Un poeta per maestro

di Francesco Forlani

Insegnante, scrittore, fotografo, regista e come lui stesso tiene a sottolineare soprattutto “maestro” Luca Papini da sette anni lavora al Liceo Italiano Leonardo Da Vinci di Parigi.

Una scuola pubblica italiana in terra francese, che segue in tutto e per tutto il programma ministeriale italiano, che attira non solo un’utenza di expat ma anche famiglie francesi o di altre nazionalità (cileni, inglesi, scandinavi) affascinate dal modello pedagogico italiano.

Maestro Papini, quando è arrivato a Parigi? Come è stato il suo impatto con la città?

La prima volta che sono arrivato a Parigi è stato come studente Erasmus nel 1995, a 22 anni, iscritto presso la Facoltà di Storia alla Sorbonne Paris IV.

Stavo preparando la mia tesi sui flussi migratori degli italiani in Francia tra le due guerre mondiali e fu affascinante scoprire autori, scrittori e testi che avevano approfondito questo argomento dal lato francese. Il 1995 fu l’anno degli scioperi dei ferrovieri che bloccarono la Francia per più di un mese. Fu grazie a loro che iniziai a scoprire Parigi a piedi e ad adorarne le vie, le piazze e le soluzioni architettoniche innovative, come i giardini sospesi. Da qui nacque anche la mia passione per la fotografia, scoprendo i classici come Henry Cartier Bresson, e appassionandomi alle sovrapposizioni e agli scatti di architettura urbana. Temi che poi sono stati al centro della mostra Au-delà du visible, che ho avuto il piacere di inaugurare a settembre alla Mairie du 7ème. A conclusione di quell’anno di studi, mi promisi che un giorno ci sarei ritornato a lavorare, e per molto tempo quello è stato il mio sogno.

Un sogno che poi si è avverato.

Sì, nel 2015, dopo un concorso vinto presso il Ministero degli Affari Esteri, sono stato assegnato all’Istituto Statale Leonardo Da Vinci, come maestro.

La didattica francese e quella italiana sono molto differenti, può indicarci quali secondo lei sono i punti deboli ed i punti di forza di questi due modelli pedagogici?

Il modello francese è cartesiano, alla loro pedagogia dobbiamo le intuizioni di Rousseau e le sublimi pagine di Edgar Morin. È un sistema che, parafrasando un bellissimo libro di quest’ultimo autore, ha come obiettivo quello di costruire cittadini “con la testa ben fatta”.

Nel sistema francese abbiamo programmi dello Stato molto prescrittivi per il corpo docente, e l’autonomia di iniziativa dell’insegnante è limitata. D’altra parte, nella scuola primaria, ogni anno le classi sono rimescolate e i docenti cambiano, non potendo in questo modo seguire l’evoluzione negli apprendimenti degli alunni sul lungo periodo.

Il sistema italiano è plurale e sperimentale, perché si fonda su un approccio che cerca di unire a un testa ben fatta, un corpo desiderante di sapere e di scoperte, rivolgendosi quindi a quella pluralità di intelligenze multiple che ci sono nello studente, ivi compresa l’intelligenza emotiva o spirituale. 

Per fare questo la Costituzione italiana pone al centro il docente, le sue competenze, la sua formazione continua, accettandone le sperimentazioni e delegando al suo ruolo una responsabilità educativa centrale in tutto il processo di crescita della classe. Per questo motivo nella scuola primaria italiana, l’insegnante accompagna i processi di apprendimento in un quinquennio. Questo sistema ha il vantaggio di aiutare i percorsi di crescita anche dei bambini con bisogni educativi speciali, modulando il programma sui loro vari progressi, attraverso una progettazione sempre più individualizzata.

Lei ha scritto diversi articoli pedagogici, è stato inviato come relatore a conferenze nazionali sull’educazione ed è periodicamente invitato presso le Università a tenere corsi rispetto alla sua didattica. In cosa consiste brevemente il suo metodo?

Sono stato invitato a convegni, conferenze e lezioni aperte, a seguito dei progetti che ho realizzato con le classi.

Lo scorso anno, in piena pandemia, ho realizzato un lavoro sui 700 anni della morte di Dante Alighieri, con una classe seconda. Un lavoro che ha destato l’interesse della Facoltà di Scienze della Formazione di Pisa, con cui ho tenuto una lezione aperta attraverso la piattaforma Teams, e che è stato omaggiato di un riconoscimento prezioso da parte del professor Carlo Ossola, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e presidente del “Comitato nazionale per i 700 anni della morte di Dante Alighieri”.

Ho costruito un libro game con una classe quinta e lo abbiamo presentato al Convegno Education2.zero, come prototipo di una ricerca su scrittura, democrazia e superamento delle difficoltà negli apprendimenti.

In questo sono d’accordo con Edgar Morin quando dice: “Il metodo non può che costituirsi nella ricerca. Qui bisogna accettare di camminare senza sentiero, di tracciare il sentiero nel cammino.”

Con i bambini la ricerca ha proprio questo di interessante: sono loro che la guidano verso i sentieri meno battuti, i territori da caccia di nuove scoperte didattiche. Il maestro deve suggerire e mimetizzarsi, deve rispondere con una domanda a una domanda, deve mostrare dove si dirige il riccio e la sua famiglia, raccontando la storia che essi sono portatori di buone novelle. Il mio metodo di lavoro muove dal particolare all’universale, in una prospettiva aperta che, come suggerisce Gardner, deve fare interagire tre elementi fondamentali: “il vero, il bello e il bene”. Verità, bellezza e idea del giusto, sono momenti costitutivi di ogni momento della quotidianità di una classe, non soltanto sul lato delle conoscenze, ma anche su quello delle esperienze dirette dei bambini nel campo delle relazioni tra pari. 

Honoré de Balzac diceva “Parigi è un vero e proprio oceano. Gettatevi la sonda, non ne conoscerete mai il fondo”. Quanto questa città influenza il suo lavoro?

Una volta fui invitato come poeta al Festival “Gabriel Aresti” che si svolgeva a Ea, nei Paesi Baschi, e quando mi chiesero cos’era per me la poesia, risposi che per me scrivere versi era come cercare l’insondabile, proprio come quando si getta una sonda nell’oceano di una classe: ne tracciamo il percorso tra le correnti marine e, negli abissi, non ne conosciamo mai l’approdo. Parigi è un po’ come Atlantide, una città sorprendente per chi insegna. Ciò che c’è può scomparire, trasformarsi, risorgere. Attraversi le sue strade, i suoi giardini così curati, le piazze, e incontri la storia del mondo, dal giurassico ai giorni nostri. è una città che regala ai bambini spazi inusuali per giocare all’aria aperta, e poi recinta alcune aree verdi per restituirle al ritmo della natura, e dove prima c’erano bambini che correvano, trovi pecore e montoni che brucano l’erba per fare riposare i prati. A volte vorrei avere le sette vite dei gatti per visitare tutte le possibilità che Parigi offre, ma devo accontentarmi di questa che mi resta e di guardarla dai tetti, proprio come un gatto.

Ha pubblicato libri di narrativa, poesia e libri game per bambini. Ha realizzato cortometraggi, l’ultimo su “Santa Giulia” con il Comune di Livorno dedicato alla tematica della violenza contro le donne e recentemente ha esposto le sue fotografie nella sua prima mostra personale a Parigi alla Mairie du 7ème. Quali tra questi diversi mezzi di espressione le assomiglia di più?

La scrittura, la fotografia e il video integrano quotidianamente la mia didattica. Con la parola c’è la narrazione, con la fotografia la memoria, con il video il percorso, l’attraversabile. Assistiamo in questi ultimi anni a un cambiamento profondo della scuola, un ambiente di apprendimento collettivo che viene completamente trasfigurato dalla pandemia nel luogo dell’atomizzazione, della singolarità e dello spaesamento individuale. Occorre dare valore al collettivo, al solidale e all’agire insieme. Non è mai bastato aprire una pagina di un libro e lavorare sui nozionismi, neanche nel passato recente. A maggior ragione oggi per aiutare lo sviluppo di tutte le potenzialità dell’individuo, occorre prendersi cura di quella che Naranjo chiama “capacità di amare”, dobbiamo cioè ampliare il curricolo con il contributo che ci è dato dalle tecniche di drammatizzazione e di espressione per lo sviluppo della vita emozionale di ciascuno. Ecco perché è importante fare interagire tutti i saperi, anche quelli artistici, all’interno di un percorso educativo dove l’individuo si fa collettività e cittadino consapevole, prima di tutto dei propri desideri, della propria stima, dell’autoconoscenza, della sperimentazione del vero, del bello e del giusto. 

Questo numero di Focus In è dedicato alla sua città natale, Livorno, una città conosciuta per la sua schiettezza e veracità. Che cosa ha portato in valigia della sua città?

In valigia ho messo alcuni disegni di Modigliani fatti dai bambini dell’ultima classe che ho lasciato a Livorno, e “il mare come materiale, le sue musiche…i frantumi – contro murate e scogliere – delle sue euforie…”.