Vedi Cagliari e poi?

di Stefano Zangrando

 

Vedi Cagliari e poi? Non è una citazione facilona o sbagliata. Non se uno proviene dall’Alto Adige e ha cercato per anni il suo côté mediterraneo in altre regioni italiane del sud, continentali e non, senza risultato.

 

Ricordo molto bene la prima volta in cui ci misi piede, all’inizio di un gennaio, con mio figlio, uscendo dalla cabina dell’aereo. Inspirai e, colmo di una nostalgia dolcissima perché tutt’a un tratto appagata, dissi al bimbo di dieci anni accanto a me, che già fremeva per vedere i suoi idoli del pallone in trasferta alla Sardegna Arena: “Senti che aria!” e “Guarda che luce!”.

Avevo due ottime ragioni, calcio a parte, per essere lì: una donna che avevo amato da poco e un editore che, più o meno nello stesso periodo, mi aveva cooptato. Lei, che qui chiamerò Stella, era ritornata di recente da Berlino a Cagliari dopo diversi anni e abitava in pieno centro, mentre la sede dell’editore era in un certo viale Bonaria; il nostro b&b invece era situato nel quartiere di Marina. Può darsi che nella prima aria che inspirai, mescolate alla salsedine, ci fossero microparticelle dello stesso elicriso di cui Stella un paio di mesi prima mi aveva donato, a mo’ di essenza sarda e souvenir, un rametto secco e ricurvo. Non posso escluderlo. Ma certe risposte ai propri interrogativi segreti non si spiegano, si vivono e basta.

Di Cagliari stupisce innanzitutto la varietà del paesaggio urbano, frutto non solo della stratificazione storica dei molti dominî stranieri sull’isola, ma anche della capacità dei cagliaritani di preservarla. Il treno che dall’aeroporto porta alla stazione cittadina ti scarica a due passi da un viale umbertino che subito ti ricorda chi qui regnava tra fine Ottocento e il primo Novecento. Via Roma, così si chiama, è un asse via via più moderno che separa la zona portuale da Marina, il labirintico quartiere dei pescatori fondato dai pisani otto secoli fa. Da qui, se pieghi ad ovest finisci di nuovo nel secolo decimonono, dove largo Carlo Felice risale e culmina in piazza Yenne, che segna il confine con un altro quartiere plurisecolare, Stampace, storico ricettacolo di artigiani e artisti dove avrei alloggiato di lì a qualche mese per dedicarmi al libro da scrivere. Noi però quella volta dopo aver posato i bagagli risalimmo prima a nord-est, verso il Bastione di Saint Remy, una fortificazione di nuovo piemontese che segna a sua volta la propaggine sud del terzo e più importante spicchio storico del centro, il quartiere di Castello. Stella abitava proprio ai piedi del Bastione, non lontano da una strada che in pochiminuti conduceva alla quarta frazione storica, Villanova. Nei due giorni successivi ci stupimmo, mio figlio ed io, della diversità di tutti quei volti urbani e delle loro suggestioni: le antiche viuzze e le scalinate di Marina sature degli aromi delle trattorie; le alte mura dei palazzi di Castello, nella cui ombra giungemmo al museo archeologico come immersi in un passato immaginario, per poi lì contemplare incantato, mio figlio, i giganti di Monte Prama, o inquietato, io, dalle sinistre analogie novecentesce suggerite dalle mani votive di Santa Gilla; e poi le vie curate e luminose di Villanova, che a percorrerle in un mattino soleggiato d’inverno sono una promessa di felicità. Ed era solo il centro storico di una città il cui nucleo non superava i centocinquantamila abitanti! Il quartiere aragonese di Bonaria con la sua basilica, che in quei giorni tra Capodanno e l’Epifania di sera era illuminata da una modesta decorazione luminosa (ma rientravamo dallo stadio, avevamo ancora negli occhi la luce forte dei riflettori che avevano illuminato le star della serie A), non fu per noi che una mera appendice. Più toccante e profondo fu il mare invernale visto dalla spiaggia cittadina del Poetto, di fronte al quale mio figlio si diede a corse e salti irrefrenabili, mentre io ero trattenuto, oltre che dalla maturità, dalle cronache di questi anni che m’indicavano in quell’acqua troppi cadaveri umani.

Solo in seguito, quando a Cagliari ci ritornai da solo, con più calma e avendo già letto un paio di libri di Sergio Atzeni, iniziai a godermi la città quotidiana e i suoi abitanti. Non che Luca, che ci aveva ospitato nel suo b&b in Marina, non mi avesse trasmesso un senso vero di ospitalità, e ancor meno lo potrei dire di Stella e della sua cerchia, dove ho trovato affetto e amicizia che perdurano. Ma Cagliari, e la Sardegna con essa, ha dovuto prima mostrarmi altri lati, più discreti – la piccola spiaggia di Calamosca, la cordialità di un giovane cameriere a Stampace, i pescatori al mercato di San Benedetto, la loquacità di molti, la coscienza isolana di tutti e la violenza naturale che ho trovato nel su callu, lo stomaco di agnello pieno di caglio, o nella confidenza col cappone boccheggiante che l’ultima volta abbiamo provato a rianimare nell’acqua del porto, con speranza, prima che Stella lo sventrasse a mani nude per la cena – perché iniziassi ad amare davvero questa città. E oggi so che, da italiano di frontiera indaffarato col mondo tedesco, ho un luogo, nel sud della Sardegna, dove una parte di me si sente a casa.

Stefano Zangrando (Bolzano 1973). Vive fra il Trentino-Alto Adige e Berlino e ha da poco pubblicato Fratello minore. Sorte, amori e pagine di Peter B. con Arkadia editore di Cagliari.