Lo studio di Sciascia
di Giuseppe Schillaci
©Fabio Sgroi
Per uno scrittore siciliano come me, Leonardo Sciascia rappresenta un maestro. E in tempi in cui i maestri scarseggiano, averne uno è un lusso che devo dimostrare di potermi permettere.
Per farlo, ormai da qualche anno, vado in visita alla Noce, nella casa vicino il paese di Racalmuto, in provincia di Agrigento, dove Leonardo Sciascia scriveva i suoi libri e invitava gli amici più intimi. Ad accogliermi nella casa della Noce è suo nipote Vito Catalano, la moglie polacca e le figlie.
Vito ci tiene a ricordarmi che qui, nella casa della Noce, tutto è rimasto uguale per rispetto alla memoria del nonno. Dopo un pranzo italo-polacco, Vito mi accompagna in pellegrinaggio al piano di sopra, dove c’è lo studio di Sciascia. Già la scala, con le sue mura tappezzate di mappe siciliane, mi fa capire che ci stiamo addentrando in uno spazio particolare, sobrio e magico al contempo. Superata una vecchia libreria traboccante di vecchie edizioni italiane e francesi, sulla destra di uno stretto corridoio, ecco aprirsi lo studio di Sciascia: una piccola camera con lo scrittoio e la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22 di quel colore unico, un verde acqua bluastro che potremmo definire “color Lettera 22”. Lo studio di Sciascia sembra la cella di un monaco amanuense, o anche l’ufficio di un ragioniere di paese : “Tutto è come l’ha lasciato il nonno”, mi ripete ancora Vito, come se non si vedesse, o come per volersi giustificare da eventuali incaute intrusioni. Certo, essere il nipote di Leonardo Sciascia deve essere una bella responsabilità, una missione che Vito porta avanti con cura filologica delle “cose del nonno”.
Lo studio di Sciascia è un microcosmo in cui risuona tutta l’opera dello scrittore siciliano. A partire dalla caricatura ottocentesca che campeggia sullo scrittoio, proprio dietro la sedia su cui scriveva: è una parata di scrittori francesi, più o meno noti, da Balzac a Hugo, che avanza baldanzosa sotto la scritta “Le grand chemin de la postérité”. Ecco la sferzante ironia di Sciascia e la passione per la letteratura francese, a cui fa eco, sulla destra, la caricatura di Voltaire, in un disegno dell’epoca, a testimonianza del culto della ragione a cui il maestro di Racalmuto dedicò la sua opera. Un culto sempre messo in crisi, come tutte le fedi profondamente vissute, senza alcuno zelo religioso, ma con una tensione costante per la ricerca e la consapevolezza di una qualche verità.
Ai lumi dei filosofi e dei grandi romanzieri francesi ribatte, sulla parete di fronte, un documento seicentesco in latino, che a ben guardare è una condanna del Tribunale dell’Inquisizione spagnola di Palermo: ecco l’ombra spagnolesca, il lato oscuro dell’uomo, a testimonianza del destino della terra di Sciascia, una Sicilia poco illuminata dalla ragione, ma semmai arsa dalle fiamme del potere e soffocata dal buio dell’oscurantismo. Con questa contrapposizione si spiega la sua passione per la Francia dell’arte e delle scienze, il volgersi alla Ragione come antidoto all’occulto del potere, agli intrighi della corruzione, alle trame dell’ingiustizia, ben sintetizzata anche dalla stampa delle “carceri” di Giovanni Piranesi. Queste due immagini, l’Inquisizione cattolica e le carceri, erano sempre davanti agli occhi dello scrittore, come a sfidarlo, a ricordare un’altra ossessione di Sciascia: lo Stato di diritto e le sue caricature pericolose, orribili.
La Spagna, poi, altro amore e odio di Sciascia, fa capolino anche sul disegno autografato di Picasso dedicato al poeta Antonio Machado. La Spagna cattolica e superstiziosa che ha governato per secoli la Sicilia e a cui sono state addossate le colpe del mancato sviluppo del Meridione d’Italia, dell’origine della Mafia e della corruzione, della miseria e dell’ignoranza borbonica… accusa a cui Sciascia, col suo spirito critico e indagatore, non ha mai creduto. Le cose sono molto più complesse, sosteneva Sciascia, ma vanno analizzate con cura e raccontate con semplicità, per sgarbugliare la matassa dell’impostura, sempre in agguato tra le righe della storia ufficiale. In questo suo atteggiamento non c’era nulla, ovviamente, del complottismo contemporaneo, disinformato e disinformante, ma si trattava di una consapevolezza antica, pervasa dalla passione per gli studi storici, dalla capacità di saper decifrare i codici dell’ideologia e della propaganda.
E infine, sulla parete di sinistra, ecco due piccole fotografie posizionate in uno strano ordine geometrico, come a sorreggere lo scrittoio di Sciascia, due ritratti che raffigurano i maestri siciliani Verga e Pirandello: il verismo di Verga, la necessità di raccontare il reale, la cultura contadina, lo sfruttamento dei più deboli; e l’amara ironia di Pirandello, il maestro dei maestri, colui che ha fatto filosofia con la letteratura e letteratura con la filosofia, lo scrittore che ha indagato la follia dentro di noi, il teatro lì fuori e le maschere sul volto di ognuno.
Mi attardo sull’immagine di Pirandello, sui bastoni di Sciascia sistemati in un angolo, in basso, su alcuni libri, pochissimi, lasciati lì, nella vetrinetta di fronte. Poi Vito mi esorta a uscire, con garbo, come invitandomi a lasciare in pace il nonno, che sembra lì, alla sua Olivetti “Lettera 22”, felice di aver ricevuto questa visita, ma in attesa che lo si lasci in pace per rimettersi a lavorare.
Scendo le scale e spunta un’altra immagine, quasi nascosta, di cui non mi ero accorto. È un ex-voto popolare che raffigura un uomo elegante e una donna in posa da incantatrice. Vito mi spiega che l’ex-voto apparteneva alla nuora di Sciascia, che lo aveva fatto fare per scongiurare che il figlio si innamorasse di quella donna perversa e malvagia raffigurata sul quadro. Ecco che la sensualità e le credenze popolari, magiche e religiose, spagnolesche se vogliamo, fanno ancora capolino nel mondo di Sciascia, seppur in un sottoscala, come se il maestro di Racalmuto volesse reprimerle per onta o per paradossale superstizione.
Vito prepara il caffè. Lo beviamo fuori, in terrazza, guardando il panorama, mentre le sue figlie di otto e cinque anni suonano il violino; Sciascia avrebbe sicuramente apprezzato la loro grazia. Dalla casa della Noce si vede tutto intorno, a trecentosessanta gradi. Se potessimo definire uno scrittore da ciò che vede dal posto in cui scrive, la vista panoramica di Sciascia potrebbe sovrapporsi perfettamente ai temi e alle figure della sua opera. Sciascia, dalla Noce, vedeva tutto: la villa del barone e quella del mafioso, il paese vicino e le campagne intorno, alberi, colline, e in fondo i Monti Sicani. Sciascia vedeva tutto, tranne il mare, come se fosse prigioniero di questa isola, della sua storia e delle sue contraddizioni, della sua bellezza e della sua arroganza.
Ho scritto che dalla Noce si vede la villa di un mafioso, ma sarebbe il caso di aggiungere una precisazione: Vito mi spiega che lì ci andava da bambino, col nonno, per assaggiare il formaggio di pecora, quando quel posto era ancora un caseificio di campagna, e cioè prima di essere acquistato dal mafioso di cui sopra, il quale ha ingrandito il vecchio casale, con nuovi muri e orrende finestre d’alluminio. La nuova costruzione è stata innalzata qualche anno dopo la morte di Sciascia, come se il mafioso non osasse farlo finché lo scrittore fosse ancora in vita.
Questa villa sciatta e sgraziata mi sembra il simbolo di un tempo crudele che non riesce a volgersi alla luce della Ragione, ma rinnova meccanismi di oppressione e di bruttezza. Come se, nella Sicilia che fu Magna Grecia, menzogna e bruttezza fossero concetti legati per sempre, in opposizione alla verità e alla bellezza, che Sciascia ha rigorosamente cercato.
La Sicilia come metafora, recitava il titolo di un libro-intervista di Marcelle Padovani al maestro di Racalmuto, e mi verrebbe d’aggiungere anche “la Sicilia come ossessione”. E infine, per me, “Sciascia come ossessione”: la necessità di illuminare gli intrighi, non per il piacere consolatorio di risolverli, ma per esplorarne la complessità, raccontare il mondo per quello che è, la sua ingiustizia e la sua beffarda bellezza.
L’appuntamento alla Noce, con Vito, è per il prossimo anno, come sempre a ridosso di ferragosto, per discutere dei nostri progetti e ricordare suo nonno: entrare nello studio di Sciascia, per non più di cinque minuti, e restare lì, in silenzio, a scrutare l’Olivetti “Lettera 22”, in questa piccola stanza che era il faro di Sciascia sulla realtà, il suo esilio dalla realtà, al centro di un’isola senza mare.