Samuel Paty: la libertà di pensare

di Cinzia Crosali

 

Un professore è stato decapitato davanti alla scuola dove insegnava. Non è successo nel medioevo o durante un’orda barbarica al tempo dei Romani. È successo venerdì 17 ottobre 2020. Non è successo in Iran, in Siria, o in un territorio di guerra lontano, ma è accaduto accanto a noi, in un quartiere urbano uguale ai nostri, davanti a un collège come quello dove vanno a scuola i nostri figli e i nostri nipoti. La parola “decapitato” è rimbalzata su tutti i media, amplificando l’orrore del dramma. Se avessimo letto: accoltellato, colpito da una pallottola, ucciso, saremmo stati certamente e ugualmente scossi e inorriditi, ma questo termine di “decapitato”, apre con crudezza scenari apocalittici, rievoca immagini di barbarie e crudeltà senza fine. “Decapitare” non è un atto che appartiene alla violenza “ordinaria”, esso è collegato a una ferocia che solo l’odio più radicale può produrre.

Che dire di più di quanto non sia già stato detto e scritto su questo avvenimento? Come si può reagire davanti all’uso della religione come pretesto dell’aggressione violenta, come accettare che un tale atto sia compiuto… in nome di un dio?

La vittima, Samuel Paty, è un professore, ucciso per aver esercitato il suo mestiere, per aver trasmesso i valori della libertà di parola, di scrittura, di espressione e di vita, nelle sue classi. Un ragazzo, poco più grande dei suoi allievi, si è trasformato in un mostro ed è poi morto con il grido del suo dio sulle labbra. Che cosa lo ha portato a compiere questo atto? Quali maestri lo hanno ammaestrato, gli hanno inculcato l’odio e l’esigenza di massacrare chi è diverso da sé?  Attorno a questo ragazzo sono emerse durante l’inchiesta giudiziaria, altre figure oscure, personaggi conosciuti dai servizi di sorveglianza, attivisti dell’intolleranza, che operano liberi perché camminano sempre al limite della legalità, predicatori solforosi che seducono i giovani, armano le loro mani di coltelli e di odio, trasmettendo loro i falsi ideali della radicalizzazione di un islam violento e deformato.

Non sapremo mai le motivazioni profonde che hanno trasformato questo diciottenne in un barbaro assassino. Come non sappiamo fino in fondo che cosa spinga dei giovani nati in occidente ad aderire alle proposte jihadiste, e a intraprendere processi di radicalizzazione. In questi giorni sono stati messi sotto accusa i social network e più genericamente tutta la rete internet che veicola messaggi inaccettabili. Si invocano leggi di controllo più severo sull’uso di questi strumenti. Si aprono così paradossi logici sulla difficoltà di difendere la libertà d’espressione, limitando nello stesso tempo l’uso dei canali di comunicazione. Chi controlla chi? Cosa si può dire e che cosa non si può dire? È evidente che tutte le incitazioni all’odio e alla ferocia sono inaccettabili, ma è davvero sufficiente censurare la diffusione su internet di questa propaganda per arginare il fenomeno della deriva verso la violenza? Se queste incitazioni all’odio ottengono una risposta di adesione, significa che incontrano una domanda preesistente. Oltre a intervenire con il controllo e la censura su internet, assolutamente necessaria, occorre anche chiedersi di che domanda si tratta. Che cosa cercano questi ragazzi che vanno a gonfiare le fila degli integristi violenti? Diversi profili si disegnano. Alcuni cercano di uscire da un anonimato disperante, molti cercano di diventare degli eroi, altri hanno bisogno di compensare le insufficienze delle loro identità, il vuoto di ideali e di progetti, l’assenza di un sogno che sorregga la voglia di costruire e di vivere. Ferite profonde legate a sensazioni di fallimento, di esclusione, marginalità e inutilità, possono trovare un “balsamo” nella proposta jihadista, che promette riscatto, vendetta e potenza. Questa proposta può riempire di senso il vuoto esistenziale ed esaltare il sacrificio di sé, inneggiando alla figura del “martire”, che va incontro alla propria morte per distruggere l’infedele.

Non basterà però imbavagliare internet, non basterà impedire o vietare, se contemporaneamente non saranno proposti contenuti e valori che diano un senso all’esistenza.

Abbiamo bisogno di riflettere sui cambiamenti epocali e renderci conto che tutto l’ordine simbolico è cambiato nella nostra società. Lo psicoanalista Jacques Alain Miller nel 2015 notava[1] che l’Islam non è stato toccato dalle mutazioni che hanno attraversato l’Occidente. L’Islam a differenza del cristianesimo e del giudaismo, non si è lasciato intimidire dal discorso della scienza. L’Islam dice chiaramente che cosa bisogna fare per essere un uomo, per essere una donna, un padre, una madre: prescrive, ordina, proibisce, senza esitazioni. Allah, non è un padre che comprende e perdona, ma è un dio assoluto, senza compromessi, senza dialettica. Potremmo dire che la religione islamica ha una coerenza interna e questo non sarebbe un problema se non ci fossero le estremizzazioni, se non ci fosse la violenza di gruppi radicalizzati, intolleranti verso le diversità, decisi a eliminare chiunque non la pensi come loro. Lo stato islamico, che è una deriva disastrosa della religione islamica, può così rappresentare per degli adolescenti disorientati, una bussola da seguire, un punto forte di identificazione, una soluzione che mette fine alla loro erranza e dà loro un senso di potenza narcisistica. Esso produce un’ineguagliabile esaltazione all’interno di esistenze che fino ad allora erano rimaste marginali, sbiadite, fallimentari. Nello stesso intervento J. A. Miller si chiede se le scene di decapitazione prodigate dallo stato islamico attraverso il mondo intero, generatrici di migliaia di nuove reclute, e l’entusiasmo insito in queste scene, non realizzino una nuova alleanza tra l’identificazione e la pulsione aggressiva. “Io taglio la testa dell’altro e sono nel narcisismo della causa trionfante”[2].

È forse questo trionfo distruttivo, la sensazione provata dal diciottenne assassino che ha decapitato Samuel Paty, davanti alla sua scuola?  Morto, sotto i colpi della polizia, lui non potrà raccontarlo. Per noi, spettatori dell’orrore, resta l’indignazione, lo spavento, il dolore. Resta anche molto da fare, per non soccombere all’idea di impotenza. Resta molto da fare agli educatori, alla scuola, a tutti noi che parliamo o che abbiamo a che fare con i giovani. La scuola “laica” non significa un insegnamento privo di valori ed esente di ideali, al contrario si tratta di promuovere il significato della democrazia, il rispetto delle differenze, la tolleranza indispensabile in un mondo multietnico e multiculturale. È la scuola in cui credeva Samuel Paty, il professore coraggioso che insieme alla grande Storia prevista dal programma, voleva spiegare ai suoi ragazzi la storia attuale, quella dei nostri anni, dove dei disegnatori possono morire nella redazione del loro giornale falciati dalle raffiche di un gruppo di terroristi “offesi” dalle caricature del loro profeta. Sono gli anni dove ottanta ragazzi sono morti in una notte di follia omicida, durante un concerto, dove normali cittadini sono stati abbattuti, ai tavolini di un caffè, da chi condannava il loro stile di vita. Samuel Paty sapeva che questa storia doveva essere raccontata, spiegata nelle sue classi, affinché nessun ragazzo potesse più cadere nelle lusinghe dei predicatori di violenza. Il miglior omaggio che oggi possiamo rendergli è quello di continuare a offrire una direzione solida e credibile ai giovani in cerca di risposte. Alla domanda di senso, alla vertigine davanti al vuoto dell’esistenza dei nostri adolescenti, noi adulti dovremo rispondere con qualcosa di più consistente dei miraggi di guadagno, di successo economico, veicolati spesso come i soli segni di riuscita. Dovremo proporre modelli di vita carichi di ideali, di passioni, di amore per la libertà. Modelli di vita che non siano valutabili solo sul calcolo del denaro e sulle credenze dogmatiche. Trasmettere, difendere e credere nei valori della libertà, della cultura e del rispetto, è il messaggio eroico di Samuel Paty. Lo raccogliamo come una fiaccola di speranza, se non vogliamo che l’era della globalizzazione sia anche quella della disillusione e della perdita identità e di dignità, e diventi una porta spalancata all’odio e al dilagare della pulsione di morte.

[1]  C Jacques Alain Miller, texte d’orientation de Jacques-Alain Miller lors de son intervention de clôture à la 3e Journée de l’Institut de l’Enfant. http://www.lacan-universite.fr/wp-content/uploads/2015/04/en_direction_de_ladolescence-J_A-Miller-ie.pdf

[2] Idem