Dimmi in che lingua sogni…

Foto di Mario Ferrara

 

 

Lingua materna  per le sedute di psicoanalisi?

Ricevo nel mio studio di Parigi molti pazienti italiani. “Voglio parlare nella mia lingua” mi dicono quasi tutti, sottolineando la difficoltà che incontrerebbero nell’affrontare argomenti intimi in una lingua straniera. La lingua materna contiene i suoni dell’intimità, dei primi ricordi, del primo approccio al linguaggio, del primo strumento di comunicazione delle emozioni, dei sentimenti, degli stati d’animo. Ritrovare le parole che hanno colpito, valorizzato o mortificato un soggetto dai primi anni di vita in poi, è per molti più facile quando viene fatto nella propria lingua. La lingua madre ha un sapore, un odore, un gusto, un colore, unici e particolari, essa contiene le sfumature del primo contatto con gli altri esseri umani.  Contiene le prime parole che hanno consolato, che hanno risposto al grido del neonato, che hanno dato forma all’urgenza del suo bisogno, trasformandolo in domanda e in desiderio. Nell’intimità della seduta analitica, spesso le parole dimenticate riaffiorano con la forza antica del loro suono originario, restato schiacciato per anni, rimosso, dimenticato, ma operante comunque in modo sotterraneo e corrosivo.  Tutto questo è vero, lo sappiamo e lo ritroviamo ogni giorno nell’esperienza clinica, tuttavia non è sempre univoco il significato di “lingua-madre”.  Che cosa intendiamo con queste due parole? Ci riferiamo alla lingua italiana? Credo che la cosa sia molto più complessa. All’interno della lingua italiana, ciascuno ha la sua lingua-madre, la lingua originaria che con il suo suono ha colpito nella carne l’essere vivente, umanizzandolo.  E’ una lingua diversa per ogni essere parlante, anche quando si tratta per tutti dell’italiano.  E’ una lingua primordiale, fatta di sonorità deformate dall’uso infantile della lingua, di parole non ancora separate fra loro, di agglomerati di suoni senza soluzione di continuità. L’approccio alla lingua comincia con la lallazione del lattante, che pur avendo un’assonanza con la lingua parlata dagli adulti, non è ancora né italiana, né altro. Pian piano i suoni si modellano un po’, ma portano per un po’ di tempo la traccia di qualcosa di grezzo, di impastato, di non finito.  Questo linguaggio che non è ancora una lingua, è particolare e unico per ciascuno. Lacan lo chiama la “lalingua”  riferendosi a questa dimensione primaria e carnale della lingua. Quando in analisi il paziente ritrova qualche frammento di questo linguaggio, accede anche alle prime impronte che la lingua ha lasciato nella sua esistenza.
Allora, sì, è vero, fare psicoanalisi nella propria lingua materna è una facilitazione, ma solo se questo porta ad andare oltre la struttura formale della lingua, e permette di accedere alla propria, unica e personalissima, lingua-madre.
Quando si è italiani e si vive in Francia, la lingua “straniera” comincia a interferire con la propria, le parole francesi tendono a premere su quelle italiane. Un’espressione risulta all’improvviso più efficace in francese e s’impone in una frase italiana, una sonorità si mescola e deforma un termine della propria lingua. Questa danza infinita delle due lingue, accade malgrado noi, precede il pensiero, ci sorprende e a volte ci innervosisce. Ci chiediamo se siamo noi a parlare o se siamo “parlati” dalla lingua.
Per me, psicoanalista italiana che opera in Francia, il mio lavoro con i pazienti italiani, comporta un continuo ascolto di questa danza e di questa lotta delle due lingue.
Se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, come dice Lacan, allora qual è la lingua del sogno, via regia dell’inconscio?  Noi, italiani che viviamo da più anni in Francia, in quale lingua sogniamo? Ognuno risponda per sé a questa domanda, perché non c’è nessuna regola standardizzata. La lingua del sogno è inventiva e straordinaria, c’è chi sogna in italiano, chi in francese, chi passa da una lingua all’altra, chi produce costruzioni ibride fatte di vari pezzi delle due lingue.
Claudia, una paziente italiana, che vive a Parigi, in un sogno legge una frase su un muro, mi dice che non ricorda bene se legge: “je n’aime que toi” oppure “je n’aime pas toi”.  Il dubbio riguarda le due parole: “que” ou “toi”?  Nel raccontare il sogno, riconosce che nella seconda frase c’è un errore. In francese la frase “je n’aime pas…” non può essere seguita da “toi”, ma piuttosto da “ça”. La frase corretta, dice la paziente, sarebbe: “je n’aime pas ça”.
Attraverso il metodo delle libere associazioni, Claudia riconosce che “je n’aime pas ça” è la frase che lei, giovane anoressica, dice sempre a tavola, quando rifiuta un piatto proposto. In Italia, precisa Claudia, dico: “non mi piace!” ma in francese, si usa il verbo “amare” anche per i cibi. A chi Claudia dice “non mi piace”/”non ti amo” allontanando il piatto? La figura della madre di Claudia si profila nel lavoro analitico: una madre che forza la figlia a mangiare, che cerca disperatamente di nutrirla.  La frase del sogno con l’ambiguità che il verbo “amare” comporta nella lingua francese evoca una madre minacciosa che armata di piatto e forchetta tende a fare della figlia l’oggetto esclusivo del proprio amore e del proprio appetito. L’elaborazione del sogno oppone all’esclusività dell’amore materno (soffocante), “je n’aime que toi”  il rifiuto della seconda frase: “je n’aime pas toi/ça”.
A partire dall’elaborazione di questo sogno in cui la lingua francese è in tensione con quella italiana, Claudia comincia a modificare il suo rapporto con il cibo, e giunge alla consapevolezza che il suo rifiuto di mangiare è una difesa contro un amore materno troppo soffocante.
Spesso, come in questa vignetta clinica, nelle analisi con i miei pazienti italiani la questione della lingua-madre e della lingua straniera si pone con insistenza e con interesse: ciascuno gestisce le interferenze e le opposizioni linguistiche in modo diverso e personale. Tuttavia la vera questione non è il fatto che la lingua straniera si imponga sulla lingua materna, ma la capacità di riconoscere in sé qualcosa che è “straniero” a prescindere dalla lingua usata. Qualcosa di “straniero” e nello stesso tempo “familiare”. Freud lo chiamava: “lo straniante”, “il perturbante” (l’Unheimlich), e si riferiva a un elemento intimo che ci turba e ci affascina allo stesso tempo, che rigettiamo come non facente parte di noi, ma che lavora dentro di noi, a volte contro di noi.  Una psicoanalisi condotta fino alla fine permette di pacificare la nostra paura nei confronti del nostro “straniante”.  Ci mostra che l’angoscia e lo spaesamento vengono dall’interno di noi, e ci insegna a non confondere il nostro “straniante” con lo “straniero” che arriva da lontano.