VENTIDUESIMO EPISODIO

Si mosse di buona lena, pronto a raccogliere da quella giornata il meglio, spinto dai più sinceri ideali e convinto che ognuno abbia un solco più o meno tracciato nella vita a cui non può sottrarsi per lungo tempo. Ma qui si parlava d’amore, oltre ogni ipocrisia, anche sepolto dalle ceneri degli eventi, in profondità resiste come una piccola brace, pronta a prender nuovamente forza e vigore alle sferzate del vento della vita. Quante volte Gregorio, aveva cercato nei posti sbagliati quel quid, si erano sfiorati più volte, senza mai incontrarsi, quante volte Gregorio credeva invece di averlo trovato fino a quando quella spinta non si rivelava l’ennesimo volo pindarico. Un tocco blu tra i frutti arancio, Gennarino, era ben appollaiato su uno dei rami del mandarino, aveva trovato una giusta ambientazione nella stanza-giardino in cui si era tuffato,tanto più che, non doveva volare insieme ai suoi simili legato ad un filo, ragione per cui non dimostrò, fino a quel momento di voler oltrepassare la finestra. La radio, poggiata tra i fiori delle zucchine, chiacchierava tenendo compagnia a Gregorio mentre piantava, aveva scelto accuratamente delle bellissime albicocche, di un arancio intenso e il rossore come di timidezza, a caratterizzarne la buccia. L’avrebbe piantata nell’angolo opposto al mandarino, sulla stessa diagonale, da avere così un nuovo punto d’approdo per le passerelle, la stanza era divisa per livelli:  dal solco, quello più profondo, che ora sfociava in una piccola galleria nella parete, poi  il terreno con tutta la coltura, e sopra le passerelle ad abbordare lo spazio, sullo stesso livello stava la piattaforma della stanza con terrazza e poco più su, la chioma frondosa con il nuovo abitante. Non c’era che aspettare, l’albicocca era adagiata in una culla nel terreno, su cui poi la terra a formare una montagnola,  ora era tempo di raccogliere il già cresciuto e prepararsi per l’uscita dell’indomani. Le zucchine erano delle belle e corpulenti virgole verdi, le melanzane avevano un viola intenso e scuro, di un rosso fuoco invece le fragole, i mandarini erano tramonti incandescenti, mentre le more schizzettavano di rosso e di nero la parete della finestra inerpicandosi e intrecciandosi fino al soffitto. Le insalate erano dei vaporosi ciuffi verdi adagiati sul terreno, una natura viva portava colore e prodigio, Gregorio amava a volte ammirare la stanza dal suo terrazzino, ammirava di quella natura generosa, la forza e il ciclo seppure innaturale, a maggior ragione miracoloso. Stipò tutto nel frigo, occupato ormai interamente da frutta e verdura, fece una sorsata d’acqua, s’asciugò la fronte e ritornò in giardino, ora doveva cercare la radice.

Prese gli attrezzi e si rintanò nel tunnel, i piedi scomparvero quasi del tutto nel foro, Gregorio a metà strada tra un tennista e un minatore, aveva una torcia indossata sulla fronte, “qua me ritrovo nella latrina romana di via Garibaldi a forza di scavà, pensa tu se me esce na testa de quaccuno, sai che storia, sepolto tra na parete e na strada, io pecciò voglio esse bruciato quanno moro, poi messo sotto a n’arbero, voglio diventà ramo che dà frutti, più che fossile per un museo”. Ero uscito per depositare i resti del ventre usurpato della  terra, la trasmissione radiofonica continuava a parlare e parlare: i soldi stanziati dall’Europa per l’emergenza Covid-19.  “Li senti Gennarì? Tutte stronzate ce stanno a dì, c’ho certi amici che tengono botteghe e stanno aspettà 500 euri fetenti dall’inizio di sta’ manfrina degli aiuti, come ar solito i sordi ce stanno pure, questo non è in dubbio, ma se fermano a fa’ a via crucis, e all’urtima stazione c’arriva niente, questa è quanto amico mio, beato te, che invece da a grana cerchi i grani da a zucca”. Un bel Craaaaai con cui Gennarino pareva rispondesse allo sfogo del coinquilino, nel frattempo la radio passava un brano: People are strange, Gregorio si rituffò nello scavo, aveva seguito fino ad allora, la lunghezza della radice, senza dissotterrarla ma scoprendola solo lateralmente per osservarne l’andamento, non pareva giungesse ad un qualcosa, sembrava voler continuare affondando nel terreno, risalendo, girando. Fece una pausa pranzo mangiando dei mandarini appena raccolti, erano una dolcezza, leggermente aspri, quel terreno aveva compiuto l’ennesima meraviglia di profumo e di gusto, da quando mangiava solo cose da lui prodotte, aveva scoperto il gusto delle cose.

La galleria prendeva a sinistra, già dall’ingresso, questa era la direzione in cui l’aveva cacciato l’appendice verso cui Gregorio provava un venerato rispetto, ma voleva capire da chi o meglio da dove provenisse quella benedizione nella sua vita. Quasi tre metri di lunghezza, aggiunti agli altri due già scavati, questo fu il bottino per la giornata di fatica, seppure non si prospettasse un principio, era soddisfatto del lavoro fatto, il tempo trascorreva velocemente, tanto da uscire e rendersi conto che era sopraggiunta la sera, spense la radio, si andò a docciare.

Si preparò un piatto di pasta, aveva voglia di qualcosa di sostanzioso che non fosse della carne, aveva delle melanzane, preparò un sughetto rosso con cui condì le penne che aveva preso dal Killer. Consumò il pasto sul suo terrazzino accompagnandolo con del rosso, poi si stese sull’amaca a gustare la sigaretta, vide il libro ritrovato, l’afferrò approfittando di uno slancio dell’amaca, lo aprì a caso e lesse:

(…) Ogni violenza compiuta sotto il sole
La vidi

E lacrime di oppressi
Nemmeno le addolciva

E violenza di oppressori
Nessuno le frenava

I morti perché morti io lodo
I vivi no perché vivi

E più di loro il felice
Che ancora non è stato

E il male non ha veduto
Che sotto il sole facciamo

E vidi in tanto penare
In tanto sforzo di essere

Invidiarsi ciascuno

Fumo anche questo
vento che ha fame

L’idiota si lega le mani
E si divora le carni

Meglio un cavo di mano inerte
Che pugni gonfi di fatica
E di vento affamato

E altra violenza ho veduto
sotto il sole

C’è chi è solo e non ha nessuno
Né un figlio né un fratello

Eppure senza fine si affatica
Mai di ricchezze si sazia gli occhi

-Ma per chi mai fatico?
Per chi mi privo di felicità?-

Anche questo è miseria
Una sorte maligna

Meglio due di uno solo
I loro sforzi congiunti
Avranno premio migliore

E se cadono uno dei due
Rialzerà il suo compagno

Ma chi è solo

Sciagura

Chi lo rialza se cade? (…)

Questa lettura gli riportò il pensiero verso gli invisibili del lungofiume, alle loro storie, alle loro condizioni, crebbe in lui il desiderio di poter fare di più, diventare loro amico. Solo così, avrebbe potuto capire meglio, come gli diceva anche la scritta in sogno sull’acero rosso.