I movimenti studenteschi del ‘68 o del ‘69 sono ricordi dell’infanzia, qualcuno aveva dei fratelli più grandi che occupavano i licei e le università; i nostri insegnanti avevano vissuto la guerra, erano spesso cresciuti in epoca fascista, ed erano ancora imbevuti di letteratura e cultura ottocentesca. Le immagini in televisione dei disordini di piazza erano oggetto di critica e disapprovazione da parte della maggioranza dei nostri adulti di riferimento, per i quali i bravi ragazzi e la brave ragazze non dormivano insieme nelle palestre delle scuole occupate e non partecipavano a tafferugli e assemblee sovversive.  A scuola ci si andava per imparare e per obbedire ai professori.
Più del ‘68 la mia generazione ha vissuto, in diretta, i movimenti della fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, i cosiddetti anni di piombo, quando la rivolta non si limitò più a rovesciare le macchine e a tirare sanpietrini alla polizia, ma si cominciò a sparare per gambizzare o uccidere i “nemici del proletariato”.  In quegli anni io vivevo a Padova, unica città insieme a Roma, dove allora ci fosse una facoltà di Psicologia.  Avevo amici in Autonomia Operaia, e ne avevo tanti anche in Comunione e Liberazione.  L’università era spesso occupata e noi facevamo lezione in piccoli gruppi negli appartamenti. I professori venivano nelle case e insieme continuavamo così, in “clandestinità”, l’anno accademico. Mi ricordo del professor Sadi Marhaba, che ci spiegava le Antinomie Epistemologiche della psicologia, appoggiandosi al comodino della nostra camera, mentre una decina di studenti prendeva appunti seduti sui nostri letti. Anche la professoressa Annamaria Dell’Antonio, sorella di Toni Negri, e docente di Psicologia Fisiologica, si prestava a continuare le lezioni nei caffè o negli appartamenti.  Questo non ci impediva di partecipare alle Assemblee permanenti, dove, immersi nelle nebbie del fumo di sigarette e altre sostanze, ascoltavamo compagni e teorici della “lotta continua”, alternarsi in oratorie spesso accese e litigiose.  Ricordo benissimo, quando nel marzo del ‘78 qualcuno prese il microfono e gridò: “Hanno rapito Aldo Moro”, dividendo l’assemblea in una metà attonita e sbigottita e in un’altra esultante.  Ricordo anche quando il 7 aprile del 79, andai in Università senza aver ascoltato le notizie e trovai il portone chiuso, poi si affacciò qualcuno che mi gridò: “Ma non hai sentito il giornale radio? Hanno arrestato il professor Toni Negri. Tutte le università sono chiuse. Vai a casa!
Erano gli anni in cui la polizia arrestava e picchiava i compagni, e quelli in cui i compagni irrompevano nelle aule universitarie, facevano uscire studenti e professori  e picchiavano chi non accettava. Il 14 marzo del 1979 il nostro professore di Psicologia Evolutiva, con cui feci uno dei miei primi esami universitari, Guido Petter, allora Direttore di facoltà, venne picchiato con spranghe di ferro e finì all’ospedale con trauma cranico. Proprio lui, ex partigiano durante la seconda guerra mondiale. Si diceva che in pronto soccorso avesse esclamato: “Non possono essere stati i miei studenti di psicologia; loro studiano il cervello, sanno che la testa è importante, non la spaccherebbero a nessuno”.
Osservavo e cercavo di capire, io appena diciannovenne, arrivata a Padova da una cittadina della provincia emiliana, dove la massima trasgressione mia e dei miei coetanei era quella di abbandonare l’Azione Cattolica, per aderire a Comunione e Liberazione, e appartenente a una famiglia che veniva dallo stesso paese di Giovannino Guareschi, vale a dire da una realtà dove cattolici e comunisti stavano gli uni agli altri come gli irripetibili Peppone e Don Camillo.
Poi gli anni di piombo finirono, e il paese si incamminò verso altri disastri, forse meno sanguinosi, ma ahimè,  alquanto rovinosi.
Nonostante il clima infuocato dei miei anni universitari riuscii a laurearmi nei tempi previsti, e non fu per caso che scelsi di fare una tesi in Criminologia, e mi iscrissi dopo la laurea, alla scuola di specializzazione di Criminologia Clinica presso la facoltà di Medicina legale di Milano.
La mia vita doveva ancora intrecciarsi con le ultime frange del terrorismo.  E fu proprio in prigione che incontrai le ragazze delle Brigate Rosse, nel Super Carcere di Voghera, dove ebbi il mio primo incarico come criminologa.  Quelle ragazze, quelle giovani donne, erano poco più grandi di me, molte venivano da esperienze cattoliche, molte non avevano mai usato un’arma, ma la loro partecipazione all’organizzazione eversiva le aveva portate in carcere. Quasi tutte laureate e intellettuali, si rapportavano con indulgenza nei confronti delle guardie carcerarie, e soprattutto delle “secondine”, con cui erano in stretto contatto.  Quest’ultime, erano donne spesso molto semplici, che a stento avevano frequentato la scuola dell’obbligo, la loro origine ed estrazione sociale, era lontanissima da quella delle loro carcerate. Ricordo con quanto desiderio ed entusiasmo alcune ex-terroriste cercavano di trasmettere una coscienza di rivendicazione proletaria alle loro “guardiane” indifferenti e ostili.  Assistevo a un ribaltamento di ruoli, in cui le condannate cercavano di rieducare le carceriere, e in cui due mondi improbabili e opposti si urtavano.   Eppure, tra le tante vessazioni, ritorsioni e maltrattamenti, qualche volta, un dialogo si accendeva, nelle notti di guardia, e nelle veglie angosciate delle une e delle altre.   Le terroriste venivano a fare colloqui con me, mi sembrava di poterle capire, anche se non approvare, e di poter decifrare il loro linguaggio, non so se loro capivano me, in quella mia veste di rappresentante dello Stato, eppure così critica anch’io nei confronti delle Istituzioni.  Una volta durante un Consiglio disciplinare presi le difese di un paio di terroriste, e osai dire che la loro storia era partita da valori umanitari di giustizia, ma che poi tutto si era degenerato. Fui aspramente ammonita dal direttore del carcere che mi disse che rischiavo una denuncia per apologia di reato.  Ma io sapevo che a volte basta un incontro transferiale con un professore attivista, o un incontro amoroso con qualche militante, per cambiare il destino di una ragazza o di un ragazzo. In quel carcere, mi è sembrato di toccare per la prima volta la profondità della divisione e della contraddizione umana, i paradossi delle classi sociali, le insondabili strade dei destini umani.  Quante volte avrei dovuto in seguito incontrare questi paradossi, nel mio lavoro di psicoanalista, all’interno della stessa persona, nell’esperienza di una singola vita.   Eppure quegli anni, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, rappresentano un periodo intenso e appassionato che formò  il mio modo di pensare, che plasmò per sempre il mio modo di guardare il mondo, di cercare di cogliere l’essenza sublime e tragica delle passioni umane e del loro destino, di cogliere qualcosa del mistero dell’esistenza e della complessità della convivenza sociale.