Venezia: la consapevolezza della fine 

Testo Mirco Salvadori – Foto Stefano Gentile

La sua staticità inzuppa le vesti, rallenta il cammino, frena la passione e rende lucida la visione. La regina universalmente adorata, colei che si nutre di venerazione da cartolina, mi appare come un prezioso scrigno privo delle sue ricchezze, vuoto. Testardamente tento di sentirla ancora seducente, sorprendente, commovente ma è solo il ricordo che la preserva permettendomi di amarla in modo viscerale.

‘Sta tento, no sta mai camminar sul marmo dea riva. Ocio! Mai montar sui scaini dei canai pieni de alghe o coverti de fango. Prima de passar sotto i ampioni, varda in alto! No sta mai inoltrarte in paugo coa barca a remi, se ti becchi ea dosana de acqua ti te inciodi e no ti vien più fora fin al favente. Un intenso manuale le cui pagine sono state scritte da chi prima di me ha vissuto lungo queste fondamente, ha vogato affondando il remo in acque non ancora infestate di virulenta ignoranza. Mio padre, mia madre, i loro racconti. Amo visceralmente Venezia perché amo visceralmente i miei genitori che rappresentano l’essenza stessa di questo strano incerto conglomerato di isole con le loro costruzioni che sembrano galleggiare sull’acqua ma in realtà poggiano su milioni di pali in legno pronti a sbriciolarsi non appena il fango deciderà di sciogliere un abbraccio che dura da tempo remoto.

Sarà un silente viaggio nell’indefinito che solo sa preservare il profumo della bellezza e non permette alla vista di soffrire nella visione della decadenza. Sospendiamo quindi il tempo, permettiamo la magia dell’ubiquità e penetriamo lentamente, con dolcezza, nell’essenza dello sciabordio delle onde, unico rumore distinguibile sul bordo di quel canale da cui è bene star lontani, evitando di camminare lungo la pietra d’Istria che segna la fine del passo, l’inizio del tuffo.

I luoghi famosi non appartengono a coloro che vagano nell’indistinto lagunare. Hanno bisogno di respiro, di pausa, di lontananza, per difendersi dalla decomposizione. Devono rifugiarsi nel silenzio dell’isolamento, lo stesso che incontrastato ha regnato tempo addietro, in epoche di speranzosa lotta contro la tempesta virale. Un teoria di lunghe giornate in assenza di umanità che hanno permesso all’acqua dei rii, dei canali, dello stesso Bacino di San Marco, di trasformarsi in puro trasparente cristallo. Piazza San Marco e ogni altro angolo troppo calpestato di questa città, avrebbe bisogno della nostra distanza. Solo così potrebbe rinascere ad altra vita.

E’ l’onda satura di solido materiale di scarto

E’ la rissosa confusione incontinente

E’ l’ombroso agitarsi di un Canale da troppa meccanica stravolto

E’ l’angoscia nascosta nel canto delle sirene

E’ la pace dell’acqua che riposa sotto un ponte

E’ il silenzio, meraviglia dello spazio sempre in movimento

E’ Venezia, la mia consapevolezza della fine.

Ricordi… Ricordo l’immenso spazio racchiuso tra le mura dell’Arsenale, girovagando nei padiglioni che ancora odoravano di pece, cordami, sudore, legno giunto dai monti dell’abbandonato Cadore. Ricordo l’iniziale disorientamento nel veder esposte opere d’arte non rispettose della storia che le accoglieva e la successiva fascinosa immersione in un mondo scomparso che lasciava il posto ad una strana modernità. Non si esprimeva con la possente bellezza di una feroce flotta navale ma costruiva un linguaggio artistico capace di altrettanta maestria e furore. Ricordi… Ricordo il sorriso colmo di aspettative di colei che all’improvviso mi trascinava per mano a bordo della barca che fa la spola tra le due sponde, oltre le Gaggiandre, attraverso il bacino interno fino alla riva dell’Arsenale Novissimo. Il mio sguardo che cerca l’amato sottomarino posto come possente e arrugginita sentinella, a guardia della calma costante racchiusa tra le antiche mura. Si tocca terra all’ombra della Torre Di Porta Nova scontrandosi subito con la maestosità di altre “Sentinelle”, quelle di Beverly Pepper, enormi altissime testimoni che dialogano con “L’uomo che misura le nuvole” di Jean Fabre nello spazio Tethis, luogo di cultura artistica, disseminata lungo i vasti spazi incantati. Uscire poi confusi da quella magica esposizione e ritrovarsi improvvisamente sul limitare dell’infinito, accolti dall’immensità della Laguna che in lontananza culla le isole di Murano, Burano, Torcello. Solo una stretta passerella, un lunghissimo ponte ancorato alle mura esterne dell’Arsenale è l’unica via che permette la riconnessione all’intrico di calli e campielli che formano il sestiere di Castello, luogo stregato nel quale è imperativo perdersi.

Giorno e notte si alternano senza sosta, non esiste regola nell’essenza del ricordo, solo emozioni. Un distillato di immagini che conducono lungo calli sconosciute, campielli che non ti appartengono perché abitante di un universo opposto, situato dall’altra parte della città. Cannaregio, lì dove anche la pronuncia dialettale è diversa. Sottoportego de Corte Nova o della Peste, un piccolo sottopassaggio rivestito in legno che conserva al centro della pavimentazione una pietra rossa. Ricordi… Ricordo quando da scuola si andava verso la sede della Federazione Comunista, negli anni 70. Una volta giunti davanti a questo passaggio era tutto uno spingersi per lanciare il prescelto sopra quella pietra che porta male assai se calpestata. Eravamo ribelli miscredenti, sapevamo che, durante la peste del 1630, la morte non era riuscita a oltrepassare quella rossa barriera lasciando in vita tutte le famiglie che vivevano nel campiello adiacente. Dovevamo rompere gli schemi, le credenze, calpestando una pietra rossa che tutti evitavano. Così come dovevamo occupare la scuola che si trovava a poca distanza, l’Istituto Tecnico Statale Paolo Sarpi, rifugio per futuri ragionieri e ragazzi che di calcolo non capivano nulla e sceglievano quell’edificio come ultimo rifugio nel quale trascorrere le proprie giornate lontano dagli odiati – di default, si direbbe ora – genitori. Sei Minimo Garantito! era lo slogan urlato a squarciagola dalle finestre delle classi verso la Laguna che silente lambiva il canale a pochi metri di distanza.

Una stretta e lunghissima calle conduce nuovamente allo spazio aperto. Si cammina lungo le rive delle Fondamente Nove, un percorso di circa un chilometro che  permette di oltrepassare il confine invisibile tra Castello e Cannaregio. La vista è rapita dall’Isola di San Michele, l’isola dei morti che lentamente galleggia con il suo carico di anime sospese tra l’infinito e l’acqua. Ma è altro che ora attiva il ricordo. Sono quei portoni verso la fine delle fondamente, il buio che li nascondeva ai pochissimi passanti, il piacere ancora sconosciuto dei primi baci scambiati con colei che pensavi sarebbe rimasta per sempre al tuo fianco, riempiendo di patchouli anche gli angoli più remoti dei tuoi pensieri. Tutto va a rilento qui a Venezia, anche crescere rendendosi conto che il buio di un portone non può celare per sempre la vitalità di un profondo respiro, quando la gioventù pian piano si disfa trasformandosi in maturità.

Ricordi… Ricordo notti trascorse nei bar di Campo Santa Margherita, seduto sulla riva di Rio Marin mentre dai Postali continuavano ad uscire spritz. Ricordo i gradini del Teatro La Fenice, immerso  nella variegata fauna umana che si riconosceva come: dark, punk, new wave, mod. Ricordo Pier Vitttorio Tondelli che girava ponendo domande ai componenti di una famosa band nata e morta a Venezia. Ricordo il Muro aperto fino all’alba, vicino Campo San Luca. Il New Life in Lista di Spagna, una delle pochissime e ultime discoteche della città. Ricordo che la vita pulsava negli anni 80, forse per l’ultima volta. Ricordo la stretta calle Amor dei Amici vicino a Campo San Polo, uno dei luoghi che celano i vari passaggi verso altre dimensioni presenti nella città lagunare. Giungevamo a notte fonda fermandoci sugli scalini che si immergevano nel rio e ci lanciavamo nell’altra dimensione stretti uno all’altra, in una danza fisica che si rifletteva sull’immobilità dell’acqua. Ricordo mio padre, i sui racconti di tuffi dal Ponte delle Guglie, le gare tra chi era piú bravo e ardito nell’infilarsi come un fuso nella perfetta immobilitá dell’acqua. Guardo ora l’affascinante staticitá del Canal Grande nella notte che lo fa rinascere e riesco a percepire il suono prodotto da quel tuffo e il coro di ammirazione che si levava alto dalla fondamenta gremita di ragazzi pronti a tuffarsi nella vita. Ricordo mia madre sfuggita alla guerra, alle persecuzioni, rifiorita e ancora giovane mentre chiama mia nonna dalla strada, fin su su al terzo piano di un edificio che condivide la sua altezza con la sinagoga Spagnola, nel Ghetto Vecchio. Mama butìme un ago da fio! Come fasso, fia mia! Cussì ti eo perdi! Mama impirìo su un panin! Eccomi giunto, sono a casa. La casa dei miei, un luogo che in cinquecento anni di storia ha vissuto atrocità e bellezza, il Ghetto di Venezia che porta ancora i segni dei cardini sulle colonne d’entrata. Seduto sulla panchina di marmo in Gheto Novo  guardo la vecchia Casa di Riposo Israelitica, mi sforzo nel ricordare quante bisnonne e prozie sono riuscito a conoscere prima della loro dipartita, rivedo mio padre giocare a calcio e mia madre intenta a chiacchierare con le sue piccole amiche. In lontananza sento il brusio del Bar Sessola e il profumo dei dolci di Pesach appena usciti dal forno. Mi guardo intorno e la vedo, sta venendo verso me con tutta la sua inimmaginabile intensità e bellezza, con tutto il suo dolore e la sua disperazione. 

Venezia si sta consumando ma rinascerá silenziosamente libera, priva di errabonda umanitá. 

Beati coloro che potranno goderla sottostando alle sue regole.

Di lunghe vesti e sacri filamenti si avvolge l’ombra celata.

Mi accoglie, invisibile, all’entrata del passato e sceglie il percorso dei miei ricordi.

Soffia sulla polvere compatta dei muri sgretolati, quelle pareti di mattoni rossi, un tempo mio territorio di gioco.

Scivola dentro sacri portali umidi di irrinunciabili regole, dietro antichi banchi che continuano a nascondermi al mondo dei grandi.

Si sofferma sulla placca rilucente il nome di chi ho perduto, unica voce di canto possente nel culmine del salmo.

Raggiunge gli altissimi tetti, solo per farsi seguire lungo scale infinite, da sempre ripide di legno e scricchiolii.

Esce al fine, immersa nel lamento insopportabile di una città morente.

Un ultimo sussurro prima di svanire: !זכור … ricorda!

CAMPO DE GHETTO

Di lunghe vesti e sacri filamenti 

si avvolge l’ombra celata.

Mi accoglie, invisibile, all’entrata del passato

e sceglie il percorso dei miei ricordi.

Soffia sulla polvere compatta dei muri sgretolati

quelle pareti di mattoni rossi, un tempo mio territorio di gioco.

Scivola dentro sacri portali umidi di irrinunciabili regole,

dietro antichi banchi che continuano a nascondermi al mondo dei grandi.

Si sofferma sulla placca rilucente il nome di chi ho perduto,

mia unica voce di canto possente nel culmine del salmo.

Raggiunge gli altissimi tetti,

solo per farsi seguire lungo scale infinite, da sempre ripide di legno e scricchiolii.

Esce al fine, immersa nel lamento insopportabile di una città morente.

Un ultimo sussurro prima di svanire: !זכור … ricorda!

CAMPO DE GHETTO

Di lunghe vesti e sacri filamenti 

si avvolge l’ombra celata.

Mi accoglie, invisibile, all’entrata del passato

e sceglie il percorso dei miei ricordi.

Soffia sulla polvere compatta dei muri sgretolati

quelle pareti di mattoni rossi, un tempo mio territorio di gioco.

Scivola dentro sacri portali umidi di irrinunciabili regole,

dietro antichi banchi che continuano a nascondermi al mondo dei grandi.

Si sofferma sulla placca rilucente il nome di chi ho perduto,

mia unica voce di canto possente nel culmine del salmo.

Raggiunge gli altissimi tetti,

solo per farsi seguire lungo scale infinite, da sempre ripide di legno e scricchiolii.

Esce al fine, immersa nel lamento insopportabile di una città morente.

Un ultimo sussurro prima di svanire: !זכור … ricorda!