Inconscio e lingua materna

di Cinzia Crosali

 

PSICOANALISI E LINGUA MATERNA

Da tempo ricevo a Parigi italiani che vivono in Francia e vogliono fare un percorso di psicoanalisi nella loro lingua madre. Quasi tutti sanno parlare benissimo la lingua straniera e potrebbero facilmente consultare un collega francese, ma ciascuno di loro sente di voler affrontare l’intimità della propria esistenza nella lingua che ha imparato da bambino, che ha parlato nell’infanzia, che gli è stata trasmessa dalla madre o da chi ne ha fatto le veci. Se per tutti loro la lingua della famiglia d’origine è l’italiano, in realtà ciascuno parla con la sonorità unica della propria origine, ciascuno parla cioè quella lingua che così bene Natalia Ginzburg aveva individuato nel suo libro Lessico familiare[1], e che riguarda il gergo unico della propria storia familiare. Nessun bambino può imparare a parlare se non c’è un adulto, o un altro essere umano che si rivolge a lui in un’interazione di parola. Inoltre c’è un tempo preciso e precoce che deve essere rispettato perché questa trasmissione produca la facoltà del linguaggio, un tempo che una volta passato, non può più essere recuperato. Il mito del bambino selvaggio che cresce solo nella giungla e che può un giorno essere educato non corrisponde alla realtà. Jean Itard, medico e educatore cercò di insegnare a parlare al ragazzo selvaggio, Victor dell’Aveyron, trovato completamente solo e ignaro del linguaggio umano, nei boschi del Massiccio Centrale della Francia all’inizio dell’800. Il suo educatore impotente si chiedeva:  “se non è sordo, perché non parla?”[2]insistendo inutilmente a far produrre parole al ragazzo, fino a doversi rassegnare, abbandonando il suo allievo ad un mutismo incurabile.

LA LINGUA MADRE È NUTRIMENTO 

Il linguaggio si trasmette insieme al latte, all’amore, alla cura del neonato. Nell’interazione che inizia anche prima della nascita, la parola dell’adulto di riferimento, di solito della mamma, serve a umanizzare il nuovo nato, a trasformare il grido primario del nascituro e del lattante in una parola significativa, a trasformare il pianto prima in un appello, poi in una domanda. La prima lingua, la lingua madre, non si insegna, essa passa dalla madre al bambino, insieme al latte, allo sguardo, al sorriso, al calore e all’odore. Il bambino ripete e modula i suoni sul modello della voce materna. Se nessuna voce sorge nello scambio prezioso tra l’adulto e il bambino, non basteranno l’alimentazione e le cure per far crescere bene il neonato. Lo psicoanalista viennese René Spitz aveva condotto delle osservazioni su bambini, che, abbandonati in orfanatrofio, erano nutriti e lavati regolarmente, ma non avevano contatti relazionali sufficienti. Dopo tre mesi di carenza di contatto i bambini manifestavano un deperimento generale, apatia e rallentamento motorio e oculare. In assenza di parola e di scambio, non situandosi nel desiderio di nessuno, essi stessi non sviluppavano nessun desiderio di vita e molti di loro si lasciavano morire.

Già nel XIII secolo l’imperatore Federico II di Svezia, aveva cercato di capire quale fosse la prima lingua, la lingua naturale che un umano avrebbe parlato se non ne avesse ascoltata alcuna. L’imperatore si chiedeva : “qual è la lingua originaria? L’egiziano, il frigio, l’ebraico?”. Decise allora di far allevare un gruppo di neonati nel silenzio. Sarebbero stati nutriti regolarmente e curati da balie, ma le nutrici avevano il divieto di rivolgere loro la parola. Si narra che i bambini, così privati di interazione verbale e affettiva, si ammalarono e morirono tutti. La lingua materna non è dunque un solo strumento di comunicazione, è soprattutto un elemento costitutivo della crescita e dello sviluppo armonioso della personalità.

LA LINGUA DEI SOGNI

Nell’“Interpretazione dei sogni” Freud dice che il sogno è un rebus e che bisogna leggerlo e interpretarlo come tale. Ma come si fa a trasportare un rebus da una lingua all’altra? E’ impossibile. Se un sognatore italiano vede per esempio nel sogno una “scure” e nel racconto del sogno associa ciò che ha visto con l’aggettivo plurale femminile: “scure” (cupe, oscure…) egli apre improvvisamente la catena associativa su un’altra scena interpretativa. Ma questo vale solo nella propria lingua e resta intraducibile. Ecco perché in psicoanalisi, la lingua ha importanza nella sua materialità significante. Un altro paziente sogna di cercare una direzione e di provare sollievo quanto intravede in fondo a un sentiero un grosso crostaceo marino. Solo quando ascolta se stesso nominare l’animale: “uno scampo”, un’altra significazione gli appare evidente: il sollievo è prodotto nel sogno dalla gioia di aver trovato una “via di scampo”! Si tratterà poi di articolare queste significazioni con la situazione esistenziale attuale del paziente in analisi, per capire il messaggio dell’incnscio. Anche in questo caso il doppio senso significante, vale solo in italiano. Per questo motivo, Eduardo Weiss, psicoanalista italiano, quando tradusse “L’interpretazione de sogni “ di Freud dal tedesco all’italiano, sostituì alcuni dei sogni di Freud con i propri, cosa che fu assolutamente approvata da Freud che gli scrisse: “Il modo in cui lei traduce i sogni e gli atti mancati, sostituendo gli esempi con altri esempi che le sono propri, è naturalmente il solo esatto”[3]. Anche altre formazioni dell’inconscio, come i motti di spirito, i lapsus, gli atti mancati, le dimenticanze, i sintomi…hanno la stessa struttura del sogno, e vanno interpretati secondo il funzionamento dei significanti in una lingua particolare e non in tutte le lingue. La lingua materna, pur essendo composta, per un nostro connazionale, di parole italiane, non è identificabile completamente con l’italiano in modo univoco. In psicoanalisi la lingua materna di un paziente è impastata con le sue emozioni, con i suoni primordiali che lo hanno accolto nel mondo, con le emozioni, le eccedenze, con il piacere dello scambio di baci, carezze e latte materno. Può essere composta anche di parole dolorose, di parole offensive, di parole non dette, dei piccoli invisibili traumi dello svezzamento e del distacco dalla madre. La lingua materna di cui si tratta in analisi, è chiamata da Lacan la lalangueper far intendere la sonorità della lallazione del lattante che passa dai vagiti, dal pianto e dalle grida ai suoni articolati e umanizzati di una lingua data. E’ la madre, che con la sua presenza, con le sue cure, con le sue parole, permette e facilita questo passaggio. Questa lalangue  riemerge in psicoanalisi, e i nostri sogni, i nostri lapsus, i nostri sintomi sono costruiti con le tracce materiali di questa lingua originaria. La lalangueè anche il luogo dove nascono gli equivoci, i malintesi, le omofonie, i doppi sensi. Così, anche se parliamo tutti in italiano, la nostra lingua materna è particolare a ciascuno di noi. Non solo noi parliamo la lingua materna, ma ne siamo anche attraversati e costituiti, al punto che non potremmo mai separarcene, neppure quando impariamo un’altra lingua. La lingua madre non potrà mai essere silenziata, anche se la persona smette di parlarla.

Dante Alighieri nel suo libro “De vulgari eloquentia” scriveva che c’è una grande differenza tra l’apprendimento della prima lingua, e quello delle altre. Nel primo caso apprendiamo per imitazione, senza bisogno di conoscere le regole, nel secondo impariamo attraverso le studio della grammatica.

LA LINGUA DELL’INCONSCIO

La lingua materna è più vicina all’inconscio, perché è densa di tutte le sedimentazioni affettive che la compongono, essa struttura il mondo esteriore e le relazioni sociali, ma è strutturante anche per il soggetto stesso che la parla. Per questo gli analizzanti preferiscono fare un’analisi nella lingua madre. Pensano che l’analista li capirà meglio, ma sono essi stessi che riescono ad ascoltare il loro dire più profondamente. Pensano di padroneggiare meglio la lingua madre, ed è senz’altro vero, ma c’è anche un altro effetto, esso concerne la ricchezza straordinaria della lingua madre, una ricchezza che travalica il soggetto, che lo sorpassa. C’è un debordamento che permette al soggetto di dire, nella sua prima lingua, molto di più di ciò che pensa di dire, ed è in questo eccesso che va al di là del senso, in questo resto irriducibile, che l’analisi trova il suo interesse. Questa lingua madre, che pensiamo di essere noi a dirigere con pertinenza, è invece al posto di comando, essa ci conduce e ci costituisce in quanto soggetti parlanti e desideranti. Ne porteremo sempre l’eco e  la sonorità, si mescolerà ai nostri sogni e ai nostri lapsus, e ci aprirà la via, in analisi, alla struttura dell’inconscio.

[1]Natalia Ginzburg,  Lessico famigliare,  Einaudi 2010

[2]J.Itard, « Mémoire sur les premiers dévoloppements de Victor de l’Aveyron », 1801, in Les Enfant sauvages, L. Malson, coll. 10-18, 1964, p.158.

[3]Freud, E Weiss, Lettres sur la pratique psychanalytique, Privat, 1970, lettre du 7 septembre 1920.