De Chirico, ai confini della realtà

di Gianni Cudazzo

Giorgio De Chirico, L’incertezza del poeta, 1913, Photo © Tate, Dist. RMN-Grand Palais / Tate Photographe.

Piazze vuote, spazi misteriosi e in apparenza abbandonati, scenari muti che rimandano al silenzio e ai tempi sospesi che hanno avvolto le nostre città durante il confinamento. Alcuni quadri sembrano rappresentazioni fortemente suggestive di questo vissuto…

Certo, la scelta della mostra proposta dai musei d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi, insieme all’Hamburger Kunsthalle di Amburgo sembra straordinariamente legata all’attuale disagio ma è ovviamente dettata da ben altri motivi, legati all’importanza della pittura di Giorgio De Chirico (1888-1978) nell’evoluzione dell’arte moderna. Bisogna entrare nei suoi campi prospettici irreali, solcati da enigmatiche ombre per coglierne l’intensità e svelarne i rebus degli insoliti simboli legati a elementi autobiografici, mitologici o sintomatici della disumanizzazione e meccanizzazione subita dall’uomo all’alba della Grande Guerra.

Nato in Grecia e formatosi nel crogiolo della cultura classica, poi influenzato dal tardo romanticismo tedesco (allievo nel 1906 all’Accademia delle Belle Arti di Monaco, scopre in Germania il pensiero di Nietzsche e di Schopenhauer), De Chirico sviluppa nell’Italia convulsa dall’arte dei Futuristi le basi di una nuova concezione artistica “metafisica” (al di là delle cose fisiche), insieme al fratello minore Alberto Savinio (Andrea Francesco Alberto de Chirico, scrittore, pittore e compositore, tra gli ispiratori del movimento Surrealista).

È a Parigi però che la sviluppa elaborando un vocabolario plastico peculiare, a contatto con le rivoluzioni pittoriche moderniste a cavallo: Dadaismo e Surrealismo. La sua singolarità affascina le personalità artistiche dell’epoca, tra cui Pablo Picasso, Guillaume Apollinaire, André Breton o il celebre gallerista Paul Guillaume, suo primo mercante, che lo rappresenta sino agli anni Trenta (Ritratto – premonitorio – di G. Apollinaire, 1914 / Il cervello del bambino, 1914).

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Giorgio De Chirico, Ritratto (premonitorio) di Guillaume Apollinaire, 1914, Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais / Adam Rzepka, © ADAGP, Paris, 2020.

La mostra prende in conto due periodi chiave della produzione di De Chirico; quello del suo primo soggiorno parigino appunto (1911-1915), allorché concepisce il cuore stesso della sua opera e delinea un percorso intriso d’influenze artistico-filosofiche assorbite tra Monaco, Torino e Parigi e quello del soggiorno a Ferrara (1915-1918), durante la guerra. Arruolatosi col fratello nell’esercito italiano, proprio nella città emiliana, incontra nel 1917 il pittore ex futurista Carlo Carrà nell’ospedale militare; dalla loro intensa collaborazione, la sua pittura prenderà l’esito di una determinante tendenza estetica condivisa con altri artisti, manifestazione di un’espressione pittorica tutta particolare, denominata in seguito “scuola metafisica”. In quest’ottica, una sessantina di quadri, sculture e disegni di De Chirico dialogano nella mostra con opere di Arnold Böcklin, Max Klinger, Alexander Archipenko, Alberto Magnelli, o ancora di Carlo Carrà e Giorgio Morandi (C. Carrà, Madre e figlio, 1917).

Secondo De Chirico l’arte non deve legarsi alla realtà, poiché il suo scopo non è quello di rappresentare le cose così come sono ma di scoprire la via primaria per mostrare il lato insolito e misterioso che si cela dietro l’apparente banalità della vita quotidiana. Perché un’opera d’arte diventi immortale, dice: «è necessario che esca completamente dai confini dell’umano: il buon senso e la logica la danneggiano», annullano cioè il senso di mistero percepibile entro e oltre la visione reale. L’arte metafisica si avvale pertanto di un nuovo linguaggio, alogico, creando costantemente un clima di silente magia, priva di dramma e di azione, alla ricerca del meraviglioso che affiora nel quotidiano.

L’enigma, il mistero, lo spaesamento sono questi i nuovi soggetti di questa pittura. Il repertorio figurativo della Metafisica costituisce, insomma, un universo simbolico da interpretare, dove gli oggetti, accostati in maniera insolita o anacronistica, sono la chiave per risolvere l’arcano. Si capisce come l’arte di De Chirico appassionasse i Surrealisti! (La conquista del filosofo, 1913-14).

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Giorgio De Chirico, Il Ritornante, 1917-1918, Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais / Georges Meguerditchian © ADAGP, Paris.

E così le sue piazze immobili sono interrogativi sulla vertigine; aperture e chiusure nel conscio e nell’inconscio. Emanano una sorta di attesa sospesa, interrotta solo da treni che da un lato rimandano al viaggio verso nuovi significati, avendo la Metafisica rivelato l’assurdità del mondo (La ricompensa dell’indovino, 1913); dall’altro, al ricordo del padre Evaristo, ingegnere ferroviario scomparso nel 1905, esorcizzato molte volte da De Chirico nella figura del “ritornante” con occhi chiusi, pizzetto e baffi (Il Ritornante, 1917-18). Nelle sue composizioni, i manichini incarnano l’aspetto moderno della statua (già simbolo di una specie di fantasma dell’uomo), scelti dall’artista per la qualità plastica, ma anche in quanto calchi, “duplici” quindi. In un certo senso, rappresentano anche i due pilastri della modernità classica, cioè l’individuo e l’universalità: il riflesso dell’inconscio (rispecchiamento o ombra). S’impongono, nella tela vuota dall’uomo, come un sotterfugio dell’essere umano. Essendo privi di occhi, orecchie e bocca, evocano l’impossibilità di vedere, udire e parlare; aleggiano tra l’animato e l’inanimato. Tuttavia, rimandano ai poeti e gli indovini della mitologia classica, capaci di indagare la realtà oltre la sua apparenza fenomenica.

Stati d’animo melanconici, di una solitudine eroica ed epica; simboli forse di un’umanità che rischia di disumanizzarsi (Il viaggio senza fine, 1914). Quanto ai suoi “trofei”, essi rappresentano il recupero della Memoria, un concetto in questo caso ben diverso dal sogno e dall’incubo esaltati dai Surrealisti (Il sogno di Tobia, 1917). Chiaramente “surrealista” è invece, il quadro L’incertezza del poeta (1913) – scelto per il manifesto della mostra – che mette in evidenza un’esistenza fatta di sogno, in una sorta di universi paralleli; un confronto-scontro tra poesia e pittura. Qui, una piazza con archi classici fa da fondo a un busto di Afrodite in sinuosa torsione e un casco di banane che sta marcendo. In lontananza passa e sbuffa un treno. La prospettiva distorta e le lunghe ombre spigolose destabilizzano le convenzioni dello spazio pittorico e temporale, mentre le banane deperibili danno un senso di contemporaneità e immediatezza. Le numerose allusioni al mondo classico nei dipinti di De Chirico non illustrano necessariamente degli aspetti del passato, ma fungono da segni o simboli dell’immaginazione e della memoria. I colori di questa metafisica sembrano filtrati anch’essi da una luce temporale, viva e oscurata al tempo stesso, quasi come una patina “primitiva” che diventerà espressione letteraria del suo immaginario visivo e artistico con la pubblicazione del suo romanzo-epopea Ebdòmero nel 1929. Per chi scoprisse per la prima volta De Chirico grazie alla mostra, è importante sapere che nella sua longeva carriera, la Metafisica non è l’unico campo d’azione dell’artista.

Se in Francia, ai suoi esordi, frequenta le avanguardie parigine grazie ad Apollinaire, integrando sottilmente le lezioni plastiche di Picasso, Matisse, Modigliani, Brancusi o Archipenko, in Italia, nel primo ventennio del Novecento, prende le distanze dall’attivismo rivoluzionario e la mitologia d’avanguardia del Futurismo incalzante; considerandolo come un fenomeno di decadenza etica mascherata dall’idea illusoria del progresso. Lui, si definisce «Pictor classicus» e in quegli anni, pur conservando gli interrogativi metafisici, fonda a Roma il gruppo Valori plastici (1918-1922) che sostiene un ritorno all’arte classica per riscoprire “il rigore della pittura”, riaffermando una concezione idealistica dell’arte, basata sulla tradizione italiana e incentrata esclusivamente sui “valori plastici”, appunto. Il Pittore si volge verso i maestri del Rinascimento italiano, poi del Barocco, vivendo dice: «le gioie degli artigiani del XVI secolo». Il suo cambiamento di stile provocherà l’incomprensione dei Surrealisti che al suo ritorno a Parigi, nel 1924, lo accuseranno di “tradimento artistico”. Ritornerà a una certa “neometafisica” solo negli anni Quaranta.

Malgrado l’episodio di “scomunica” dei Surrealisti, ciò non toglie che Ernst, Dalì, Tanguy, Magritte o Miró devono tantissimo alla mitologia moderna creata da De Chirico, è evidente! E nella mostra dell’Orangerie, a distanza di quasi un secolo, il maestro della scuola metafisica riesce a tele-trasportarci ancora ai confini della realtà artistica del primo Novecento, attraverso i suoi stati mentali, dallo stato onirico a quello visivo, con fluidità e modernità immutate. L’esposizione proseguirà in Germania, presso l’Hamburger Kunsthalle di Amburgo dal 21 gennaio al 25 aprile 2021. x

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GIORGIO DE CHIRICO. LA PITTURA METAFISICA

Musée de l’Orangerie, Jardin des Tuileries, Paris

Fino al 14 dicembre 2020

Prenotazione obbligatoria:

www.musee-orangerie.fr