Una lingua spogliata d’infanzia

di Francesco Forlani 

La prima cosa che ho letto di Ornela Vorpsi era un saggio su una famiglia di fotografi, d’origine italiana, in giro per l’Albania del secolo scorso, intitolato Scritti di luce, e pubblicato da Derive e Approdi nel numero Shqipëria: Albania e Europa. Eravamo negli anni novanta e fu proprio Ilaria Bussoni, caporedattrice della rivista a presentarmela. Traducemmo il suo pezzo in francese e lo pubblicammo sulla nostra rivista Paso Doble inaugurando, in tal modo, un’amicizia ormai ventennale. Ne ho seguito il lavoro artistico di fotografa per tutti questi anni e per questa puntata degli italiani a Parigi ho penato a lei perché scrittrice di lingua italiana. Si è a lungo parlato della lingua letteraria di Ornela – scrive in italiano o in albanese? In francese? – accampando ipotesi tra le più strambe e che le sono costate critiche anche dolorosissime da più fronti. Come per esempio da una delle più autorevoli voci della letteratura albanese, Ismaïl Kadaré che le rimproverava di non scrivere nella lingua madre. Ho letto il suo primo grande successo letterario, Il paese dove non si muore mai nelle due lingue, la sua traduzione in francese, quando uscì (2004) e in italiano, un anno dopo. Interrogarsi sulla lingua italiana significa anche chiedere lumi a chi l’ha adottata, come quando una figlia si sceglie una madre.  L’abbiamo incontrata al Café des Arts et Métiers.

Partiamo da qui, Ornela, arte o mestiere?

Si parte sempre dal mestiere, ma per andare oltre, una volta che un mestiere lo hai acquisito, in altre terre dove si trova una dimensione che possiamo chiamare arte. 

Ci racconti di queste altre terre?

A ventuno anni nel ‘91 dopo l’Accademia di Belle Arti a Tirana, vengo a Milano per continuare i miei studi a Brera, studi che mi pagavo, all’inizio lavorando per un’agenzia di moda, Flash in via Tortona, e in seguito, in modo forse più facile come ragazza immagine. 

A Brera hai studiato tra l’altro con Francesco Poli?

Si, era il mio professore di Storia dell’arte, e per me che avevo veramente il desiderio di conoscere cosa era successo nella pittura, nell’arte contemporanea occidentale dopo aver vissuto, come tanti artisti albanesi, per tanti anni all’oscuro di quello che era successo oltre cortina. A parte poche cose imparate attraverso le canzoni o la televisione non conoscevo la lingua italiana, e all’epoca non avevo ambizioni letterarie. Per me il mondo occidentale si è aperto all’improvviso e in modo anche violento. La libertà mi ha fatto paura, ho capito che la libertà, così tanta libertà andava addomesticata. Venivamo da un modo in cui tutto era incasellato, e le nostre vite anche decise dalla nascita.  Non mi meraviglia affatto che dopo il grande esodo degli albanesi in Italia, era difficile ritrovarli perduti com’erano in una sorta di erranza per il paese. 

E in Italia trovi l’amore

Nei locali in cui ballavo una sera ho incontrato Davide ed è stato un colpo di fulmine, entrambi accecati dalla nostra giovinezza. E pochi anni dopo, nel 97 ce ne siamo venuti in Francia. A volte penso che sia stata una vera e propria fuga dall’inferno di mia madre anche se sono stati forse proprio i viaggi all’inferno in cui lei mi spediva a fare di me una scrittrice. In fondo mi ha costretto ad aprire delle porte su mondi che avrebbero avuto bisogno di essere raccontati da qualcuno e quel qualcuno ero io. 

Ma allora in quale lingua raccontarlo? Perché hai scelto l’italiano?

In effetti ho vissuto un’esperienza abbastanza assurda. Pensa che solo sei anni fa ho cominciato a scrivere in francese pur vivendo qui da molto prima. Come ti ho detto non è che avessi maturato una vera e propria esperienza della lingua italiana. Per quindici anni ero sospesa tra queste due nuove lingue, il francese e l’italiano, ed è stata quest’ultima a volere me, a scegliermi. La trovavo più flessibile, malleabile del francese. Si lasciava disfare più volentieri; attenzione, non voglio dire maltrattare, o barbarizzare, ma per una che come veniva da una lingua morfologicamente, sintatticamente altra, era come se si lasciasse attraversare senza la rigidità di certi ospiti che ti accettano in casa loro solo se lasci tutto pulito. La lingua italiana si lasciava sporcare senza fare troppe storie. Ora che posso dirmi quasi poliglotta non ti dico il traffico!

Un traffico modello contrabbando (a Ornela le scappa da ridere)

Dove ciascuna delle lingue cerca una sua supremazia, perfino dall’inglese a volte mi ritrovo pur non usandolo spesso, vuoi per lavori commissionati in certi paesi, vuoi in certe situazioni, a fare mie espressioni che solo quella lingua ha. Per esempio mi sembra che la lingua più intellettuale, filosofica sia il francese, per la prosa l’italiano. Sai certe discipline sono costruite sulla lingua, per la filosofia sono i francesi e i tedeschi ad averla scritta nel novecento e ci sono dei concetti che sono chiari in queste due lingue e opache in altre, intraducibili alla lettera. Il mio primo romanzo mi è sgorgato dentro in italiano anche se raccontavo una storia del mio paese. La lingua italiana credo si sia imposta per il suo essere la lingua perfetta come ho sempre detto, per un romanzo, ovvero una lingua svestita d’infanzia. L’italiano era una lingua straniera per me, non era la lingua della mia infanzia. Mi aveva addomesticata, l’avevo addomesticata al punto di avere conquistato un’intimità che non riesco ad avere con il francese, per esempio, anche se è la lingua con cui mi parla mia figlia. 

Com’è il tuo rapporto con i lettori italiani?

I lettori italiani devo dire che mi hanno accolto, hanno accolto il mio italiano con grandissima sensibilità, una sensibilità mediterranea che fa parte del mio orizzonte mentale. L’incontro con Ginevra Bompiani è avvenuto prima della pubblicazione. Il paese dove non si muore mai, lo voleva fare lei, se n’era proprio innamorata ma le fu soffiato da Einaudi. Un incontro che considero di vera amicizia, con una grande donna da tutti i punti di vista, come editrice, scrittrice, intellettuale impegnata, una donna rara. Con lei ho fatto un libro che avevo scritto in francese, Viaggio intorno alla madre, che è stato tradotto proprio da lei insieme a Benedetta Torrani. Mi ha detto che aveva fatto fare diverse prove di traduzione e alla fine aveva preso in mano questo mio francese che diceva essere pastoso. Lei conosce il mio passo, in italiano e in francese e dunque in grado di cogliere come nessuno il mio respiro. Di questo libro posso dirti che mi ha fatto capire la differenza tra la Francia e in Italia.  La freddezza con cui è stato accolto per aver osato toccare il mondo dei figli mi ha sorpreso molto. Le donne qui l’hanno trovato politically scorrect, addirittura Marie Claire ha scritto che era un libro immorale. In Italia invece sono state proprio le donne, le lettrici più entusiaste che sono entrate in sintonia con la protagonista, con il suo amore passionale. Forse è vero quello che mi dice spesso la mia editrice Paola Gallo, dell’Einaudi, “Ornela, tu sei terra per pochi”. Le viscere del resto non rispettano la logica, le regole cronologiche, altrimenti sarebbero cervello. Vedi anche lo spirito della lingua italiana, la sua spontaneità, è viscerale, il francese rimane molto riflessivo. 

E la cucina?

Io sono una fan sfegatata della zuppa toscana. Pensa che per fargliela mangiare a mia figlia Angelica, le dico che era il pasto preferito dai Templari. Sai, con i figli bisogna sempre ammantare le cose di mitologia.

Lo sai che sono un fan di Anna Oxa che per certi versi è stata una tua antesignana. 

Certo, padre e madre albanesi. Una voce straordinaria. Una sua canzone in particolare, Che mani grandi, che grandi occhi hai ma questo va oltre me, la conosco a memoria, anzi te la canto. 

Vorrei sapere di te vorrei sapere di più
ma c’è qualcosa che poi potresti chiedermi tu
e allora io non vorrei non vorrei dirti di più
tu sei la mia libertà tu sei la mia schiavitù.