO a est; l’ipotesi di far entrare nell’Alleanza atlantica la Georgia e l’Ucraina; la drammatizzazione della minaccia russa allo scopo di compattare gli europei dietro alle posizioni americane. Grazie alla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti hanno di colpo riacquistato un’influenza internazionale che si andava affievolendo da decenni: obbligando la Francia a rimettere in ghiacciaia i sogni di “indipendenza europea”; ottenendo dai suoi alleati quell’impegno militare accresciuto che chiedevano, inutilmente, da anni; acquistando nuovi preziosi alleati sul fronte del Baltico; appaltando l’Unione europea ai falchi anti-russi; riavvicinandosi alla Turchia dopo un paio di decenni di freddezza; accrescendo la loro importanza sul fronte del Pacifico e dell’Asia orientale in generale; potendo infine contare sulle nuove inevitabili frizioni tra cinesi (e iraniani) e russi.

I cinesi sono scontenti (eufemismo) non solo perché i russi si sono mostrati inaffidabili (questo lo hanno sempre saputo), ma per l’impennata dei prezzi delle materie prime che appesantisce la loro bolletta energetica, e soprattutto perché, da buoni investitori, prediligono la stabilità e l’ordine. Se poi fosse vero che Putin, nella sua visita a Xi Jinping per le Olimpiadi, avesse davvero mancato di avvertirlo di quello che stava per succedere, il risentimento (eufemismo) non potrebbe che esserne moltiplicato. Tanto più che, se l’obiettivo tattico comune di Mosca e Pechino è l’indebolimento degli Stati Uniti, questa guerra li sta invece rafforzando. A Teheran sono scontenti perché la guerra ha bloccato la firma di un nuovo accordo sul nucleare, di cui l’Iran ha disperatamente bisogno (come pure i consumatori di energie fossili, visto che una ripresa delle esportazioni iraniane potrebbe calmierare i prezzi a livello mondiale).

Dal loro punto di vista, gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a che questa guerra continui, possibilmente a bassa intensità. Ma, per quanti vantaggi porti, non è pensabile che possa invertire di colpo e definitivamente l’erosione della loro influenza, dovuta a decenni di declino relativo. La Cina non rinuncerà ai suoi obiettivi strategici, né l’Europa ai suoi: il fronte anti-russo sul Vecchio Continente dipende strettamente dalle contingenze belliche in Ucraina, e quindi è provvisorio. Le vittorie elettorali di due amici della Russia come Victor Orbán e Aleksandar Vučić segnalano che le popolazioni ungherese e serba non si sono fatte influenzare dall’invasione dell’Ucraina; e l’esplicita dissociazione del cancelliere austriaco Karl Nehammer dalle possibili sanzioni sul gas russo, seguita da una visita a Mosca, potrebbe configurarsi come una prima crepa. In Francia, le linee di comunicazione con la Russia non si sono mai interrotte, e se Parigi trovasse il pretesto per riattivare la sua tradizionale strategia dell’attenzione nei confronti di Mosca, l’Italia e la Grecia si accoderebbero, e la Germania sarebbe costretta a scegliere tra l’atlantismo da una parte e, dall’altra, l’Europa (e il gas).

Ma la perdita di influenza americana degli ultimi decenni è un dato oggettivo, anche se Mosca vi sta parzialmente ponendo rimedio. Gli Stati Uniti, però, corrono un altro rischio, questa volta soggettivo: il rischio che, sull’onda del successo, possano strafare. Il bullismo nei confronti di Cina e India, a cui gli americani pretendono di dettare la condotta, non può che riconsolidare i legami, ora fortemente allentati, dei due paesi con la Russia. Peggio ancora: a Washington sono pochi a capire quanto preziosa la Russia sia – strategicamente – per la politica estera americana, per dividere l’Europa (come durante la guerra fredda) e per pesare, eventualmente, contro la Cina; e sono invece molti a credere che la Russia sia l’impero del Male, meritevole quindi di essere spazzata via una volta per tutte dalla carta geopolitica del mondo (trovando, in questo, alcuni convinti alleati in Europa). Se a Washington le considerazioni ideologiche ed emotive dovessero prevalere sui calcoli geopolitici, le conseguenze sulle relazioni internazionali – a breve e a più lungo termine – sarebbero incalcolabili, disastrose per tutti, ma molto di più per gli Stati Uniti stessi. 

In un mondo ideale, la geopolitica sarebbe inutile. Nel mondo reale, invece, percorso da incessanti e molteplici conflitti tra interessi, la geopolitica è indispensabile non soltanto per soddisfare il bisogno intellettuale di capire meglio, ma soprattutto per evitare di infliggersi da soli danni irreparabili. La geopolitica, infatti, scava nella complessità innanzitutto per individuare i limiti dell’azione, cioè gli ostacoli che si frappongono tra la volontà e l’esecuzione della volontà; cioè, per dirla in altri termini, quel che è possibile e quel che è impossibile fare o, meglio ancora, che è impossibile fare senza farsi del male inutilmente. La Russia ha la necessità di riconquistare l’impero se vuole aspirare a diventare una grande potenza; ma non può farlo, perché è stretta nel circolo vizioso di cui s’è detto, e non ne può uscire nel prevedibile futuro. Che sia per la Russia o chiunque altro, ogni tentativo di far prevalere aspirazioni ideologiche ed emotive sul calcolo geopolitico dei vincoli è una ricetta sicura per il disastro.