VENTITREESIMO EPISODIO

Le ultime notti erano state un tempio, in cui Gregorio era entrato ed aveva visto sempre di più la sua anima.  I pensieri e gli affanni, prima lo tormentavano nonostante la fatica della giornata in cantiere, ora invece, in una situazione più drammatica, i pensieri avevano raggiunto la leggerezza della crescita delle sue amate piante, dei suoi frutti, come la drupa d’albicocca che in quella notte dirompeva la montagnola tendendo verso il soffitto. Al mattino, ancora assonnato, Gregorio discese diretto in cucina per il caffè, fu al ritorno, entrando nella stanza, che si sentì come osservato, l’albicocco era cresciuto quasi di un metro e mezzo, si voltò a sinistra e vide quel mucchietto di foglie cuoriformi e seghettate, sbucate in meno di 48 ore. Quel prodigio di terreno, gli aveva insegnato, che oltre una coltre spessa, a volte dura, formatasi nel vissuto, c’è sempre la speranza di poter veder attecchire qualcosa di meraviglioso. Ora, tutto stava nel non far morire quel qualcosa, coltivarlo, nutrirlo, elevando anche l’anima, perché, ciò che aveva caratterizzato il tempo covid-19, era stata proprio la dignità delle azioni intraprese da Greg, forse non proprio da subito, non che prima il suo lavoro fosse indegno, anzi, lo svolgeva con grande dedizione, ma a lungo andare, come spesso accade, sopravviene l’abbrutimento, l’esecuzione quasi meccanica delle azioni, la perdita del trasporto emotivo, sentimentale, la passione che muove le azioni. Non c’è cosa più bella a fine giornata, di sentirsi parte di un tutto fatto di vita, di non affannarsi solo per se stessi, ma poter spendere le proprie energie aiutando chi ha avuto meno, meno possibilità, meno diritti, meno ricchezza. Ed è ciò che anche in quella giornata, Gregorio si apprestava a fare, se non fosse stato per il campanello della porta: discese dall’albero, sui cui gustava l’aria fresca del mattino, “ma chi sarà a quest’ora?” Borbottò attraversando il corridoio, guardò nell’occhio magico e vide un faccione tondo, il faccione da torta di Bilotti, “e mò che vò questo? Un pensiero lo attraversò, ridacchiò, “vediamo che dice. Chi è?” Dall’altro lato si udì un mugugnare, e Gregorio ripetè, “chi è?”
Bilotti, mugugnò ancora una volta, più intensamente, Greg lo aprì, «Ah Bilò buongiorno, non avevo capito!»
Con i gesti, Bilotti aiutava i pensieri a trovare una forma comprensibile, Gregorio lo guardò perso, non capiva niente di ciò che volesse dirgli, ad un tratto colse qualcosa e provò chiedendo: «una cassetta? Una cassetta di verdura?»

Ci fu un gesto di consenso, l’oscillazione dall’alto al basso del testone.

«Allora aspettami qui che arrivo con la cassetta di primizie»

Bilotti fece per entrare, Gregorio a metà del corridoio lo sentì alle spalle, si voltò e infastidito gli disse: «ah no, che sei pure sordo mo? Ti ho detto di aspettà sulla porta, per favore Bilò non me fa incazzà a prima mattina, se voi a verdura devi aspettà ffori, sennò niente, hai capitò?»

Di nuovo partì il movimento di testa.

« Si si, dice si si ca a testa e po’ fa a modo suo. Torna indietro Bilò»

Nel mentre, si sentì il verso di Gennarino, cantava o cercava di scacciare l’intruso, Bilotti sgranò gli occhi nell’udirlo, non se lo aspettava. Gregorio che già sapeva: «è n’uccello Bilò tranquillo, nun te mangia mica, statte tranquillo lì, a maggior ragione», girò verso la cucina, prese le verdure dal frigo e preparò la cassetta, con la coda dell’occhio, poteva controllare la porta d’ingresso e il vicino. In pochi minuti sbrigò tutto, ritornò sull’uscio con una cassetta ricca di tutto, i colori e i profumi dei prodotti erano uno spettacolo per la vista e per l’olfatto.

«Umhhh» fece Bilotti per esprimere meraviglia.

«Vedrai Bilò, che oltre a esse belle so pure bbone ste primizie!» Prese i soldi dalla mano del vicino facendoli scivolare tra le dita e lo salutò: «Stamme bene Bilò, ce se vede».

Ritornò verso il giardino, ora doveva raccogliere altra verdura per l’uscita serale, aveva venduto quasi tutto al vicino. “Bravo Gennarino, hai cercato di spaventarlo quel fesso, hai capito subito che è un ficcanaso, quello là è stato mandato dalla pettegola della moglie, per vedè un po’ che sta a succede qui, ma a noi nun ce ‘mporta, possono sfotte quanto vogliono loro e la storia della jungla, le ho sentite mentre stavano in corte, le pettegole sono in ogni condominio, te le vendono co le case, ahahahahaha”. Il pappagallo s’andò a posare sulla fronda leggera dell’albicocco, era appollaiato su un ramo ancora tenero per essere stabile e ondeggiava come una pendola. Raccolse tutto nuovamente per la sera, prese ancora un po’ di caffè e s’organizzò per entrare nel tunnel e continuare la ricerca. Al momento, lo scavo in stanza e il tunnel, avevano preso una forma come una J, con una lunga piegatura a sinistra, lì in fondo si era fermato. Era diventato bravissimo a seguire di fianco la radice senza dissotterrarla, l’importante era capirne l’andamento e continuare di pari passo, scavò lungamente, avanzando di quasi due metri. Più s’allontanava dalla stanza, più era ovattato nel ventre della terra con l’odore acre a riempire le narici. Il terreno non era difficile da scavare in quel punto, era alquanto morbido e privo di pietre, ogni tanto era incappato in qualcosa, cocci di terracotta, pietre pomici, una forchetta, una bottiglina sfaccettata, una pietra azzurra che aveva appeso come amuleto al collo, questo il tesoro venuto fuori dall’inizio, e naturalmente il libro sconosciuto da lui tanto amato.  Questa volta però, la resistenza incontrata dalla vanghetta era più tenace, cercò di aggirare l’ostacolo, ma la terra intorno era davvero dura, iniziò a grondare sudore dalla fronte, il faretto da fronte era tutto concentrato sull’intoppo, prese scalpello e martello per penetrare il terreno. Ci lavorò per un’ora circa, riuscì come un bravo archeologo a isolare e portare fuori l’oggetto, una scatolina di metallo finemente lavorato, con linee ondulate a rilievo, riemerse, lavò dalla terra la scatolina, la mise alla luce filtrata dalle fronde, la girò e rigirò tra le mani, era un parallelepipedo con quattro zampette feline agli angoli del fondo. Saltò sull’albero con la scatola ben stretta in mano, la girò e rigirò, gli piaceva la fattura, si trovò ad impugnarla per due angoli opposti e vide che ruotavano, uno in un senso e uno nell’altro, si udì uno scatto, il cuore gli batteva a mille, emozionato per la scoperta. Cosa aveva custodito per lungo tempo quella preziosa scatoletta? Da quanto tempo qualcuno non ne guardava il contenuto? Sollevò lentamente il coperchio, della terra secca cadde, ammucchiate, annerite e incrostate, erano delle monete, avevano delle scritte incomprensibili al suo occhio, sembravano molto antiche, irregolari, più o meno tutte della stessa taglia, tranne una, più grande e meno scura. Gregorio non credette ai suoi occhi, così su due piedi non sapeva nemmeno cosa farne di quella scoperta, con chi condividerla, rimase esterrefatto lì in cima al mandarino, con la scatola nelle mani e le idee confuse.

Era troppo curioso di sapere cosa fossero quelle monete, a che epoca appartenessero, cercò il cellulare, era un po’ di tempo che non lo vedeva in giro, lo trovò in una tasca del giubbino appeso all’ingresso, scorse la rubrica cercando un nome: Matteo er Metallaro. Un amico di vecchia data, che aveva ereditato dal nonno la passione per le monete antiche, le collezionava tutte, ne aveva alcune antichissime, romane addirittura, una volta poté ammirare tutta la collezione, spiegata sul tavolo della cucina der metallaro.

«Pronto Mattè, ciao so Gregorio, come stai?»

«Uè Gregò, che piacere, io stò bene, tu piuttosto come stai? È un botto che non te vedo!»

«Eh si, è parecchio che nu ce se vede, stò bene, ma a so vista nera qualche mese fa, all’inizio di sta quarantena, ma ora non me lamento, anzi, stò proprio bbene! E tu?»

«Stò bene pur’io, stò alla casa all’idroscalo, me ne so venuto qui a fare il confinamento, almeno posso vedè er mare»

«Hai fatto bene che te ne sei annato ar mare, senti, che posso venì da te in giornata? Te devo fa vedè na cosa, tengo bisogno di un parere!»

«E ce sta bisogno che me o chiedi Gregò? Tu puoi venì quanno te pare»

«Ok allora mi organizzo e vengo, più o meno du ore e stò lì»

«A più tardi»

«A dopo!»

Gli toccava prendere il 115 fino a Trastevere, poi di lì il tram numero3 fino a S.Paolo, e da lì il 75 fino a Lido, qualche cambio, però ne valeva la pena, avrebbe rivisto il mare e Matteo, era davvero contento. Si preparò in fretta, lasciò dei semi a Gennarino, chiuse la finestra, prese le chiavi, la scatolina col suo contenuto, il cellulare, la mascherina, il gel per le mani, l’autocertificazione con la data cambiata e via, chiuse la porta alle spalle e riemerse a livello del portone.