Qualcosa che ha a che fare con l’arte

Intervista all’artista Marco Marchiani (Mavilla).

di Sirio La Pietra

Quando hai scelto di diventare un pittore?

Che io ricordi ho sempre dipinto, ma se dovessi dirti un momento in cui la mia passione per la pittura ha escluso qualcos’altro credo che sia stato per la prima volta quando avevo tredici anni, in occasione di una scelta appunto.

Dopo la prima media, che mi piaceva, chiesi ai miei genitori di cambiare indirizzo per fare qualcosa che fosse più attiguo alla mia passione per l’arte e l’istituto statale di Firenze sembrava la soluzione migliore.

Mio padre, che non era poi uno così facile da convincere, aveva pensato per me al liceo, non che il liceo mi dispiacesse come scelta, avessi avuto due vite li avrei fatti entrambi ma purtroppo ne abbiamo una e quindi cercai di fare la cosa che preferivo. Riuscii ad iscrivermi a questo istituto solo grazie a mia madre che, come puoi vedere, riuscì a convincere mio padre.

È per lei che firmo i miei quadri così – Mavilla – perché questo era il suo cognome e poiché è a lei che devo la mia identità di pittore.

Com’era questo istituto?

All’epoca era una cosa unica, una struttura di 15.000 metri quadrati vicino al giardino di Boboli. Avevo compagni che provenivano da tutto il mondo, da Londra, da Parigi, dagli Stati Uniti. C’era un rapporto diverso con l’istituzione scolastica; si viveva insieme la scuola tra insegnanti e studenti, ogni giorno dalle 8:00 alle 17:30 e questo faceva sì che tra docenti e alunni si instaurasse un rapporto di rispetto ma anche di amicizia, non ricordo un docente seduto dietro la cattedra a spiegare, i professori erano seduti tra noi a discutere o a realizzare qualche progetto.

Dopo partii militare, c’era la leva obbligatoria. Tornai all’istituto come insegnante nel 1969 fin quando non divenni vicepreside dell’istituto poco prima di andare in pensione nel 2000. Andai in pensione senza troppa nostalgia, si capisce il forte legame che avevo e che ho con l’istituto, ma la scuola stava cambiando in quegli anni. La figura del docente stava andando via via a confondersi con quella dell’impiegato e le persone incominciavano a chiamarmi vicepreside e non più vicedirettore. Il direttore dirige, guida l’andamento di una scuola, il preside presiede, sta lì e applica la legge, è una cosa diversa.

Ci racconti l’esperienza militare?

Per quanto questa sia stata un obbligo o, per meglio dire, una forzatura, imparai moltissimo da quell’esperienza. Fu una doppia forzatura per me se pensi che quello stesso anno vinsi il concorso per la cattedra di disegno dal vero all’istituto. Era la materia che preferivo ma dovetti rinunciare. Risiedevo in una caserma a Trapani e mi resi subito conto di trovarmi in un ambiente completamente diverso da quello in cui avevo vissuto prima di allora. Mi resi conto in quell’ambiente del grave problema di analfabetismo che viveva l’Italia in quel periodo – parliamo del 1963 – c’erano ragazzi provenienti dal profondo nord, dalle campagne piemontesi dall’alta Lombardia e altri dal profondo sud, dalla Sicilia, dalla Calabria. Alcuni di questi ragazzi non erano abituati a mangiare tre volte al giorno e quasi tutti non sapevano né leggere né scrivere a 21 anni. Capisci che era davvero complicato visto che l’unico modo di sentire le persone care, famiglie, mogli e fidanzate era scambiarsi lettere. Mi resi utile e scrissi lettere d’amore a moltissime fidanzate dei miei compagni, alle loro famiglie e imparai nuove espressioni dialettali che prima non conoscevo mentre i ragazzi lì, all’interno della caserma, frequentavano per la prima volta la scuola elementare.

Cosa cerchi di raccontare quando dipingi?

Cerco di capire il rapporto che c’è tra lo spazio e il tempo, di quanto sia autentica la relazione che c’è tra la realtà empirica e la memoria che la ricrea. Più che di raccontare cerco di dubitare quando dipingo.

Nelle tue opere si vedono spesso materiali insoliti e colori molto lavorati. Quanto è importante il materiale nel tuo lavoro?

Ho un rapporto profondo con la materia ma non solo per quanto riguarda la pittura ma credo sia un modo di vedere la realtà; sono rimasto colpito dalla lezione del filosofo Anassimandro che migliaia di anni fa sosteneva l’idea, che diviene sempre più attuale, secondo cui tutte le parte dell’universo sarebbero varianti di un’unica sostanza dunque considero la materia non solo come uno strumento per produrre un’opera ma in qualche modo, essa stessa l’opera. Il rapporto che ho con i materiali è qualcosa che per me si arricchisce ogni volta, nelle mie opere uso i materiali più diversi e do molta importanza alla preparazione del colore che ho in mente, a volte sono i colori stessi a suggerirmi le pennellate, mi capita di usare anche catrame, corda e spago nelle sculture anche se non mi considero uno scultore.

Come mai?

Siamo spesso portati a chiamare scultura tutto quello che vediamo in forma tridimensionale, io mi considero comunque un pittore anche quando faccio quella che è chiamata scultura. La pittura non è solo una tecnica, un mezzo, ma è una maniera di fare esperienza con l’oggetto. Ritengo che la pittura, per come la vedo io, sia qualcosa che è distaccato dall’oggetto in sé mentre credo la scultura abbia a che fare di più con la presenza dell’oggetto.

Nelle tue opere è possibile vedere raggruppate molte delle avanguardie della prima metà del novecento, dai russi, al cubismo, la metafisica fino al futurismo.

E’ vero, credo che il mio gusto estetico sia stato influenzato dai grandi maestri del ‘900 come Boccioni, Picasso, Malevic, De Chirico e lo scrittore Alberto Savinio, a questi però aggiungerei anche i maestri fiorentini rinascimentali che hanno equipaggiato il mio bagaglio visivo durante la mia formazione. Per quanto si possa cogliere, nei miei quadri, un riferimento che sia di stile e di atmosfera questi mischiati mescolati insieme credo che costituiscano qualcosa di nuovo e di personale. È una bugia che si inventa: non si inventa nulla ognuno viene guidato da quello che già c’è che poi riadatta secondo le proprie idee.

Si percepisce immediatamente nei tuoi quadri una certa oggettività del fare arte, una capacità e un’intelligenza nell’aver appreso perfettamente il linguaggio dell’arte. Quanto, della soggettività di un’artista, viene sacrificato in virtù della comunicazione al pubblico. Fare arte per te è un gesto liberatorio o uno strumento di comunicazione?

Entrambe le cose, a volte dipingo solo per me stesso ma questo sentimento di liberazione che provo è davvero fugace, è qualcosa che mi fa stare bene ma che ha troppo bisogno di ricrearsi continuamente, un’altra cosa rispetto all’emozione di condividere le mie opere con qualcuno. Ti racconto una cosa: il fabbro con cui collaboro per realizzare alcune delle mie opere non aveva mai avuto un rapporto con la produzione artistica, produceva utensili e altri oggetti; è un ottimo fabbro. Dopo diverse volte che io portavo queste opere alla sua bottega lui incominciò a espormi le sue idee sugli oggetti che creavo. Queste sue supposizioni e il relativo interesse andò via via a trasformarsi in una vera e propria passione; educò sua figlia piccola ad una sensibilità artistica, adesso sono moltissimi anni che io collaboro con lui, e sua figlia, che ora è diventata una brava storica dell’arte, ha scritto l’introduzione a uno dei miei libri d’artista che ho esposto a ‘’La tour de Babel’’ di Parigi.

Dunque per quanto la comunicazione possa limitare la mia soggettività credo che questo sia più soddisfacente dell’acquietarsi momentaneo di qualsiasi angoscia esistenziale.