Palermo (è) underground

La prima volta che andai a Firenze mi sentii soffocare. Il respiro cominciò a venir meno già alla stazione di Santa Maria Novella. Il fiato andò poi accorciandosi più che m’addentravo nel tessuto urbano tra i vicoli, in direzione della Piazza di San Marco.

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Palermo (è) underground

di Gianluca Cangemi

La prima volta che andai a Firenze mi sentii soffocare. Il respiro cominciò a venir meno già alla stazione di Santa Maria Novella. Il fiato andò poi accorciandosi più che m’addentravo nel tessuto urbano tra i vicoli, in direzione della Piazza di San Marco. Una compressione al torace presto mi prese, chiara somatizzazione di uno stato d’ansia. Forse non avrei avvertito l’anomalia, se fossero stati giorni d’afa estiva. Fatto sta che era inverno. Durò due giorni interi, i primi due giorni della mia prima permanenza fiorentina. Ne fui liberato quando al terzo giorno mi recai al Giardino di Boboli. Giunto che fui alla sommità della collina – la Palazzina del Cavaliere alla mia destra, a sinistra il Forte Belvedere – alla vista della città dall’alto, e più ancora dei profili di colline tutt’intorno imponenti, il sintomo svanì di colpo. Pochi istanti dopo tutto mi fu chiaro. Adesso respiravo di nuovo, mentre Storia e storie s’andavano disponendo su una linea ordinata, sciolte finalmente dai fitti grumi cui erano state costrette finché i miei sensi erano stati sollecitati a leggere, tutte insieme e costantemente, le storie che sapevo, e anche quelle che non sapevo ma che la città ti costringe a conoscere con la sua violenza didascalica. Il Medioevo toscano, il Rinascimento, il maledetto fiorino fattosi dollaro, e il Granducato, le spoliazioni napoleoniche, artisti, matematici, i trattati del buono e del cattivo governo, il turismo e il commercio, i servizi finanziari, gl’inglesi e gli americani, le borghesie – e le colte e quelle parvenues – i nazisti in ritirata, la lotta di partigiane e partigiani, bagliori di antiche ragazze di San Frediano che affiorano ancora negli occhi e nei gesti dei migranti, nel fango alluvionale sul Cristo del Crocifisso di Santa Croce, e ancora le eco modaiole ma ben presenti del post-punk e delle avanguardie rock, dei Giovanotti Mondani Meccanici, perfino di Luciano Berio e di Pietro Grossi… Tutto questo, tutto, è compresente ai sensi di chi si muove per Firenze, richiamato senza tregua. Tutto è in questa città apparente, visibile – mentre udibile, oggi, è probabile, solo a un orecchio allenato a dirimere nell’ormai pandemico rumore di fondo del capitale globalizzato. La città ti assale perfino con pubblicitario clamore – “reclamizzato”, come si diceva fino a non molto tempo fa con un interessante prestito dal francese. A Firenze il vero e il reale coincidono, financo il clamore pubblicitario ha qualcosa di paradossalmente vero, radicale, da qualche parte radicato. Per questo ebbi bisogno di recarmi nel punto più alto della città, da dove si poteva disporre tutte queste sollecitazioni in un orizzonte finalmente ampio. Finché non fu possibile al mio corpo di compiere questa operazione, mi sentii oppresso, aggredito, fin letteralmente senza fiato: a questa compresenza in superficie di Storia e storie, a questa aggressività cognitiva io non ero avvezzo.  Io ero avvezzo a Palermo, una città in cui – al contrario che a Firenze – tutto è fin letteralmente underground: sotterraneo, sommerso, interrato. Di più, non soltanto tutto a Palermo è underground, lo è anche quando (anzi, perfino quanto più) si manifesta e si rende visibile in superficie.  Nel settembre 2017 il musicista e artista Alessandro Librio ha restituito per ventiquattro ore al paesaggio sonoro del centro storico di Palermo il suono di acque fluviali, piazzando 148 altoparlanti lungo tre chilometri di tracciato. È stata una restituzione perché l’assetto urbano attuale e le arterie viarie principali della Palermo storica sono esito anche dell’interramento dei due fiumi – il Kemonia a settentrione e il Papireto a meridione – che ne hanno determinato il primo sviluppo: in antico si giungeva fin quasi nell’attuale area della Cattedrale in nave. Il nome stesso della città racconta il dato per cui si tratta di un alveo acquatico: Pan-ormos, tutto-porto.  Un altro underground acquatico della città è costituito dai qanāt (قنات ) di origine araba, di seguito ereditati dai normanni e adottati poi dai gesuiti: una imponente opera di canalizzazione delle acque dalle falde alla superficie – oggi accessibile solo in minima parte e con la guida di speleologi – ottenuta scavando una rete di canali sotterranei nella friabile calcarenite del sottosuolo cittadino.  Lo sviluppo storico stesso della città ha dunque proceduto per accumulazione, per successivi interramenti, stratificando nel sottosuolo identità su identità, frammenti di anime, tracce di storie e umanità.  Accumulazioni, interramenti, macerie, detriti, come quelli che in epoche recenti hanno determinato la rottura violenta del rapporto della città tutto-porto col suo mare, a causa del riversamento lungo la linea costiera del materiale di scavo risultante dal Sacco di Palermo. Sotto il nome di “Sacco di Palermo” va la devastazione edilizia della città, operata nei primi anni ‘60 del secolo XX dai mafiosi, dai politici loro sgherri, e dalla borghesia a essi organica che, oltre a cancellare la gran parte della storia architettonica della città fuori dalle mura antiche, ha alienato dal mare le borgate di Romagnolo, Sperone, Bandita e Acqua dei Corsari. Siti di pesca e di balneazione furono così definitivamente interrati dalle macerie della devastante espansione edilizia, e con essi le storie, i canti, le anime, i segni e le visioni che li avevano sostanziati dall’immemore fino a quel momento. A fare nuovo humus di quelle identità umane violentemente interrate contribuiscono oggi in maniera determinante le e gli artisti, progettisti, ricercatori ed educatori che dal 2014 animano l’Ecomuseo Mare Memoria Viva, nell’Ex Deposito delle locomotive Sant’Erasmo, lungo quella stessa linea costiera violentata. All’Ecomuseo ha luogo ogni giorno un’opera di rigenerazione umana da e con la comunità urbana, che riconnette le storie, i suoni e i sogni che furono al futuro che meritano: rendere visibile il sommerso, l’interrato, ciò che è underground e che, ancora una volta, costituisce l’identità di radice della città. Quasi inesorabile, allora, che, laddove a Firenze gli episodi criminali più noti e traumatici della storia recente – il “Mostro” – hanno a che fare coi guardoni, con l’evidenza violenta dello sguardo, a Palermo invece uno dei più persistenti (e infondati) miti propagandistici della cosmologia criminale della città – la setta dei Beati Paoli – abbia il suo spazio d’elezione nel sottosuolo: una congregazione segreta di sicari vendicatori che, nell’invenzione mitopoietica, si raduna e opera in un reticolo di cunicoli, necropoli e grotte situato sotto il rione storico Monte di Pietà, il Capo. A uno sguardo (e più ancora a un ascolto) profondo di Palermo non sorprende allora come non soltanto non sia davvero possibile individuare in questa città una musica, un’arte, un movimento o una subculture etichettabili univocamente e omogeneamente come Underground, ma anche che ogni tentativo in questa direzione non può che denunciare la sua provenienza dalla superficialità violenta di uno sguardo orientalista e coloniale (a volte anche tristemente autocoloniale!), che cancella gli accumuli di identità molteplici (e sotterranee) della città con categorie mercantili e polarizzanti: “Mainstream” vs. underground, “Mafia”, vs. “Antimafia”, “Tradizionale” vs. “Moderno”, “Commerciale” vs. “Alternativo”, “Rigore stilistico” vs. “Contaminazione”, “Locale” vs. “Globale”, “Accademico” vs. “Popolare”, e così via violentando, banalizzando, instupidendo, defraudando.

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Gianluca Cangemi, nato a Palermo da famiglie dell’entroterra siciliano. Lavora quotidianamente alla fioritura di musiche e altri prodotti dell’ingegno per film, sale da concerto, supporti fonografici, lavori teatrali, di danza e performativi, videogiochi, installazioni e opere editoriali. Lo fa cercando e riconoscendo chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, per farlo durare e dargli spazio. Nello specifico della fonografia, ha finora contribuito – in prevalenza come produttore – a una sessantina di album con musiche di altri musicisti e musiciste. Ha fondato Almendra Music, col collega, sodale e amico Luca Rinaudo.

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