La parola Palermo

di Giorgio Vasta

©Fabio Sgroi

Dico Palermo. Dovrei intendere uno spazio fisico di centosessanta chilometri quadrati, un sistema di strade vicoli piazze giardini circonvallazioni provinciali, terrain vague e macerie normalizzate, il centro storico e le zone che furono nuove negli anni Sessanta e quelle costruite ancora dopo, durante gli Ottanta, l’alone delle periferie, le strutture che insistono sulla costa e quelle che si sviluppano verso l’interno, e allo stesso tempo, dicendo Palermo – la parola che individua il luogo in cui sono nato nel 1970 e in cui sono cresciuto (e da cui sono andato via, senza mai sentirne la mancanza, vivendo altrove per vent’anni, e dove sono tornato, sempre senza che nessuna nostalgia abbia determinato il ritorno, da due anni e mezzo) –, dovrei riferirmi ai circa settecentomila residenti che ogni giorno si svegliano percorrono la città lavorano passeggiano mangiano bevono chiacchierano vanno a dormire. Eppure io so che quando dico Palermo non sto mai davvero parlando di tutto quello spazio e di tutte quelle persone ma di uno spazio immensamente più piccolo e di un numero di persone altrettanto immensamente ridotto.

Quando dico Palermo – se faccio davvero attenzione – sento lo spazio fisico della città rapidamente contrarsi e sbriciolarsi, come un foglio di carta che brucia dai margini verso il centro. Dico Palermo e subito la città si riduce sempre di più, il fuoco consuma Boccadifalco e Settecannoli, Brancaccio, Uditore, Falsomiele, Cruillas e Altarello, via Messina Marine, corso Calatafimi, via Ernesto Basile, viale Michelangelo e via Leonardo Da Vinci: quella che dovrebbe essere la città reale si fa cenere, l’incendio avanza concentrico fino ad assediare un’area più circoscritta, il quartiere Libertà, il distretto che conosce buona parte del suo sviluppo durante gli anni Sessanta, la zona in cui ho trascorso più tempo (perché lo spazio è annodato al tempo), ma persino quell’unico quartiere, fra l’altro tra i più piccoli, è ancora troppo grande, la parola Palermo non può contenerlo, allora la vampa incede, la contrazione procede, dal quartiere si passa a un insieme di vie, ma per quanto note e notissime, percorse a piedi o in motorino un numero incalcolabile di volte (in un lungo processo che tra infanzia e adolescenza trasforma la realtà in qualcosa di irrimediabilmente inconsapevole), queste vie sono troppe, serve ridurre, arrivare a una sola strada, via Sciuti, ma lo stesso è ancora troppo, dunque continuo a contrarre e mi concentro sul civico 130, provo a far coincidere la parola Palermo, il pensiero Palermo, con quel condominio ma il condominio è plurale, è molteplice, quindi diminuisco ancora (perché l’incendio che ridimensiona lo spazio sono io), riduco la percezione al solo terzo piano, o meglio solo a metà di quel terzo piano, la parte che, venendo fuori dall’ascensore, si sviluppa a sinistra, una porta d’ingresso più grande, una di servizio più piccola, e a quel punto, immobile dietro quegli usci, mi fermo, l’incendio si arresta e penso all’unico spazio che davvero percepisco, che riconosco: l’unico spazio che so (come si sa un sapore).

Perché quello che accade quando dico Palermo è che lo spazio si rimargina, e così, drasticamente concentrandosi, mi chiarisce che per me Palermo non è altro che i centonovanta metri quadri dell’appartamento in cui ho trascorso circa venticinque anni della mia vita, dal 1970 fino a metà dei Novanta, Palermo è soltanto quelle stanze, i pavimenti di marmo e di graniglia (il freddo che attraverso la pianta dei piedi nudi risale lungo le gambe conficcandosi nel pube), le porte a vetri dalle foglie lanceolate intessute nelle lastre, il corridoio lunghissimo, la luce che penetrando di taglio dalle finestre riempie i vasi, intride la terra, scuote i fusti, fa brillare le nervature delle foglie, Palermo è una carta da parati quadrettata blu e bianca anni Ottanta a mezza altezza (gli strappi minuti, calibrati a comporre figure animali, dagli undici anni in poi le figure animali evolvono in piccoli spettri del sesso, i margini frastagliati, dovrebbe essere carta ma taglia come lamierino), un tavolino marrone basso e tondo in soggiorno disseminato di circoletti (il fondo umido dei bicchieri di vetro, le tazze di latte della domenica sera, il calore che si imprime sul legno: alcuni cerchi, i primi, accidentali, e poi in successione, negli anni, le circonferenze intenzionali, una costellazione di dischetti vuoti stampati sulla materia vegetale), e ancora Palermo non è nient’altro che una sedia con la struttura in metallo, i piedini di gomma nera e la seduta in formica rossa su cui un giorno una specie di prozia ancestrale – vischiosa torbida meravigliosa oscena – sedette per circa un’ora e che mai più a nessun costo toccai di nuovo per la paura del contagio (il metallo lucido cosparso di una malattia invisibile), e Palermo è una poltrona di velluto verde su cui è possibile disegnare con la punta delle dita (di nuovo le forme oscene, cancellate col palmo se qualcuno si avvicina), due quadretti teneri e mediocri appesi in sala, uno col Pierrot storto, l’altro col bambino in salopette e il fiore in mano che si incurva verso il basso, e poi c’è l’odore delle cose, Palermo è una parola che si annusa, il cucinato depositato in grumi, in cucina e nelle stanze intorno, il fritto mescolato al cotto, i vapori a volte dolci a volte cupi, l’acquerugiola delle verdure, i limoni, l’aceto, le bucce, la vita tenace dell’organico, e poi il petrolio dei detersivi, il bicarbonato, l’acqua e l’amido mescolati nell’appretto, l’odore del peltro (il piombo che sfuma nel bismuto), quello di argilla solidificata che proviene dalle ceramiche in posa ai lati del Telefunken in soggiorno (l’odore del Telefunken in radica di noce; attraverso i graticci di plastica nera l’odore dei condensatori elettrolitici, dei commutatori, delle serpentine e delle resistenze, di un’elettricità ancora ingenua), in camera da letto l’odore di mandorle amare della colla che sbuca dal cratere della cartella, e l’odore del corpo, le striature d’erba giovane sulle ginocchia, il sudore esile nelle piegoline dove la pelle si increspa, la vascolarizzazione che trapela, il muschio il sapone il biscotto, la perspiratio insensibilis, i morsi, l’inguine, il sebaceo, e ancora Palermo è un rumore, il rimbombo della terraglia portaombrelli in un angolo dell’ingresso di servizio, il tinnire piatto dei due paladini appesi alla parete, Rinaldo e Il Moro, il ferrame povero – rottami cavallereschi – delle armature, il crepitio (e poi la fiamma e poi l’odore del gas che sibila nel naso) dell’accendino da tavolo Ronson Varaflame, lo spazio intorno rifratto deforme sulle superfici argentate, i colpetti secchi e sottili dei ferri da calza quando nel dritto e nel rovescio si incrociano le punte (e l’odore della lana – vergine, di concia –, il gomitolo e ogni singolo filo, lungo le fibre le particole di polvere che fanno prudere il naso), e poi, nelle notti già insonni a dodici anni, il variare dei respiri intorno, il fiato di cotone di mio fratello addormentato nel letto accanto al mio, dall’altra camera il sonno recriminatorio di mia madre, mio padre stretto su un fianco che gruga sordo come un colombo – ma Palermo, tutta Palermo, la sua intera molteplicità di spazio senza spazio e di persone che sono solo una (sono solo io, il punto di sintesi, il coagulo della moltitudine), coincide in tutta la sua realtà più profonda e irriducibile con un sapore di plastica industriale, quando la notte me ne sto capovolto sotto le coperte, i piedi sul cuscino, la testa in fondo al sacco delle lenzuola, io e il soldatino dell’indiano magro verde fissato in postura d’attacco, è sempre più notte, mi rannicchio, metto l’indiano in bocca, il sapore scende dalla gola al petto, risale attraverso il naso fino all’interno del cranio: non penso niente, non so niente: zitto e immobile ascolto la notte passare (fino a quando non mi addormento e ci sono i sogni, ma non sono i miei: nel buio sotto il lenzuolo, quando dentro il mio corpo le immagini animali nubificando si mescolano a quelle del sesso, alla paura e al desiderio, e a volte mi sveglio di colpo in lacrime, a sognare non sono io ma l’indiano chiuso in bocca).

Ecco, dunque, a che cosa corrisponde la parola Palermo. Per rendermene conto ci sono voluti anni e tantissimi equivoci, parole sbagliate, pensieri mal pensati, ma adesso so che tutte le volte in cui dico Palermo, tutte le volte in cui penso Palermo, io non sto davvero parlando della città, sto sempre evocando un fantasma minuscolo e prepotente che pretende di farsi nominare attraverso la parola che dovrebbe indicare il tutto e non una sua piccolissima parte: un fantasma che, mescolando spazio e tempo, è di fatto la mia origine. 

Lo spazio – quello che ho descritto – corrisponde ai centonovanta metri quadri di un appartamento nel quartiere dove tra gli anni Sessanta e i Settanta va a risiedere la nascente media borghesia cittadina, mentre il tempo combacia soprattutto con gli anni Settanta dilatandosi ancora fino alla prima parte degli Ottanta (dunque un tempo anteriore a una mia comprensione consapevole delle cose, ma del tutto coincidente con quello stato di incessante attivazione sensoriale che rende il corpo di un ragazzino una specie di inesauribile recettore di fenomeni). Tutto ciò che sta intorno – il resto della città, avrebbe senso obiettare, e neppure tanto timidamente, fra l’altro un resto di dimensioni tali (centosessanta chilometri quadrati meno centonovanta metri quadri) da poter essere considerato la città tout court – per me è ridondanza, qualcosa tra la bugia e l’impostura: sforzandomi posso arrivare a concepire che tutto quello spazio esista, ma in astratto, e comunque sempre come un abuso: la vera unica città in cui io abbia mai abitato (e che ininterrottamente mi abita come un sapore nella bocca), l’unica Palermo davvero inconsapevolmente e dunque tragicamente ed euforicamente percepita, è quel mucchietto di metri quadri mescolati a un mucchietto altrettanto sparuto di anni (è quel frammento di plastica verde a forma di indiano che custodisco nella mia bocca per proteggerlo dal mio stesso incendio).

Allora ha senso chiedersi: di che cosa parlo quando parlo di Palermo? Ovvero: nel momento in cui la città è quanto ho fin qui descritto – l’appartamento come giacimento sensoriale, come unico capitale che negli anni, dissipandosi, si è raffinato, come patria inconsapevole alla quale non è possibile ritornare se non con l’immaginazione e col linguaggio –, che cosa vuol dire la parola Palermo? La parola che è l’origine, l’origine che è il fantasma, il nome con cui – solo dicendolo – dovrei prendere e invece perdo, perché la parola che si forma non è un nome ma un verso, un gorgoglio (quando provo a nominare l’origine non riesco a farmi capire perché parlo sempre con un indianino verde nella bocca), approssimazione, abbozzo, un vocabolo larvale, nascente e caduco, in embrione, una parola-nube, mai solida, naturalmente rarefatta.

Di un’origine è possibile fare tante cose. C’è chi la idealizza, chi la demonizza, chi ne è orgoglioso, chi se ne vergogna. C’è chi l’origine la ammira come un idolo religioso, chi la contempla come si contempla la materia fecale, chi la fissa come il cobra la mangusta, o come la lepre immobile sulla carreggiata davanti ai fari della macchina. 

A quarantotto anni appena compiuti anch’io dovrei trovare un modo per avere a che fare con la mia origine: un modo per usarla. Quello che ragionevolmente dovrei fare è venire fuori dal sacco delle lenzuola, sistemare l’indiano sul comodino, alzarmi, percorrere il corridoio, aprire la porta dell’appartamento, scendere le scale, uscire dal condominio di via Sciuti 130, allontanarmi in una direzione qualsiasi, verso la barriera di fuoco che poco a poco dovrei spegnere per poi raccogliere la cenere, ricomporla, compattarla, farne tessuto, ripristinare la forma della città intera: a quel punto potrei finalmente uscire da un significato della parola Palermo, entrare in un altro. 

Tutto questo però non accade perché l’origine, che in un determinato spazio e per un determinato tempo è stata la mia unica realtà, negli anni è diventata una forma di irrealtà – e l’irrealtà è il mio unico patrimonio.

Dunque Palermo è il segreto perfetto, quello che si occulta rivelandolo, che si tace dicendolo.

E allora ogni volta che dico Palermo, che penso Palermo, provo a dire qualcosa che so ma che non conosco, cerco di toccare ma brancolo, dove dovrebbe esserci certezza c’è presentimento, dovrei stare in qualcosa di saldo ma sto in una lacuna. 

Perché la parola Palermo è ciò che non si può dire. 

Una parola letteraria.

Palermo – l’origine, il fantasma – è il sogno di un indiano.

Racconto apparso su Palermo Atlas, qui: https://www.humboldtbooks.com/it/book/palermo-atlas-english-ed, e sul sito di Poetarum Silva.