Viaggio musicale verso la luce

Intervista a Pablo Lentini Riva sul suo nuovo romanzo

a cura di Michele Lischi

Scoprii Pablo Lentini Riva fra i tanti libri esposti sul banco dell’editore Ellin Selae al Pisa Book Festival nel 2010. Erano i tempi del suo primo romanzo, Notturno per violoncello solo, e quel libro mi colpì per l’abilità dell’autore nello stimolare e nutrire – in egual misura – la passione del lettore per i libri e per la musica. Un bilanciamento, questo fra scrittura di qualità e importanza della musica, che caratterizzerà anche tutti i suoi racconti e romanzi successivi. Ci fu poi l’incontro con Pablo e sua moglie Veronica a Firenze nel 2012, in occasione di una performance di lettura-concerto. Poi di nuovo a Pisa, in una simile occasione, nel 2014. Poi non ci siamo più incontrati di persona, ma di quando in quando ci siamo sentiti per scambiarci qualche idea sui suoi nuovi lavori – letterari e musicali – e sui programmi futuri. Ci siamo sentiti anche di recente, dopo l’uscita del suo ultimo romanzo, Fantasia elegiaca, all’inizio di questo 2020. Un libro che mi ha fatto percepire un grande salto di qualità e intensità nella raffinatezza narrativa di questo autore che pure avevo sempre apprezzato fin dagli esordi.  Ne è scaturito uno scambio vivace di sensazioni e di suggestioni generate da questo romanzo: così è nata l’idea di questa conversazione-intervista. 

Questo romanzo del 2020, Fantasia elegiaca, è decisamente più lungo, articolato, insomma “corposo” rispetto ai precedenti lavori narrativi. La costruzione della storia – e la sua estensione –  provengono da un progetto elaborato a priori, oppure nel tuo metodo di scrittura i risvolti, i temi e le loro dimensioni si sviluppano man mano che la narrazione procede?

Mi guadagno il pane con la musica e, non dovendomi confrontare col difficile mercato letterario, posso permettermi il lusso di scrivere solo sotto l’impulso di una sincera ispirazione. Per me è la condizione migliore: non devo rendere conto a nessuno e non devo occuparmi di ciò che va di moda. Sono libero di seguire i personaggi ovunque, perfino nell’aldilà. La mia prosa nasce da un processo creativo simile a quello utilizzato dai compositori: aspetto un tema, schietto e bellissimo, non un’idea costruita a tavolino, col mestiere, ma un tema che abbia la forza di coinvolgermi al punto da darmi lo slancio per scrivere una sonata, un tema così appassionante e ossessivo che, anche nei numerosi momenti di sconforto, continui a tormentarmi, a risuonare nella mia testa. Penso a Schubert e al primo tema dell’Arpeggione, ad esempio: come metterlo a tacere? Come non dotarsi dei mezzi necessari per comporre una delle più belle sonate romantiche in assoluto? Poi, proprio come i compositori, nota dopo nota, parola per parola, seguendo la mia idea, variandola, lasciando che ne partorisca altre, vado avanti nella narrazione. Esiste un progetto iniziale, una struttura, una forma, che però non è una gabbia. Ho sempre pensato che un artista faccia soltanto da tramite, perché possiede la sensibilità per farlo. Giusto quella, una certa capacità di mettersi in ascolto e il bisogno esistenziale di raccontare agli altri quel che ha sentito, gli si è mostrato, gli è stato riferito. Sono gli artisti i veri medium, non i ciarlatani che vendono illusioni. Mi metto a disposizione dei personaggi. Se continuano a parlarmi, ne nascerà un racconto o un romanzo, se smettono, addio. Non sai quante volte hanno smesso, ma quando hanno voluto portarmi con loro fino alla fine, io stesso sono rimasto stupito del risultato. Adesso Fantasia elegiaca esiste e io sono tornato ad essere una persona qualunque, ma proprio qualunque. Attualmente, come tutti gli altri, sono agli arresti domiciliari a causa di un virus potenzialmente letale, senza sapere se il morbo è fuori dalla porta o già dentro di me. Vagando per casa, mi capita ogni tanto di soppesare quest’ultimo romanzo, che tu hai definito corposo, e di chiedermi: ma davvero l’ho scritto io? L’unica cosa che mi resta è il senso di abbandono. Mi mancano i personaggi che mi hanno tenuto compagna per quasi due anni e che ora sono passati ad altro.

Se tu dovessi riassumere in tre, ma proprio solo tre concetti, gli aspetti caratterizzanti di questo romanzo, caratterizzanti anche nel senso di introdurre delle novità o delle variazioni rispetto ai tuoi racconti e romanzi precedenti, quali sceglieresti?

Intanto, raggiunta la maturità, mi sono cimentato con la narrazione in terza persona. Fino ad ora avevo usato la prima, ma improvvisamente ho sentito che era diventata claustrofobica. Nella Fantasia elegiaca il punto di vista del narratore coincide con quello del protagonista, ma avevo la necessità di sentirmi più libero. Da questa maggiore libertà, deriva un secondo elemento nuovo: il romanzo è corale, senza dubbio più di quanto lo siano le mie opere precedenti, che erano assimilabili a un duetto (maestro e allievo, due amanti, artista e opera d’arte). Esiste invece un elemento di continuità, che è l’incontro con l’altro o, come in questo caso, con gli altri. Il protagonista ha la propria storia, il proprio vissuto, ma sono gli scambi con i personaggi che incontra, la loro saggezza, il loro ardore, il coraggio, il talento, la passione politica a dargli l’occasione per capire qualcosa di più di se stesso. Morano ha un’evoluzione più positiva di quelle che hanno i protagonisti di altri miei lavori. Sa di essere vulnerabile, così resta aperto, in ascolto, e non fa l’errore di barricarsi dietro certezze vane. Mai come in questo periodo ci è data l’opportunità di capire che la pseudo sicurezza, dall’alto della quale guardavamo gli altri con sufficienza, può venire spazzata via da un virus. Ecco il terzo elemento di rottura col passato: un nuovo chiarore, un messaggio più positivo.

Il protagonista di questa storia è un pianista. In altri romanzi abbiamo visto, nel ruolo di protagonisti, un violinista, un violoncellista… C’è un motivo per cui scegli di associare uno strumento a un personaggio? In altre parole, ritieni che anche dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi (oltre che delle persone reali), il fatto di suonare uno strumento piuttosto che un altro denoti delle attitudini comportamentali o caratteriali che sono funzionali allo sviluppo della narrazione?

Nell’ambiente musicale si sa che un trombonista e un pianista hanno un carattere opposto, che il primo è più incline alla goliardia e il secondo più solitario e introspettivo. Fin da bambini, dai tempi del conservatorio, noi musicisti siamo stati in contatto con gli spavaldi ottoni o le eteree arpiste, gli estrosi flautisti e i più melanconici oboisti, gli evanescenti violisti o gli alteri violinisti. Poi ci sono i cantanti, un mondo a parte, ma evitiamo di generalizzare, perché è sbagliato e guardiamo la cosa da un altro punto di vista. Gli strumenti musicali sono molto diversi tra loro, hanno un suono, una forma, una destinazione diversa. Sono costruiti con materiali diversissimi: dall’acero marezzato dai riflessi fiammeggianti, al pallido abete, al tenebroso palissandro della foresta amazzonica, all’ottone, all’argento, perfino all’oro. Quando un bambino fa una scelta, è la sua anima a scegliere come esprimersi, con quale voce, su quale materiale posare le proprie dita o le proprie labbra tutti i giorni per il resto della vita. Quando sogna di diventare un solista o un grande tenore, oppure d’integrare un coro o un’orchestra, possiamo vedere in lui delle inclinazioni differenti. Ciò che ho vissuto e ciò che ho creduto di capire mi porta a costruire i personaggi in base alla personalità che ritengo possano avere. Del resto è quello che accade sempre. Se un autore sceglie per protagonista un militare in libera uscita o un ballerino, ci aspetteremo due storie diverse, no? Fulvio Morano è un raffinato pianista, che ama i pianoforti antichi, la musica barocca e romantica. È un solista, tuttavia se trova l’anima gemella con cui suonare in duo, si abbandona con trasporto al mistero di questa comunicazione profonda, non verbale (dunque molto sincera), tra due persone. 

Il protagonista di questo romanzo insegna in un conservatorio parigino. Proprio come te. Pensi che l’esperienza dell’insegnamento, della trasmissione delle tecniche e delle conoscenze – insomma del sapere – ai tuoi allievi, guidi in qualche modo la tua scrittura? Cioè che nello scrivere una storia la tua esperienza didattica e il tuo modo di metterti in rapporto con i tuoi allievi abbia un qualche effetto sul tuo modo di rapportarti ai tuoi lettori?

Probabilmente sì. Desidero farmi capire. Mi sforzo di usare una lingua elegante, musicale e poetica, senza però appesantirla inutilmente con vocaboli ricercati, desueti e poco efficaci. Mi piace restare con i piedi per terra. Ho allievi che hanno dai sette ai venticinque anni e la musica è una materia tanto immediata quanto complessa. A volte devo spiegare cose difficilissime con parole semplici, insegnare ai ragazzi come trasmettere con chiarezza degli stati d’animo e delle atmosfere al pubblico. Ho il compito di mostrare loro la bellezza di un’opera, di aiutarli a capirla, ad appropriarsene, poi di spingerli a presentarla in concerto emozionandosi ed emozionando. Per riuscire in questa missione, passo le giornate a inventarmi delle storie, delle metafore o a parlare di questioni apparentemente lontanissime dalla musica, per poi tornare all’improvviso a un accordo, a un crescendo, a un silenzio. Quando scrivo, attingo anche a questo bagaglio e, esattamente come chiedo di farlo ai miei allievi, cerco di essere molto espressivo senza strafare.

In questo romanzo, forse ancor più che in altri tuoi lavori precedenti, gioca un ruolo importantissimo il passato. Non solo attraverso le composizioni dei musicisti del passato, ma anche tramite un ponte col passato in termini storici, artistici, architettonici, sociali… E, naturalmente, il passato viene inteso come elemento determinante del nostro presente, con il quale continua a mescolarsi. Potresti descrivere sommariamente in che modo il tuo essere un musicista e uno scrittore del XXI secolo si fonde con la musica e la letteratura del passato? Quanto di te interprete musicale e narratore contemporaneo si fonde al passato, tuo personale e storico?

Il tempo è denaro, quindi ho sempre preferito confrontarmi con la durata, con tutto ciò che è stato creato con passione, dedizione e ingegno, non solo per essere venduto. In genere, ciò che viene prodotto solamente a scopo commerciale o è paccottiglia o passa presto di moda. Non ho mai desiderato diventare ricco. Non sono richiesti soldi per comprare una necessità dell’anima, ha scritto Thoreau e, prima di lui, lo hanno asserito tutta una schiera d’illuminati. Per me esiste il tempo dell’arte, della bellezza, del lavoro ben fatto. Se un quadro meraviglioso, una sonata che fa venire la pelle d’oca, un oggetto antico e pieno di grazia sono giunti fino a noi, sono contemporanei, esistono oggi, la loro capacità di emozionarmi è integra, in più hanno il vantaggio di parlarmi di altre epoche. Quando cammino per certe vie di Parigi, Roma, Milano, Venezia, Granada o Istanbul, che non sono poi così diverse da com’erano qualche secolo fa, sento una connessione con tutti coloro che hanno vissuto lì o sono passati di lì prima di me. Mi basta entrare in una libreria e sfogliare un libro per sentire cosa avevano da dire e mettermi a chiacchierare con loro, oppure varcare la soglia di un piccolo negozio di antiquariato e scartabellare tra le fotografie d’epoca, o guardare i ritratti, per vedere che faccia avessero. E se volessi sentire la voce della loro anima, potrei acquistare uno spartito ingiallito dal tempo e suonarmelo, oppure semplicemente ascoltare un disco. I fantasmi esistono, non mi fanno paura, sono ovunque, sono la nostra memoria, ci aiutano a capire e a vivere più serenamente il presente, anche quando diventa crudele. Ti faccio un esempio: quando è scoppiata questa pandemia, e tutti gli equilibri sono saltati, ero seriamente preoccupato per me, per i miei cari, per gli amici e gli allievi, poi mia madre mi ha ricordato che mia nonna era sopravvissuta alle epidemie di tifo e vaiolo che avevano colpito il nostro Paese in tempo di guerra. Non so dirti perché, ma saperlo mi ha confortato. È stato come se mia nonna fosse tornata in vita per sussurrarmi all’orecchio che, proprio come loro, ne saremmo usciti anche noi. Non indenni, forse, ma più forti e consapevoli. A questo scopo ho rivangato il passato nel nuovo romanzo, affinché da un terreno così ricco nascessero delle piante rigogliose che possano ancora oggi nutrirci con i loro frutti e darci ristoro con la loro ombra.