QUATTORDICESIMO EPISODIO

Gregorio cedette alla tentazione. La serie A era ripartita da due giornate, si era deciso di far giocare le squadre con gli stadi chiusi ai tifosi, ma con i centri scommesse aperti. Una schedina era quello che, ora come ora, per Gregorio si avvicinava di più a un lavoro. È curioso notare come in questi luoghi si sia soliti usare la parola gioco, quando invece si fa tutt’altro che giocare. Era un continuo riecheggiare di congetture le quali poi diventavano ‘’investimenti’’ che erano parte integrante dei esigui bilanci dei padri di famiglia presenti. Quei foglietti svolazzanti decretavano i vezzi che quei personaggi si sarebbero concessi, o le mancanze di cui sarebbero rammaricanti e per cui avrebbero dato la colpa a qualche giocatore troppo poco reattivo e concreto. Quando si vinceva era sempre un “che ti avevo detto?” e quando si perdeva lo si faceva per un solo gol, per un arbitro venduto, per sfiga. Il tifo calcistico non c’entrava niente, si esultava ad ogni gol: Bologna, Cagliari o Sassuolo che sia, ed ogni gol era corredato da un commento tecnico che sostanzialmente significava che chi aveva segnato era forte e che il difensore era scarso.

Chiaramente il calcio non ha delle teorie scientifiche, questo da ad ognuno il diritto di dire la sua.

Fece il suo ingresso Massimo Nasca, ex procuratore della Lupa Frascati che per un anno aveva militato nella C2 del campionato italiano. Alle volte capitava che qualcuno che avesse visto giocare nelle giovanili riuscisse poi ad arrivare in serie A, non si trattava certo di campioni, nella maggior parte dei casi erano debuttanti che si trovavano nelle squadre minori ma quando diceva “io quello lo conosco, l’ho visto giocare” faceva la sua porca figura nel centro scommesse.  Era spaesante lì dentro vedere uno dell’ambiente, le conoscenze lì, si fermavano al massimo a qualche giovane promettente che in molti casi, tra sigarette alcool e pochi allenamenti poi non ce l’aveva fatta.

“Che t’avevo detto Albè! L’Inter non ce la faceva, tu mi devi ascoltà quando parlo!”

L’Inter aveva perso con il Bologna poche ore prima, La partita era stata completamente dominata dai nero-azzurri per tutto il primo tempo. Gol della prima punta interista nei primi minuti, 1-0, a venti minuti dalla fine rigore per l’Inter, palo, interno e fuori, contropiede del Bologna, come un proiettile va  Musa Juwara, giovane senegalese classe 2001 alla terza presenza in serie A, va dritto in porta superando la difesa ormai stanca, 1-1. L’Inter cercherà di segnare nel finale ma prende due traverse da fuori area. Negli ultimi minuti l’Inter completamente nella metà campo avversaria, lascia la difesa sguarnita e di nuovo Juwara realizza il due a uno. Neanche quelli del Bologna avrebbero mai immaginato un epilogo del genere, e neanche Massimo Nasca. Quando dice “che t’avevo detto” intende questo: al momento di scommettere, ovviamente sull’1 dell’Inter, disse: “comunque il Bologna non è da sottovalutare” al proprietario della ricevitoria, per poi dimenticarsene.

«Che m’hai detto?»

«Che t’ho detto? Non t’avevo detto che vinceva il Bologna?»

«Ma io non mi ricordo, ma non hai giocato l’uno?»

«Ahh che bugiardo che sei, non ti insulto perché sono un signore»

Gregorio non poteva fare a meno di ascoltare ma commentava sotto voce “testa di cazzo” ogni volta che il Nasca parlava. Nel frattempo si occupava dei suoi d’investimenti.

Quel posto era un non-luogo, una sacca spazio temporale, in cui sacrificavano il loro tempo e il misero concetto di disperazione, per Gregorio un po’ era diverso, lui ci andava e riusciva ancora a non assomigliare ai personaggi imbruttiti dal gioco e dalla vita, a quel linguaggio che pareva essere comprensibile solo ai frequentatori,  per lui la giocata era ancora la schedina e non la bolletta, che gli ricordava sempre qualcosa da pagare, come luce e gas, per cui preferiva anche in senso scaramantico non chiamarla la bolletta. Non scommetteva mai grandi somme, anche perché non ce le aveva, ma si divertiva a fumare e congetturare per pochi euro una vittoria che qualche volta l’aveva rallegrato, anche economicamente. Non quel giorno però infatti Gregorio all’ultimo minuto appallottolò il foglio e lo gettò sul muro per farlo rimbalzare nel bidone pieno di bicchierini da caffè e palline di carta. Uscì, appena fuori, ritornò al clima irreale, fatto di desolazione, di passanti mascherati, di passanti che si strofinavano le mani e il suo progetto, nato appunto in quella quarantena che non sembrava avere prossima una fine. Era quasi arrivato al portone quando si sentì salutare, «Salve Gregò», era Nasser il panettiere del quartiere,  i suoi occhi scuri, appuntiti, venivano ancor più fuori, contornati com’erano dalla mascherina, «buongiorno», rispose Gregorio come chi non capisce subito con chi ha che fare, «Come va? I bambini?»«Tutti bene, anche se tenerli tutti e tre a casa ho saputo di Bilotti, è vero che è vivo per miracolo e che non parla più?»

«Si è vero, io non l’ho visto, se non circondato dai vicini, l’ho intravisto, ma m’hanno detto che per lo spavento era bianco bianco in faccia e che parlava a gesti e suoni»

« Proprio ieri sera era passato in bottega, chi avrebbe mai immaginato cosa sarebbe successo», disse Nasser incredulo.

«Bhe chi lo poteva sapere» fece risoluto, «questo fatto, rende vive nella mia testa le parole di una poesia di un grande poeta:  Alfonso Gatto»

«E che diceva sto poeta Gregò?»

«Che diceva? Diceva…: La nostra vita non è un inezia, la nostra vita non è una eredità, non è un patrimonio di cui si possa godere impunemente: è qualche cosa che giorno per giorno meritiamo.»

«E che vor dì? Che se sei stronzo prima o poi ta pigli ar …»

«Non proprio Nasser, no, solo che non sapendo quando arriverà la fine, meglio comportarsi bene»

«Vabbè ma perché Bilotti è malamente?», chiese il panettiere con un fare un po’ affermativo nella domanda.

«No, non dico questo, solo che forse a volte potrebbe essere meno buffone, tutto qui, crede di essere sempre il migliore in tutto, forse un po’ se lo è meritato di cagarsi addosso dalla paura, può darsi che cambi. Vabbè io vado, buona giornata Nasser a presto, saluti alla signora»

«Ciao Gregò grazie, stammi bene pure tu»

Tiè tiè, fece Gregorio, “fa che porti male, ieri sera ha visto Bilotti e badabamm s’è schiantato quel pezzo di canna fumaria che per poco no l’ammazzava, meglio toccà legno va’” e si sporse verso la porta dello studio legale a piano terra, poi prese  per la consueta immersione.  Mai come in quel periodo Gregorio aveva imparato ad amare i gesti di routine, come quello di rientrare in quel piccolo buco, che ora, meno che mai, gli pareva una normale casa. Ma era tutto intenzionato Gregorio, a voler comunque girare a suo vantaggio le vicissitudini capitategli in quel confinamento.

Entrò nella stanza aiuola, aprì la finestra, fuori c’erano ancora i segni dello schianto, qualcuno aveva lasciato pure la sedia usata dalla vittima, ed ora rendeva la scena triste e teatrale, guardò l’albero, era ancora più ricco di foglie, raccolse i frutti già maturi e li mise da parte, poi corse in corridoio a prendere del legno e la sega, tutto concentrato, lavorò a tagliare di varie misure le assi prese in cantiere, passò le ore tutto concentrato a lavorare, si fermò per mangiare qualcosa e andare in bagno, per riprendere a lavorare, iniziò col fissare dei paletti  a raggiera intorno all’albero, poi passò ad inchiodarvi sopra altre assi a fare da pavimento, a fine giornata Gregorio aveva una terrazza su un albero, pareva una vedetta, irto su quel albero, fiero del lavoro svolto e con una nuova luce negli occhi.