VENTESIMO EPISODIO

La piccola stanza ortofrutticola era ben organizzata per ottimizzare la produzione, piccole aiuole che contenevano tutto: aglio, lattuga, patate, cipollotti, ravanelli, lattuga, spinaci, melanzane, verza, fave, fagioli, zucchine, cicoria, carote, erba cipollina, prezzemolo, timo, rosmarino, asparagi, fragole e more. Dopo il mandarino cresciuto per disattenzione e le zucchine piantate per esperimento, tutto il resto è stato scelto accuratamente da Gregorio, tanto che nel quartiere si vociferava sulla sua stranezza, quando lo incontravano a far la spesa dal fruttarolo, lo trovavano ad accarezzare, picchiettare, osservare meticolosamente e con amore verdure e ortaggi che sceglieva, anche il signor Pino gli aveva detto:

«A Gregò e che c’ha dovemo sposà sta verdura? E po’ co sto covidde nun te puoi liscià tutta a merce, che glie dico io ai clienti?»

«C’avete ragione sor Pì», – rispose – «ma manco me posso piglià a’ roba moscia»

Stava per finire male, se non fosse stato per Arrigo, un vecchio amico di Gregorio, che con una scusa riuscì ad allontanarlo, lasciando cadere la questione. Tutto ciò a detta di Bilotti, che ancora non parlava ma sentiva tutto e riportava tutto, meglio di una telescrivente.

Nel suo sempre più monastico isolamento, Gregorio passava ore a piantare, raccogliere, curare, e quando poteva scavava, alla ricerca del principio della radice, non badando alle chiacchiere del vicinato, ormai da settimane si parlava del deconfinamento e di come avrebbero festeggiato, ma queste erano cose che forse avrebbero interessato il vecchio Gregorio, il nuovo, era deciso a continuare il progetto dei bisognosi con i prodotti del gregorto così aveva battezzato quel quadrato di terra nera . La data del 04 maggio alimentava in Gregorio, la certezza che i suoi simili, si sarebbero lasciati andare in un dionisiaco banchetto, in cui la paura di morire avrebbe ceduto il passo alla gioia di vivere, gli italiani poi, popolo indomito, avrebbero invaso l’estate con un timido precauzionale passo, che avrebbe grandemente incasinato questa storia del virus, e per cosa? Per non aver saputo intelligentemente attendere, qui non si tratta di bambini, ma di adulti. “Ogni cosa a suo tempo” – ripeteva – “ogni cosa a suo tempo, dice bene il libro”:

(…) Tutto ha sotto il cielo una sua ora
Un tempo suo

Il tempo di nascere
e il tempo di morire

Il tempo di piantare
e il tempo di spiantare

Il tempo di uccidere
e il tempo di curare

Il tempo di demolire
e il tempo di costruire

Il tempo delle lacrime
e il tempo delle risa

Il tempo dei gemiti
e il tempo dei balli

Il tempo delle pietre scagliate
e il tempo delle pietre raccolte

Il tempo delle braccia abbracciate
e il tempo delle bracci lontane

Il tempo del cercarsi
e il tempo del lasciarsi

Il tempo di tenere
e il tempo di gettare

Il tempo di lacerare
e il tempo di ricucire

Il tempo di tacere
e il tempo di parlare

Il tempo di amare
e il tempo di odiare

Il tempo della guerra
e il tempo della pace (…)

Lo scavo alla ricerca della radice era giunto da qualche giorno alla parete e aveva iniziato a toglierne i mattoni, la strana appendice si ficcava tra questi e scompariva,”sta storia è assurda, ma come po’esse mai, da ndò arriva vorrei sapè?” Scavava e parlava, quasi fosse un mantra, incredulo e caparbio, “se continua così  qui arriviamo in Brasile a forza di rincorrerla, e faccio contento pure te Gennarì che te ne ritorni a casa”, il pappagallo a volte pareva quasi lo capisse.  Mentre  parlava, lo strato di mattoni era venuto facilmente via, ma non era questo a inquietarlo, piuttosto, il fatto che la radice continuava. Se fino ad ora c’era stata una trincea nel mezzo della stanza, si prospettava una bella galleria nel muro, ma fino a dove si sarebbe spinto? Si domandava continuando a scavare, scavò tutto il pomeriggio, era molto più faticoso della trincea, si sentiva un minatore, in quell’abbozzo di cunicolo. In maniera ingegnosa aveva posato una tavola di legno lungo la lunghezza del fosso, per aiutarsi a percorrere più velocemente la distanza che si creava con la stanza, per depositare la terra di diporto. “Questo è l’ultimo secchio Gennarì, nun c’a faccio più, stasera devo pure annà in consegna”. Così fu, il tempo di riposarsi e rifocillarsi con un pasto fugace, preparò le porzioni di raccolto da distribuire in giro quella notte, aveva barattato con er Killer una scatola di sacchetti di carta con una cassetta di raccolto, pomodori, patate, zucchine, melanzane, ravanelli e una barchetta di fragole, tutto meravigliosamente invitante. In questo tempo di difficoltà generale, attraverso la rete dei commercianti del quartiere, Greg aveva creato un sistema di scambio, lui portava il suo raccolto, gli altri ciò che più gli occorreva, aveva diversificato l’uso della sua produzione, la donava, la scambiava e ultimamente aveva preso anche a venderla, era girata voce che la sua frutta e verdura fosse buonissima e così timidamente le signore iniziarono a bussare alla sua porta, una cassetta mista delle primizie del raccolto veniva 20euro, ed era ricca di tutto, genuina, perché non utilizzava nulla eccetto l’acqua. Il vicinato aveva riscoperto il gusto delle cose, persino i bambini amavano mangiare la frutta e la verdura, Gregorio si era creato un piccolo sistema economico per pagare tutti quelli che non avrebbero potuto accettare la sua cassetta come moneta, sai che risate andare alla compagnia dell’elettricità, posare una sporta di verdura e dire: «questo è per il mio consumo di elettricità», l’avrebbero rinchiuso subito.

Si era procurato una bici e c’aveva messo un carrello a traino con cui avrebbe trasportato la merce, con i vari sacchetti ben disposti, si avviò in direzione del fiume, era adrenalinicamente emozionato, era pur sempre un mondo a lui sconosciuto quello dei senza fissa dimora. Prese Via Mameli, per andare poi in direzione di Via di Porta Portese e giungere al Lungotevere Portuense così da andare lungo il fiume. Non c’era nessuno per strada, qualche gatto e qualche ratto a smuovere sacchetti abbandonati, un’aria frizzante lasciava sperare in tempi migliori. Accostò, diede un’occhiata al carico, bevve, poi tirò fuori dalla tasca un lettore con delle cuffie, le indossò per ripartire accompagnato, era bello avere una colonna sonora, una città gelosa di segreti e di storia, gli spalancava le braccia, pronta a farsi scoprire, attraverso la voce di chi di giorno tace, perché invisibile, coloro che abitano spazi interstiziali a ridosso delle tangenziali o su una sponda di fiume, chi ha per casa un vecchio cartone di frigorifero, chi osserva le finestre della case spegnersi alla sera immaginando le vite degli altri, chi si ammala e muore nel silenzio e nella solitudine, chi ha perso l’abitudine di alzarsi a guardare il cielo, perché piegato dal troppo peso sulle spalle. Gregorio idealizzava tutto ciò, in attesa di poterlo conoscere, vide una volante della polizia, girò subito in un vicolo, non voleva avere niente a che fare con loro, in generale è sempre meglio non aver a che fare con uomini in divisa, non gli piacevano e forse lui non piaceva a loro, li aveva evitati, anche se in tasca aveva l’autocertificazione con barrato: situazione di necessità, ma vallo a spiegare agli sbirri, di certo avrebbero vanificato l’uscita con questioni inutili. Era ormai all’altezza del Ponte Sublicio, prese la banchina e tirò dritto alla ricerca di qualcuno in quel tratto poco illuminato, vide un uomo seduto sulla sponda, gli si accostò, tolse le cuffie:
«Ciao, buonasera, senti io c’ho una piccola azienda di verdura e frutta, la sera mi avanza sempre qualche cassetta, ti dispiace se ti lascio qualche cosa, è tutta roba bona eh, ta puoi cucinà, ci so patate, ravanelli, spinaci, melanzane, pomodori»

«Non ho capito, me stai a regalà della verdura?»

«Si perché ti sembra strano?»

«Nessuno ti regala qualcosa così? Senza nemmeno averla elemosinata»

«Ma io so contento di potè lascià qualcosa a chi è meno fortunato di me»

«Mica sei un prete? Io non li sopporto quelli, predicano e predicano e poi si girano per strada quanno glie chiedi quarcosa, boni loro, che non sanno nemmeno riconosce un cristo»

«No, no, ma che prete e prete, so muratore, ex muratore, ho perso quasi tutto con sto virus, per questo quel poco che ho, lo voglio condividere con chi è più simile a me»

«Ma che ne sai tu, di perde tutto, io so 40 anni che vivo per strada, e sinceramente alle favole nun c’ho mai creduto»

«Come ti sei ritrovato a vive pe strada?»

«Tutto è stato quando sono scappato dar mi vecchio che me menava tutte le sere quando rientrava, così ho scerto e me ne sono andato, ho imparato mille mestieri, so stato pur’io operaio, magazziniere, gruista, commesso,  poi me so rotto de fa quello che per gli altri è giusto e così mi sono lasciato all’elemosina, mi sento libero, gli altri non stanno meglio, credono di essere liberi perché c’hanno a macchina, quando poi non possono lasciare il paese per più di tre settimane l’anno, se so fortunati, questa non è libertà, forse manco a mia, ma a loro mi fa pena»

«E c’hai ragione, prendi me, è arrivato sto covid e me so ritrovato con uno stronzo di capo e senza lavoro, anche io cerco la libertà e st’occasione non va sciupata. E dimmi un po’, come so gli artri qui da a zona? So tranquilli?»

«Ma chi dici? I barboni? Si, so tutti tranquilli. Più avanti lì, dopo il lampione ci trovi Gaetano il dottore, il nostro medico, quanno c’è un problema de salute annamo tutt da lui, si prende qualche moneta per la visita, tiene tutto, il lettino, l’apparecchio pa  a pressione, ti tira pure i denti se hai bisogno, sull’altro lato ce sta Jean Pierre, il francese, quello è un po’ pazzo e puzza, ma se lo prendi con la luna diritta pare normale»

«Vabbè allora io continuo il mio giro, ho altri sacchetti da dare vado a vedè un po come butta, ripasso tra qualche giorno per portarti altro, tu stai qui?»

«Si me trovi qui, o vedi quello scatolo alto, lì sto io, senti ma che c’hai pure er vino?»

«No il vino no ce l’ho»

«Ah vabbè, era giusto per, e grazie per il sacchetto, se vedemo»

«Ciao, ah a proposito: come ti chiami?»

«Bruno»

«Piacere Brù io so Gregorio, ce se vede allora»

Entrò nei pensieri spingendo la bici e il suo carrello oltre nel buio, verso la tenda del medico, “la strade è dura, c’è chi la sceglie e chi no, che storie,” arrivò alla tenda, dei piedi uscivano dall’ingresso:

«C’è qualcuno? Chiese Gregorio per rompere il silenzio»

«Per le visite domani, ho smesso mò!»

«Non sono qui per una visita»

«E allora che vuoi?»

«Voglio lasciarti un sacchetto di verdure del mio orto»

«Ah, bone, aspè che esco»

«Ed eccolo il medico, con la sua folta barba e il cappello da marinaio sui riccioli bianchi che cadevano sulle spalle, occhi scuri e profondi, occhi buoni appena illuminati dalla fioca luce del lampione»

«Tu devi esse er dottore, mi manda Bruno»

«E tu chi ssei?»

«Mi chiamo Gregorio e sono un ex-operaio che ha perso tutto con la storia di questo virus maledetto»

«Stamme a sentì a me Gregò, qui non ce ne usciamo più, nun sta a crede a tutte le fregnacce che dicono i politici e la ggente, il locchedaun, il deconfinamento, sto virus prima o poi ce incula a tutti, ricchi e poveri, tutti sulla stessa linea stemo»

«Ce sta da dì che solo questo ce voleva in Italia, il presepe già era bello»

«Proprio per le fregnacce Gregò, me so ritrovato a stà pe strada, prima ero infermiere, poi con la scusa dei conti in rosso dell’ospedale, e dei tagli, m’hanno licenziato, ho fatto pure la disoccupazione, due lire m’hanno dato, ho cercato in altri ospedali, ma nun ce stato verso di trovà un posto, così m’arrabbatto pe strada, la mattina inizio presto con le visite, faccio pausa a mezzogiorno e alle due riprendo fino a sera. È  così che tiro avanti, e so contento di aiutà er prossimo. Che ce stà de meglio no?»

«Proprio vero, che ce stà de meglio. Come te chiami?»

«Tutti qui me chiamano il dottore, ma il mio vero nome è Gaetano»

«Piacere mio Gaetà, questo è per te, se vorrai, ripasso tra qualche giorno con altro»

«Me trovi sempre qui, grazie Gregò, grazie assai»

«Di niente, a presto Dottò, cià»

Era giunto sull’altra sponda, destinato a cercare il francese, si avvicinò entrando in una zona buia, ci mise tempo ad abituare gli occhi all’oscurità, prima di vedere una tenda con un tavolo di plastica con tanto di ombrellone.

Una sagoma prese forma dal buio: «che me  vuoi fregà il tavolo?»

«Tu devi essere Jean Pierre?»

«E tu chi saresti?»

«Sono Gregorio, un amico di Bruno, sono venuto per portarti questo» e tese il sacchetto con le verdure verso il buio,

«Che so, patate?»

«Non solo, ci trovi zucchine, melanzane, carote, spinaci e altro che viene dalla mia terra»

«Grazie molte, domani faccio un bel minestrone col mio fornello da campo, qui tutti ne abbiamo uno, ci permette di non andare sempre alle missioni per mette qualcosa sotto i denti»

«Se vuoi, tra qualche giorno ripasso con altro, ti trovo sempre qui?»

«Si, ormai sono già cinque anni che sto qua, non me ne riesco più ad andà, da quando mi rubarono la valigia con il passaporto, le medicine e la dentiera e tutti i soldi che avevo», detto ciò entrò nella tenda per prendere qualcosa, ne uscì con una foto. «Vedi questo qui in mezzo, sono io, ero imbarcato sulle navi da crociera, come chef, l’ho fatto per quindici anni, ho girato tutto il mondo: Giappone, Australia, Stati Uniti, Caraibi, parlo cinque lingue: francese, italiano, spagnolo, tedesco e giapponese».

«Come mai non sei riuscito a ripartire?»

«Perché quando faccio un colloquio e mi vedono solo con tre denti in bocca, non mi vogliono più, ed io non c’ho più una lira per comprarmi un’altra protesi, il dentista vuole quattromila euro per rifarmene una nuova, ma quanno li vedo io quattromila euro? Non mi resta che la strada»

«Mi dispiace davvero amico, se so qualcosa in giro te lo verrò a dire»

«Grazie mille, qui me trovi, dove vuoi che vada»

«Non ti preoccupare che le cose vedrai, si aggiusteranno, ora devo andare, ci si vede» e spingendosi nel buio, se ne andò pedalando.

Quella notte rientrato sulla stanza sull’albero, Gregorio ripensò a tutte quelle storie di vita, a come ci vuole poco per trovarsi sull’altra sponda, a come ci sentiamo sicuri, protetti dai  nostri ruoli, dalle nostre economie, da valori che in questa società sono volubili, come il vento.
Quella notte, la coperta che usava per coprirsi, gli sembrò di piombo, ci volle del tempo per prendere sonno, l’unica cosa che gli girava in testa era che non meritava più di un altro quella coperta, quel giaciglio comodo, quel tetto sulla testa, quel bene che la vita continuava a donargli, gli occhi rivolarono sul cuscino e si sentì minuscolo su quella chioma d’albero che l’ospitava.

Prossimo episodio giovedì 10 settembre