VENTOTTESIMO EPISODIO

Quella giornata era stata importante, di quelle in cui il tempo prende altra forma, come nel giorno di una nascita, o di una morte. Gregorio aveva svoltato, era deciso, certo, sicuro di ciò che andasse fatto, assunto piena consapevolezza, volontà di poter fare per gli altri, ciò che l’indifferenza di un tempo malato e stanco non era capace di fare. Senza paure a limitare azioni, senza preconcetti, luoghi comuni o stereotipi, non che a Gregorio importasse molto del giudizio altrui, cresciuto tra il passo fatto per lasciare una condizione proletaria e un piede sul gradino della medio-borghesia proletarizzata, in quella possibile ascesa verso il fascino che di discreto non ha più nulla. Dove è finita, quella classe che la forza lavoro e i valori, hanno portato a guadagnare conquiste strappate al perbenismo cattolico? Con gli ultimi trent’anni di politica, l’Italia è sprofondata sempre più, lasciando spazio a un falso-liberismo, ad una completa demolizione ideologica, attuata anche attraverso un controllo ed un uso deviato dei media. Di questo Gregorio seppure al margine, lo sapeva, s’era domandato: che fine ha fatto quel pollo ruspante dal libero arbitrio che lo rendeva più saporito? Sostituito completamente dal pollo di batteria! Lasciando che ogni esistenza perdesse il suo senso. Non la sua, che a casa crollò, sotto il peso della giornata.

Il mattino seguente si levò di buon’ora, chiamò immediatamente Matteo.
«Pronto» fece una voce roca all’altro capo del telefono
«Pronto» fece l’altro con una voce altrettanto impastata di notte e di solitudine, «Matteo so’ Gregorio, che dici? Come va?»
«Gregò so le sette e mezza che voi, hai ricominciato col cantiere?»
«Pronto! Ma che cantiere e cantiere Mattè: quanto te serve pe’organizzà col pezzo grosso che dicevi l’artro giorno?»
«Te sei deciso allora, eheh vuoi venne il pataccone?»
«Si ‘o voglio venne Mattè, lo chiami allora?»
«Certo che lo chiamo, te faccio sapè!»
«E diglie che se fa pecunia-pecunia!»
«E che vor’dì?»
«Che noi glie diamo a’moneta e lui i bigliettoni. Famme sapè!»
«Stai tranquillo Gregò, a dopo!»

Andò con calma in cucina, consapevole che Matteo lo avrebbe richiamato quanto prima, avrebbe perorato la sua richiesta d’appuntamento, data la sua inattaccabile posizione: vendere il medaglione, sin dall’inizio. Preparò la macchinetta, la lasciò sul fuoco, tagliò una fetta di pane su cui fece colare un millefiori, il caffè salì borbottante, divorò il resto della fetta, zuccherò il caffè e con la tazzina, si diresse verso l’albero. La sua tana.

C’erano i resti della sigaretta della sera prima, sparsi nell’angolo del terrazzino, il libro era appoggiato nell’amaca, lo prese, si sedette a sorseggiare il caffè. Si guardò intorno, gli alberi erano forti, lui era diventato forte, non avrebbe avuto più senso andare avanti nell’ipocrisia o peggio nella ricchezza, no, non avrebbe potuto tenere solo per se, un bene che nemmeno gli apparteneva. Si è vero, l’aveva ritrovato nella terra della parete accanto casa, ma ciò non bastava ad un legittimo possesso. La strada migliore da percorrere, era quella che aveva pensato, quella palesatasi come una visione. Riprese la lettura della sera precedente, fu assorto così per un po’di tempo, fino a quando leggendo si soffermò su una frase,  la ripeté ad alta voce con gusto:

“Come un chiodo si pianta saldamente sotto le giunture della pietra, così il peccato s’introduce segretamente nella vendita e nelle compere.”

Chiuse le pagine, in maniera irrequieta andò alla ricerca del telefono, lo trovò abbandonato su un cubo, lo prese, cercò in rubrica, inviò una chiamata. Quattro squilli dopo: «Pronto», entrò con voce corposa nell’orecchio di Gregorio.
«Marco, so Gregorio, come stai? Da quanto tempo?»
«Ueeeeeeee Gregò, che gioia. Come stai?»
«Non ci lamentiamo, anzi, vorrei vederti per un caffè. Ho incontrato Ago qualche tempo fa, mi disse che stavi a cercà de vende er casale vicino al Parco degli Acquedotti, è vero?»
«Si è vero, Ago t’ha detto giusto, puoi immaginà, di questi tempi, andò o trovo uno che se vuole comprà un casale?»
«A me interessa! Per questo te voglio vedè, ne voglio parlà di persona, ce vedemo, prennemo un caffè e annamo al casale. Tu c’hai ‘a macchina?»
«Si, per me va bene, te passo a prende e c’annamo insieme. Vedi un po’ tu, chi mo ‘o doveva dì, Gregorio Quaranta, così, dal nulla, m’hai scioccato», sorrise.
«So’ contento amico mio, tu o’sai, pure se non ce vedemo spesso, te porto sempre nel core»
«Non lo devi dì proprio, dopo venti anni d’amicizia, l’avremo capito no?»
«Allora quanno ce se vede? Vogliamo fa dopodomani, domani c’ho un impegno, devo andare a fa un sopralluogo»
«Lavori sempre come architetto?»

«Sempre, ora mi so trasferito a Latina con Alessia, ma in settimana vengo a Roma per sbrigare faccende e cose amministrative, perciò t’ho detto dopodomani, avevo già programmato de venì, se per te va bene te passo a prende verso le undici, undici e un quarto, così pranziamo al casale e stiamo un po’de tempo insieme»
«Perfetto! A dopodomani allora, buona giornata!»
«Ciao Gregò, a presto!»

Preso dalla conversazione s’era messo a girare nel quadrato di terra, scavalcando il fossato che lo divideva. Era lì, per un attimo fermo sulla terra a cui doveva tutto, tolse i piedi dalle ciabatte, li piantò su un rialzo poco prima del solco, tra le insalate e le melanzane. Era fredda e piacevole, stette per qualche istante. Quel nuovo albero, cresciuto dalla quarantena ad oggi, era tutto teso all’azzurro del cielo, era ora, un’antenna tra quest’ultimo e la terra, aveva ristabilito un contatto. Gennarino lo sorvolava posandosi ora sulla terrazza dell’albero, ora sull’albicocco, su cui venivano fuori i primi frutti, promettevano bene, come tutto, del resto.

Nell’attesa di novità da parte der Metallaro, pensò di continuare con la ricerca della radice, il tempo d’organizzarsi, mise i panni da lavoro, prese vanghetta, torcia, secchio ed entrò nel tunnel. Era caldo umido lì dentro, “ammazza e quanno ho scavato, mo o’ricordavo meno lungo. Solo che sta radice pare non avè principio. L’unica cosa che so, è che finisce nella stanza!”

Il suo, era un vero e proprio scavo archeologico, aveva rispettato quella presenza sbucata chissà da dove, dall’inizio, non aveva mai minimamente immaginato di tagliarla, estirparla, bruciarla o cose del genere, gli interessava solo sapere da dove venisse. Da quale fonte era arrivato tutto. Nemmeno se ne accorgeva, ma ci dava dentro, era venuto fuori già tre volte a portare terra, ogni volta Gennarino scendeva a controllare la nuova montagna, vermi e insetti erano il suo passatempo. Gregorio avanzava, ma del capo della radice non v’era traccia, lui sottraeva, costeggiava, scioglieva apparati radicali per non tagliarli, un lavoro a volte di fino, che rendeva più zen la sua ricerca. Squillò il cellulare, balzò con la testa sotto la galleria, c’era un’ansa che si era creato in cui poteva girarsi, così da procedere più velocemente carponi fuori. Afferrò il telefono:

« Matteo pronto, allora?»
«Tutto apposto Gregò, il tipo c’ha dato appuntamento per oggi alle due, te passo a prende io, meglio nun rischià con le monete addosso»
«Ma addò dobbiamo annà?»
«Mi ha dato l’indirizzo di un posto, sta al ghetto»
«Vabbè allora vieni tu?»
«Tranquillo, te vengo a bussà a meno venti, tanto ce vo’ poco pe’arrivà»

Riagganciò, guardò l’ora, decise che poteva ancora approfittare per scavare. Risucchiato dalla spasmodica ricerca della radice, rimase per altre due ore nella galleria, s’allontanava sempre più dall’appartamento.